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sabato 12 luglio 2014

La Buona Annata's History Channel: Geo Chavez, trasvolatore

Blériot aveva attraversato il Canale d'Inghilterra con una calma aumentata dal salvagente sotto la camicia, dal cielo turchino e dai gabbiani in disinteressato volo circolare. Il testardo Chavez, invece, traversò in volo per primo le Alpi, fidando nel suo ostinato ardire, ma stordito dalla frivola eccitazione che gli italiani, infidi quanto più sono ingenui, tessevano al loro intorno. Fu infatti per colpa di quegli striduli pensieri che infiammano provvisoriamente i cervelli nelle sere estive, che s'istituirono gara e premio per chi avesse tra il 18 e il 24 settembre del 1910 volato lungo il percorso Briga-Sempione-Domodossola-Milano. Alla chiusura delle iscrizioni risultarono in lista dieci piloti; ma durante i voli di prova la metà di essi dovette ritirarsi a cause d'incidenti vari. Cupe nuvole gravide di pioggia, il 18, dissuasero i cinque temerari rimasti, nessuno partì. Nei giorni seguenti rinunciarono, dimostrando ogni buon senso, Wiencziers tedesco, Aubrun francese, l'italiano Cattaneo: gli aerei erano allora teli malamente incollati come ombrelli, e i vortici di una anche lieve corrente o un temporale sarebbero bastati a rovesciarli. L'americano Weymann e il glabro Geo Chavez, pallido ventitreenne francese con passaporto peruviano, invece attesero che finissero i temporali. Il 23 da Briga alte nuvole illuminavano un'aria che si era illimpidita; e non pioveva. Ma, come fantasmi, albe nuvole basse erano in salita veloce attraverso le Alpi. Weymann vide che le correnti erano ormai troppo mutevoli, biasimò l'ovvia sciocchezza criminale degli organizzatori, pure lui rinunciò. E Chavez pareva quel mattino deciso a imitarlo; ma come tutti coloro insicuri di avere coraggio, inclinava a esagerare. Risolini di dame in altro affaccendate, e non a lui rivolti, l'agitarsi ingenuo di molti berretti, l'abitudine al volo solamente da qualche mese, il primato d'alta quota che aveva sì ottenuto, ma non meritato: il ventitreenne Chavez indossò sopra l'impermeabile alcuni maglioni. Goffo, come un pulcino ingrassato, scaldò il suo Blériot XI monoplano con motore Gnome da cinquanta cavalli, e decollò piuttosto nervoso. L'euforia di una piccola folla composta per lo più da italiani, notoriamente a loro agio in quale che sia ostentata leggerezza, sommerse il lento, sempre più lontano, andare scoppiettante del motore. Sospiri generali; ma subito delusi accompagnarono una iniziale perdita di quota del monoplano. Ma scivolò a onda e si riprese, come su una montagna russa. Salì in morbose lente spirali; e sparì, dirigendo da Briga verso il Sempione. A terra fu un unico grido: via, tutti in automobile. Così mentre il monoplano di Chavez, che era lungo e sbilanciato, ronzava nelle valli, come un zanzaro, la festante carovana di veicoli attraversava, con lui ma ben incollata a terra, quel desolato passo del Sempione bruciato di continuo dal vento. Chavez dall'alto li guardava rassicurandosi; ma tremava e non solo per il freddo. Gli parve che le mani non facessero più presa sui comandi, quando in una vertigine s'accorse che un mobile muro di turbini di vento gl'impediva d'infilarsi nel passo di Monscera. Calcolò addirittura di tornare indietro, e tentare un atterraggio sul Sempione. Ma l'aereo non virava e le ali tese dalle continue ventate e dai sali e scendi sinistramente iniziarono a scricchiolare. Si infilò senza volerlo nelle paurose gole di Gondo. E nel burrone tra due pareti scoscese non badò al farmacista Garimberti, che agitando il berrettone quasi rischiava di cadere nel baratro, soddisfatto di aver indovinato il percorso nel quale le correnti avrebbero trascinato il monoplano. Chavez distinse il pizzo, e persino il pomo d'Adamo pulsante di felicità di costui; ma non sorrise. Era tutto bianco come un lampadario d'alabastro e per la paura respirava con dei piccoli fiati nervosi ma frenetici. Arrivò in vista di Domodossola contro ogni sua già pessimistica previsione, e persino scorse un reggimento di fazzoletti bianchi e scomposti che lo salutava. Sorrise senza aprire la bocca, ma allungandola, guardò per aria, in cielo, e vide. Vide che a ogni oscillazione l'attaccatura delle ali si piegava segandosi di un poco: solo dei cavi, sempre più cigolanti, reggevano le ali sulla loro verticale. Pianse. Ma dai binocoli che si distribuivano tra la folla davanti a un lungo filare d'abeti che parevano cipressi nessuno se ne accorse. Risuonavano evviva entusiasti, ed epidemie d'applausi. Risa, congratulazioni di tutti a tutti, incassi di scommesse, signorine col muso, fidanzati che si vantavano di poterlo rifare loro, molto delusi che non ci fosse scappato ancora il morto: l'aura di fatua idiozia che accompagnò la prima trasvolata delle Alpi. Videro il monoplano lento avvicinarsi con regolare volo al prato per atterrare; cento, cinquanta, quindici metri. Già era scoppiato l'applauso, quando l'aereo s'arrestò: le sue ali si richiusero a libro. Il monoplano Blériot XI a cinquanta cavalli cadde con un rumore d'aquilone rotto tra le ferraglie. Il povero Chavez fu estratto dai rottami ancora vivo e a prima vista senza ferite, e addirittura nulla di rotto. Fu portato all'ospedale di Domodossola. Morì quattro giorni dopo, forse di stupore. "Perché non avrà sosta colui che cerca finché non abbia trovato. E quando avrà trovato rimarrà attonito e invaso di stupore."

(Geminello Alvi, Vite fuori del mondo. Mondadori, 2001)





lunedì 25 novembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Manson Talks

Approfittando del clamore (si fa per dire) suscitato dal controverso matrimonio di Charles Manson con la giovane Star, presentiamo un nastro pubblicato dalla fanzine Healter Skelter intorno alla fine degli anni Ottanta. Si tratta della traccia audio di un programma televisivo del 1986 in cui, a commentare le malefatte di Manson, troviamo - invece di Ed Sanders o Genesis P-Orridge, e forse più appropriatamente - Piero Badaloni ed Enrica Bonaccorti. A seguire una breve intervista all'agente Ted Gunderson e una dichiarazione di Manson. 





Lato A
Intervista a Charles Manson (1986) with special guests Piero Badaloni & Enrica Bonaccorti

Lato B
Intervista a Ted Gunderson (FBI) ed a Charles Manson
Manson Statement





martedì 5 novembre 2013

La Buona Annata's History Channel: O fermi o saltare

Sorprese e allarmi di Varese (Il Tempo di Milano, 8 agosto 1950)
A chi vi ritorni dopo una lunga assenza di dieci o quindici anni, diciamo, l'aspetto della cittadina e delle vicinanze immediate può riservare qualche sorpresa. Vi si arrivi da Milano o dal lago maggiore o dalla Svizzera, Varese presenta anzitutto all'ospite strade rombanti di autotreni, allineanti rigorose prospettive di officine. Ha una periferia densa e fragorosa che richiama al visitatore milanese gli alacri e polverosi suburbi di Bovisa o di Saronno. Il centro urbano, che intorno alla vecchia piazza Porcari recingeva il duomo di S. Vittore e il bel campanile bernasconiano di una trama di portici, contrade e vicoli dall'amabile impronta borghigiana, eisibisce oggi torreggianti palazzoni di funereo lucido granito o di cacioso travertino, secondo la più accreditata formula piacentinesca. Noi italiani, è noto, non concepiamo diversamente il progresso: non un innesto sulle forme ricevute e le consuetudini ma uno spogliarcene frettoloso e indiscriminato, quali che siano e checché valgano. O fermi o saltare, magari a occhi chiusi; odiamo - noi popolo saggio per tanta storia vissuta - la continuità, il paziente ritoccare, il modificare amoroso; siamo, come solo lo potrebbero essere i brasiliani o i sudafricani, per la tabula rasa degli usi e delle memorie, ignari o intolleranti di "retaggi". L'italiano è spesso conformista, non è mai conservatore; odia la tradizione, con un odio che, s'egli avesse altra tempra, si dovrebbe dir cinico. Nelle nostre città non si ha qualche volta l'idea quel che sia un pubblico lieu d'aisance, o la stazione ferroviaria è sprovvista di sottopassaggi o di cabine telefoniche: ma un angolo di strada ottocentesco, una facciata che non sia stramoderna, paiono nemici da toglier di mezzo col ferro e col fuoco, e non v'è segretario comunale che nel suo cassetto non covi un "piano regolatore" alla Barbarossa. Il Broletto varesino, così garbatamente intonato al modulo e al volto della città, è minacciato di distruzione totale, e in compenso i rosati intonaci del grave-sorridente Palazzo Estense, sede del municipio (e forse il più prestante edificio che rimanga del Settecento in Lombardia) cadono a pezzi, né alcuno pensa a suggerire i modesti lavori di restauro.
Il male del resto non è più grave qui che altrove, e non giova insistervi. Rammenterò invece una mia recente scoperta: nei pressi del Broletto, nella commerciale via Veratti, che a Varese è una piccola Wall-Street, nel retro di un negozio si apre una sala di generose proporzioni ed affrescata sino all'alto soffitto di buona mano secentesca, che dovunque, anche a Milano, potrebbe degnamente accogliere conferenze e concerti. Mi dicono che si è alla ricerca di una sede del genere, ma, a quanto mi consta, nessuno sa nulla dell'esistenza di quella sala, all'infuori dei clienti del calzolaio che vi tiene il proprio magazzino.
I varesini si occupano poco dei civici affari, come moderatamente parteggiano nell'agone politico nazionale. Cittadini esemplari, se il "videant consulens" è una virtù, essi possiedono anche questa in ampia misura. Gli animi, qui, sono volti alla bottega e all'officina. Il "genius loci" è la industria, particolarmente la piccola industria; l'stinto, la vocazione, quella di fabbricare. E fabbricare in gran serie (l'artigianato al modo fiorentino o veneziano qui non è diffuso); vi affacciate a un cortiletto della città vecchia e sarà caso non vi troviate pile di panettoni alla milanese o di tomaie da scarpe o di pompe da bicicletta, fabbricate in qualche stanza del piano superiore dall'insonne fatica di una brava famigliola di borghesi, che lavora ai panettoni alle tomaie o alle pompe col silenzioso furore di cospiratori; camminate in aperta campagna e in un casolare che dal di fuori vi avrà ispirato le più bucoliche immagini scoprirete, nascosto in cucina o nella stalla, un intero macchinario, funzionante dì e notte ad apprestare valigie di fibra vulcanizzata o bottoni automatici. La ricchezza di questo popolo premia meritatamente un fervore manifatturiero al quale in Italia e fuori non è facile trovar confronti. (...)

(Guido Morselli. Una rivolta e altri scritti, 1932-1966. Bietti, 2012)



martedì 22 ottobre 2013

La Buona Annata's History Channel: Vita intelligente su Marte

Herbert George Wells, La vita intelligente su Marte (1896)

Anno dopo anno, quando gli avvenimenti politici non sono fonte di preoccupazione, si riaffaccia il problema dell'esistenza di una vita intelligente, senziente, sul pianeta Marte. L'ultima ondata di speculazioni è stata alimentata dalla scoperta di Monsieur Javelle di una proiezione luminosa sull'orlo meridionale del pianeta. Da molti punti di vista, la luce era singolare, e, tra le altre interpretazioni, si è congetturato che gli abitanti di Marte inviassero messaggi luminosi agli abitanti ipotetici del pianeta-fratello, la Terra. Non è stato compiuto alcun tentativo di risposta. In effetti, se potessimo trasportare su Marte il nostro Astronomo-Reale con il miglior telescopio a nostra disposizione, egli non riuscirebbe neppure a scorgere una marea rossa di fiamme che attraversasse l'intera città di Londra. Il problema rimane irrisolto, e probabilmente è irrisolubile. Senza dubbio, Marte assomiglia molto alla Terra. Giorni e notti, estati e inverni marziani differiscono dai nostri solo nella lunghezza. Marte possiede terre e oceani, continenti e isole, catene montuose e mari interni. Le sue regioni polari sono coperte di nevi, e ci sono un'atmosfera, nuvole, un sole caldo e piogge moderate. Lo spettroscopio, che analizza con tanta precisione le stelle più lontane, ci dà motivo di ritenere che gli  elementi chimici a noi familiari esistano anche su Marte. Dal punto di vista chimico e fisico, il pianeta è così simile alla Terra che non esiste nessun vero ostacolo alla convinzione che su Marte, come sulla Terra, si sia manifestata l'esistenza di protoplasma, l'unico materiale vivente che noi conosciamo. Se ci lasciamo guidare dalla ragione, sappiamo che, sul nostro pianeta, il protoplasma, dapprima amorfo e disperso, è stato diretto da forze naturali fino a modellarsi nella successione meravigliosa di forme e di integrazioni che noi chiamiamo il regno animale e il regno vegetale. Perché, allora, su Marte, sotto la guida di forze naturali consimili, il protoplasma non dovrebbe essere la radice di un ramo altrettanto ricco dell'evoluzione vivente; perché non dovrebbe produrre frutti altrettanto ricchi di creature intelligenti, senzienti?
Tralasciamo le possibili obiezioni, e supponiamo che, partendo da un semplice protoplasma, ci sia stata sul pianeta Marte una evoluzione di forme organiche diretta dalla selezione naturale e da agenti affini. E' una conclusione necessaria, o anche solo probabile, che l'evoluzione sia culminata in un ordine di creature con una percezione sensoriale del tutto simile a quella dell'uomo? E' immediatamente evidente che qui sorge un problema complicato e, fino ad ora, insolubile - un problema in cui, per usare il linguaggio della matematica, ci sono molte variabili indipendenti. Gli organi sensoriali sono parti del corpo, e, come i corpi stessi e tutte le parti che li compongono, sono il risultato di una serie quasi infinita di variazioni, selezioni, eliminazioni. Ad esempio, l'isolamento geografico è stato uno dei grandi agenti di modificazione. Combinandosi, i movimenti della Terra, il sistema delle correnti, e la natura delle rocce hanno più volte spezzato la massa dei continenti e creato delle isole, e, indipendentemente da altri agenti di modificazione, hanno isolato gruppi di creature, con il risultato che questi gruppi isolati si sono sviluppati secondo linee evolutive divergenti. Soltanto uno zoologo avventato potrebbe dire che gli animali e le piante esistenti sarebbero stati quelli di oggi se fosse stata differente la distribuzione delle terre e delle acque nell'èra cretacea. Dall'epoca delle formazioni calcaree, tutti i grandi gruppi di mammiferi si sono separati dal comune ceppo indifferenziato, e si sono modellati come uomini e scimmie, gatti e cani, antilopi  e cervi, elefanti e scoiattoli. Soltanto in un sogno lontano dalla realtà possiamo supporre che i mutamenti periodici del mare e delle terre, dei continenti e delle isole, che sono avvenuti sul nostro pianeta fin dall'alba della vita, siano stati simili su Marte. La distribuzione geografica è soltanto un mutamento di una vasta sequenza di variazioni tra loro indipendenti che hanno contribuito alla creazione dell'uomo. Se diamo per scontato che su Marte c'è stata un'evoluzione del protoplasma, abbiamo ogni ragione per ritenere che le creature di Marte siano diverse dalle creature della Terra, nella forma e nelle funzioni, nella struttura e nei comportamenti, diverse al di là delle fantasticherie più bizzarre di un incubo.
Se noi approfondiamo il problema delle caratteristiche sensoriali dei Marziani, troveremo motivi ancora più grossi per dubitare dell'esistenza di creature senzienti in qualche modo paragonabili a noi. In una prospettiva metafisica - è vero - non esiste un mondo esterno al di fuori di noi. L'intero universo, dalla stella più remota all'atomo chimico più minuto, è solo un prodotto della nostra mente. Ma, in senso più lato, noi distinguiamo tra una realtà esterna e quei poveri aspetti di essa che percepiscono i nostri sensi. Noi pensiamo all'esistenza di qualcosa che non si identifica in noi stessi, sulla cui natura esprimiamo delle congetture - almeno finché annusiamo, gustiamo, tocchiamo, soppesiamo, vediamo, udiamo. Ma i nostri sensi sono le uniche sonde immaginabili dentro la natura della materia? L'universo non ha altre facce se non quelle che rivolge all'uomo? Eppure ci sono delle variazioni anche nell'ambito dei nostri sensi. A seconda della intensità delle vibrazioni, il suono prodotto da una colonna d'aria può essere alzato o abbassato al di là dell'udito dell'uomo. Tuttavia, la capacità di udire le note più alte o più basse varia da individuo a individuo. Se vi fossero orecchie in grado di ascoltare, vi sarebbero armonie e suoni articolati sopra e sotto la portata della percezione acustica dell'uomo.
Con la più piccola differenza anatomica dei loro organi, le creature di Marte potrebbero udire, e tuttavia essere sorde ai suoni che noi udiamo - parlare, e tuttavia, per noi, essere mute. Da tutte e due le estremità di uno spettro visibile in cui la luce è rotta da un prisma, si dispiegano raggi attivi, a noi invisibili. Un occhio dalla struttura appena diversa da quella del nostro potrebbe vedere, e tuttavia essere cieco dove noi vediamo. E questo accade per tutti i sensi. Anche se supponessimo che la creatura inimmaginabile di Marte avesse organi sensoriali direttamente paragonabili ai nostri, non ci potrebbe essere alcun modo in comune di misurare quello che è possibile udire, vedere, gustare, odorare, toccare a noi e a loro. Inoltre, è già una ipotesi azzardata pensare che possano essersi formati organi e sensi simili. Perfino tra gli animali della Terra riteniamo che esistano dei sensi non posseduti da noi. I nostri rapporti consapevoli con l'ambiente sono solo una piccola parte della più vasta sfera d'influenza che l'ambiente ha su di noi: perciò sarebbe facile suggerire dei sensi ipotetici diversi dai nostri. Parlando di creature la cui evoluzione si è sviluppata secondo linee diverse, e ha prodotto forme, strutture, relazioni con l'ambiente che non possiamo immaginarci, dobbiamo riconoscere come evidente che la loro percezione dell'ambiente potrebbe o dovrebbe seguire modalità a noi imperscrutabili. Nessuna visione antropomorfica è più ingenua di quella che suppone l'esistenza di uomini su Marte. Nell'universo intellettuale, una simile concezione si colloca nell'ambito delle cosmogonie e delle religioni antropomorfiche inventate dalla presunzione infantile dell'uomo primitivo.

(Il Palazzo di cristallo. A cura di Carlo Pagetti. Mondadori, 1991)





mercoledì 9 ottobre 2013

La Buona Annata's History Channel: Gallaratesi brusa balloni

Leggiamo ancora negli Annali del nostro Riva [Annali di Gallarate, del panieraio Luigi Riva, dall'anno 1760 al 1805]: "L'anno 1784, alli 26 di febbraio, essendo il giovedì grasso fecesi volare un ballone qui in Gallarate di altezza di brazi (braccia) 20 e larghezza 12, fatto a vari colori; il quale si fece volare nel mezzo della piazza nominata Pasquaro e incomincionsi ad alzare talmente nell'aria che stentavasi comprendere e andò a cadere cinque miglia lontano da Gallarate dove si dice le fornaci di Fagnano; quando alzosi detto ballone era ore venti vuna , ed calò abbasso alle ventitre circa; la forma del sudetto era simile a un uovo fatto di carta imperiale e tinta, rosso, giallo e bianco, dentro il quale vi era una padella di fuoco acceso, nella quale metevano il spirito di quelle acque che formava l'aria infiammatoria, e così restava pieno di fuoco in modo da non abruciarsi".
In una pagina seguente, l'attento cronista-panieraio ci narra che il 5 giugno 1785 si cercò di far volare un altro pallone della stessa forma, ma più grande del precedente, nella brughiera tra Busto e Gallarate, presenti moltissimi forestieri. Ma, mentre questa moltitudine di popolo stava mirando e aspettando che il pallone si alzasse, avvenne che una piccola goccia di alcool "scoppiasse" nell'interno di esso, causandone subito il totale abbruciamento, con grande mortificazione dei circostanti, specie dei gallaratesi. Tutti si avviarono presso il proprio paese malcontenti e niente soddisfatti "massime quelli di Busto", che ritrovandosi come beffeggiati di tale incendio, seguitarono gran tempo a coglionare quelli di Gallarate, dicendogli "brusa balloni" e facendo anche satire per questo. Ma il più bello e da ridere si è che "dopo l'incendio del ballone formosi subito un grandissimo temporale e tutti vennero a casa inzuppati nell'acqua che parea fossero state un lago".
Da ciò derivò lo scherzoso appellativo di "brusa balloni" ai gallaratesi.

(Luigi Aspesi, Gallarate nella storia e nella tradizione
Società Gallaratese Studi Patri, 1978)



martedì 8 ottobre 2013

La Buona Annata's History Channel: "You, too!"

Alle quattro e mezza del mattino del 14 luglio 1955 l'U-2 fu caricato su un C-124 e spedito in Nevada. Per il 4 agosto era stato montato ed era pronto a volare.
Il pilota del test, Tony LeVier, che aveva scelto come nome in codice per il progetto quello di Anthony Evans, aveva quarantadue anni, era all'apice di una carriera in cui aveva tirato il collo al P-38, per la Lockheed, e poi aveva fatto volare il primo aereo della Skunk Works, il jet XP-80. Aveva quattordici anni quando Lindbergh sorvolava l'Atlantico, e aveva immediatamente cominciato a guadagnare qualche soldo raccogliendo vecchi copertoni e altra robaccia nella sua Whittier, in California, pagando cinque dollari per la sua prima gita in aereo. Cominciando con il Waco 10, su cui volò d asolo, tre anni dopo, LeVier avrebbe fatto volare più di duecentocinquanta velivoli. Per l'epoca in cui era giunto alla Lockheed, nel 1941, era già ben noto come stuntman e come pilota acrobatico. Fece volare aerei esotici come il Mendenhall Special dal lago asciutto di Muroc, nel 1936, e vinse importanti trofei su un velivolo chiamato Schoenfeldt Firecracker. 
Alla Lockheed, fu immediatamente d'aiuto nel risolvere lo strano problema di compressione ad alta velocità dei P-38 - precursore delle onde d'urto alla barriera del suono - e avrebbe passato nell'abitacolo più ore di qualunque altro pilota di test. Nel giugno del 1944 effettuò il primo volo con l'XP-80, e quindi fece volare il suo successore, l'XP-80A, detto 'Fantasma Grigio' - quello che , tra tutti gli aerei che aveva fatto volare, era arrivato più vicino ad ammazzarlo.
Nel marzo del 1945 LeVier stava spingendo il jet oltre gli 880 chilometri orari, quando la pala di una turbina cedette e si trovò nei guai per l'improvvisa mancanza di una coda. L'aereo cominciò a cadere, e LeVier riuscì a malapena a raggiungere la manopola per il rilascio del tettuccio. Quando lo fece, la manopola gli rimase in mano. Tastando dietro il sedile, afferrò il cavo. Infine, l'aereo si ribaltò e lo buttò fuori, LeVier si accovacciò, formando una palla, aspettando che ciò che restava dell'aereo lo colpisse. Ad appena mille metri di altezza, riuscì finalmente a far aprire il paracadute.
Eppure, nonostante tutte le volte che l'aveva scampata a malapena e nonostante la sua stravaganza, LeVier divenne il più scientifico e prudente tra i piloti di test. Non era un tipo alla Yeager, con gli occhi strabuzzati, ma era ossessionato dalla sicurezza. Aveva visto morire troppa gente. Dopo il ritiro, avrebbe fondato un'organizzazione in cui insegnava pratiche di volo migliori e più sicure, ed era continuamente frustrato dalla mancanza di sostegno da parte del governo e dell'industria. Creò sistemi di sicurezza pratici e basilari come il sistema principale di luci d'allarme, l'interruttore sulla leva di controllo e l'accensore 'afterburner'.
Con l'U-2, LeVier non intendeva prendersi più rischi del necessario. Era difficile vedere fuori dall'abitacolo e ricavare un senso dell'orizzonte; volle quindi che la pista d'atterraggio recasse una serie di segnali dipinti sull'asfalto, ma Kelly Johnson, sempre attento ai soldi, trovò un po' eccessiva la spesa di quattrocento dollari. Alla fine LeVier fece mettere delle strisce di nastro sul tettuccio, per indicare l'orizzonte reale.
U-2 - Utilità 2 - era l'etichetta innocua e non impegnativa dell'aereo. Ma sulla fonte di quel nome circolava un'altra storia. 
Le lunghe ali dell'aereo gli conferivano una spinta tale che atterrare era difficile. Il primo volo si verificò per caso: Le Vier aveva portato fuori l'aereo per un test a terra, ma l'U-2 decollò. "Andò su come un angelo con la nostalgia di casa" disse poi Le Vier, più per amor di citazione che per altro. "Vola come una piccola cimice." L'unico problema era che non voleva scendere. Dall'aereo che seguiva da presso l'U-2, Johnson chiedeva con insistenza a LeVier di atterrare a muso in giù, ma l'aereo continuava a stare a muso alto - e tendeva quindi a scendere in 'ground effect', con la vicinanza del terreno che contribuiva a un suo ulteriore sollevamento e provocava un dimenarsi sul davanti e a poppa, il 'porpoise'. Dopo cinque o sei tentativi, con ira crescente da ambedue le parti, LeVier arrivò e atterrò nel modo che aveva deciso fin dal primo momento - stallò l'aereo per farlo scendere.
Una volta atterrati, Johnson e LeVier continuarono a litigare. "Che diavolo stavi cercando di fare, ammazzarmi?" diceva LeVier. Mostrò il medio a Johnson. "Be', vaffanculo."
"E vaffanculo anche tu" rispose Johnson.
Quell'anche tu, you, too, rimase appiccicato all'aereo. O almeno così dice la leggenda. 
A pochi minuti dall'atterraggio cominciò un acquazzone violentissimo, il primo da mesi.
Quella notte ci fu una gran baldoria a base di birra e braccio di ferro che Kelly, orgoglioso della forza che aveva acquisito con le assi in gioventù, incoraggiava sempre. "Hai fatto un lavoro meraviglioso" disse a LeVier, ormai calmo. Quando fecero a braccio di ferro, Johnson stese subito LeVier.
Il mattino successivo, LeVier comparve col braccio fasciato, volendo rendere pubblico il fatto che Johnson aveva ferito il suo capo pilota per i test. Ma Johnson non ricordava nulla della notte precedente.

(Phil Patton, Dreamland. Un reportage dall'Area 51. Fanucci, 2001)





domenica 22 settembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Ermes Visconti

Tra i condòmini o signori di Crenna nel Settecento si ricordano i marchesi Visconti di San Vito (di Somma), ed in particolare Carlo Francesco, che nella seconda metà del secolo è uno dei più importanti continuatori di un ramo visconteo del nostro paese. Egli sposò Margherita Dal Verme, dalla quale ebbe due figli, Ermes, primogenito ed erede del titolo nobiliare, e Giuseppe, ed una figlia, Luigia.
Ermes nacque a Milano, in parrocchia di S. Giovanni alle Quattro Facce nel 1784; ricevette la prima educazione presso i Padri Somaschi nel Collegio di Merate ove ebbe compagno Alessandro Manzoni, poi a Roma, presso il Collegio Nazareno, tenuto dai padri Calasanziani; a Modena, nel Collegio S. Carlo, terminò gli studi che gli aprirono le porte dell'Università di Pavia, nella quale e entrò nel 1803 matricola della facoltà di filosofia, ma non giunse alla laurea perché avvenimenti politici (epoca napoleonica e ritorno degli Austriaci in Lombardia) e familiari lo chiamarono a Milano.
La capitale lombarda era allora il centro intellettuale di tutta Italia: Ermes Visconti strinse amicizia con i più eletti ingegni del tempo, quali il Manzoni, Romagnosi, Porta, Cuoco, Giuseppe Bossi per il quale, il 16 maggio 1819, recitò nella Biblioteca Ambrosiana un discorso commemorativo.
Sorta la controversia tra classici e romantici, il Visconti militò con questi ultimi e si trovò a vivere in rapporti di cultura con i più eminenti scrittori e pensatori del suo tempo, entrando in grande dimestichezza con Alessandro Manzoni; s'iscrisse al cenacolo letterario romantico La Cameretta, che faceva capo a Carlo Porta e quando nel 1818 Il Conciliatore, foglio azzurro dei romantici, nacque per volere di Silvio Pellico, Luigi Porro, Federico Confalonieri e Giovanni Berchet, il nostro Ermes diede la propria collaborazione letteraria, che si espresse anche in opere monografiche, quali: Idee elementari sulla poesia romantica, completate da un Memoriale; il Dialogo sulle unità drammatiche di tempo e di luogo; l'operetta Di alcuni significati delle parole poesia e poetico; e le Postille agli Sposi promessi dell'amico Manzoni.
[...] Ma un fatto nuovo mutò completamente l'indirizzo intellettuale e il tenore di vita del nostro: nella quaresima del 1827 avvenne quello che comunemente si chiama conversione. Essa fu presentata come un'improvvisa illuminazione spirituale; ma noi, data l'educazione cristiana avuta da Ermes Visconti, possiamo ritenerla un semplice e fervoroso ritorno alla pratica religiosa, dopo un notevole periodo d'indifferenza, maturato nei contatti con l'amico Manzoni e coll'abate Antonio Rosmini, conosciuto nel 1826 tramite Niccolò Tommaseo. 
La conversione si manifestò in lui con una vita di pietà ed una pratica religiosa che confinarono con lo scrupolo; abbandonò i circoli letterari, distrusse parte degli scritti e documenti personali, quasi per rinnegare visibilmente il suo passato; scrisse ancora, ma dedicandosi alla letteratura ascetica.
Trascorse gli ultimi anni a Crenna, interrompendo il suo isolamento con qualche viaggio a Milano e a Brusuglio, per ritrovarsi con il suo grande amico, Alessandro Manzoni.
L'ambiente che si era scelto era l'ideale per le aspirazioni della sua anima: il silenzio che invita al raccoglimento e alla meditazione; la pace serena dei campi e la vita semplice e buona dei contadini, da lui largamente beneficati; l'esempio stimolante di un parroco zelante e benefico, del quale si sentiva amico.
Due letterine, indirizzate a don Ottavio Rosnati, ricordano l'interessamento di Ermes Visconti per la torre campanaria, ultimo residuo dell'antica chiesa parrocchiale, e per il nuovo concerto di campane.
[...] Nemmeno cinque anni dopo, questo "signore" beneamato da tutti, fu colpito da una violenta infiammazione polmonare che lo portò alla tomba.
L'atto del suo decesso [...] è così formulato: "March. Visconti Ermes d'anni 57, cattolico, nubile, possidente, abitante in Crenna, del March. Don Carlo Francesco Visconti e D.na Margherita Dal Verme, morì il 23 gennaio 1841 nel cimitero di Crenna; motivo della morte: peripneumonia".
Nel suo testamento, pubblicato il 22 gennaio successivo alla sua morte, Ermes Visconti dispose: "...Raccomando alla misericordia di Dio l'anima mia. Voglio che il mio corpo sia seppellito nel cimitero di Crenna, ... ponendo al luogo del suo terrestre riposo una croce di ferro inverniciato col mio nome e colle parole: Pregate per l'anima di un vostro fratello in Gesù Cristo".
Fu esaudito; il suo cadavere venne sepolto nel nostro vecchio camposanto; sulla sua tomba fu posta una croce di ferro con le parole da lui redatte, la quale scomparve quando il cimitero mutò sede; nemmeno delle sue ossa nessuno si curò; andarono disperse.
Le ultime volontà di quest'uomo umile e pieno di fede cristiana rivelano la preoccupazione di non dimenticare nessuno nelle generose elargizioni da lui disposte: il personale di casa, la famiglia del fratello Giuseppe, nominato erede universale, quella della sorella Luigia, i nipoti ed i cugini. Segue una lunga lista di donazioni ai poveri di diverse parrocchie, e di legati a varie chiese ed ospedali.
Crenna ebbe la parte più vistosa di tanta beneficenza [...]. Se è vero che "non c'è al mondo più bell'eccesso di quello della riconoscenza", dobbiamo concludere che Crenna non peccò di generosità verso questo suo condòmino, illustre per ingegno e benèfico per carità evangelica: l'aver dedicato al suo nome un vicolo è troppo povera cosa.
Anche noi abbiamo lesinato con quest'uomo che ha amato il nostro paese con intelletto d'amore profondendo a larghe mani le proprie risorse a beneficio della nostra comunità. Ci siamo accontentati di deporre sul suo capo una ghirlandetta agreste, lasciando ad altri di cingere la sua nobile fronte con una corona d'alloro.

(Eugenio Cazzani, Crenna. La sua bimillenaria vicenda. Grafica P. Luigi Monti, 1987)



venerdì 20 settembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Draghi del lago d'Orta

Questo lago suggestivo, situato nella provincia piemontese di Novara, esprime un fascino tutto particolare, un incanto sottile, e possiede anche uno dei riferimenti più famosi ai draghi. Una bellissima visione d'insieme si può godere dall'alta rupe del Santuario della Madonna del Sasso, sulla sponda occidentale.
Di origine glaciale (come gli altri grandi laghi subalpini), attualmente misura circa 13 km di lunghezza, è largo da 1 a 2 e raggiunge la profondità di 143 metri; un promontorio collinoso ad est ospita la pittoresca cittadina di Orta San Giulio, dalla quale riceve il nome.
Alimentato da alcuni torrenti e da forti sorgenti subacquee, il lago era un tempo ricchissimo di fauna e di flora, ora compromesse dall'inquinamento. L'estremità settentrionale è molto vicina al ramo ovest del lago Maggiore, al quale è in effetti collegata tramite il torrente Strona e il fiume Toce. Questa zona era certamente abitata già in epoca romana, quando il lago era chiamato "Cusius"; l'evangelizzazione si attribuisce ai santi Giulio e Giuliano, intorno al secolo IV, e da san Giulio infatti prende il nome l'isola di 30.000 mq situata verso il centro del lago, di fronte a Orta.
Narra dunque la tradizione che il pescosissimo lago fosse in antico abitato anche da uno (o più) degli ultimi "draghi" e da altri rettili minori, rifugiati in particolare sull'allora disabitata isola.
Verso il secolo IV, i fratelli greci Giulio e Giuliano dell'isola di Egina, abbracciato lo stato clericale, giunsero fino qui: il diacono Giuliano fondò una chiesa a Gozzano (all'estremità sud del lago), mentre il presbitero Giulio la costruì sull'isola del lago. Fu così che san Giulio prete dovette affrontare gli animali mostruosi dell'sola, scacciandoli e fondando nel 390 circa una chiesa dedicata agli apostoli Pietro e Paolo.
L'attuale basilica di S. Giulio fu completamente rifatta in stile romanico nei secoli XVII e XVIII; oggi è tutelata come monumento nazionale. Le ossa di san Giulio - morto secondo la tradizione a 70 anni il 31 gennaio del 400 - dapprima custodite in una piccola catacomba, furono nel 1748 vestite di abiti sacerdotali e poste in una bacheca nella cripta della basilica. Nella basilica stessa troviamo molte raffigurazioni delle imprese del santo e di draghi, fra le quali notevole un bassorilievo in pietra nera.
Tornando alla tradizione, essa narra che i mostri scacciati dall'isola si rifugiarono sulle due rive del lago; ad ovest nelle selvagge ed acquitrinose propaggini dei monti intorno a Pella, e ad est sulla riva orientale della penisola di Orta. Qui infatti, appena entrati nel golfetto di Bagnara, si trova una grotta, dalla quale sgorga una polla d'acqua dolce, che gli antichi abitanti di Orta chiamavano 'l bus d'l'Orchera. Nella grotta si stabilì appunto uno dei mostri, chiamato l'Orchera, e da questo riparo continuò a terrorizzare gli uomini. Attualmente la grotta è proprietà privata della villa Frescafonte - così detta appunto per la sorgente - situata sul lungolago della Punta Movero.
Fantasie? Forse, ma tutto ciò ebbe una inaspettata conferma dal ritrovamento, nella grotta, di una gigantesca vertebra, che aveva lo sviluppo, con le apofisi, di circa un metro!
Il ritrovamento avvenne nel 1600, ma non gioisca lo scettico, perché l'anello vertebrale esiste ancora, e lo possiamo ammirare - pur privato delle apofisi - appeso ad una catena nella sacrestia della basilica di S. Giulio!
Notiamo ancora che il ricordo dei "draghi" rimase vivo a lungo nelle tradizioni di tutto il novarese, e sopravvive ancora in una curiosa superstizione popolare: portare con sé la terra rossa dell'isola di San Giulio preserva dai serpenti. Nella stessa sacrestia di S. Giulio, nel vano di una finestra, possiamo scorgere un artistico drago in ferro battuto del secolo XV: è un esemplare dei draghi che nelle campagne si usavano portare in testa alle processioni delle rogazioni, nei giorni antecedenti all'Ascensione, con un fascetto di spighe in bocca. Al significato propiziatorio agricolo delle rogazioni, si aggiungeva così il simbolo del drago, allo stesso tempo nemico dell'uomo e dei raccolti.
Draghi mobili, con ali e code snodati, sono menzionati nelle cronache novaresi; anche il vescovo Bascapé ne fa una descrizione.
A queste tradizioni va aggiunto il culto di san Giorgio, il noto uccisore del drago. Ad esempio, nel giorno della ricorrenza del santo, una grande festa popolare si tiene a Casale Corte Cerro (Novara), paese posto nella valle che unisce il lago d'Orta con il lago Maggiore.

(Umberto Cordier, Guida ai draghi e mostri in Italia. SugarCo, 1986)





domenica 15 settembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Imperial Zeppelin

In questa uscita, fatta il 17 marzo del 1915, il capitano Lehmann impiegò una novità nel campo della ricognizione con i dirigibili. Un meccanico di Colonia, un certo Herr Hagen, aveva ideato un metodo per filare dalla cabina di comando dell'aeronave una piccola navicella d'osservazione appesa a un cavo d'acciaio. Con questo mezzo lo Zeppelin poteva restare nascosto in un banco di nuvole. La navicella con un osservatore a bordo veniva abbassata fin sotto le nubi, dove si poteva fare una completa ricognizione del terreno e della zona dell'obiettivo. Lehmann aveva fatto costruire al meccanico di Colonia un modello sperimentale in cui una specie di tinozza dotata di una pinna stabilizzante veniva abbassata da un verricello a mano, all'estremità di centottanta metri di cavo. Per essere più sicuro Lehmann stesso provò coraggiosamente l'invenzione e ne fu soddisfatto pensando che l'idea avesse grandi meriti.
A bordo del Sachsen, il congegno fu migliorato. Al verricello fu applicato un motore e la sua campana portava ottocento metri di cavo d'acciaio nel quale era intrecciato un cavo telefonico in modo che l'osservatore, da sotto le nuvole, potesse riferire direttamente alla cabina di comando sovrastante.
Nel suo viaggio verso l'Inghilterra il capitano Lehmann incontrò un fitto banco di nebbia, ma continuò a incrociare al largo della costa orientale fino al cader della notte. Poco prima di mezzanotte attraversò la linea della costa, ma la nebbia era anche più fitta, così salì a milleottocento metri di quota. Ciò nonostante non riuscì a forare la nebbia; continuò allora a incrociare sul posto nella speranza di trovare il Tamigi. Ma non ebbe fortuna.
Diresse allora per Calais, e a un tratto si accorse che alla quota di centodieci metri, sul canale della Manica, la nebbia si era dissolta, ed ebbe una splendida veduta del porto di Calais. Decise quindi di provare la sua navicella d'osservazione e fece invertire il senso di rotazione delle eliche. Un ufficiale dello stato maggiore dell'esercito, l'Oberleutnant Max von Gemmingen, nipote del conte Zeppelin, si offrì volontario di provare l'invenzione. Fu calato, mentre il dirigibile percorreva quasi un chilometro, e quindi, sospeso a circa ottocento metri di altezza su Calais, von Gemmingen, non visto dai francesi che però udivano il battito dei motori dello Zeppelin, dette le indicazioni per dirigere l'aeronave sugli obiettivi nemici e per lanciare le bombe. L'effetto fu tremendo. Gli uomini dei pezzi contraerei udivano il Sachsen, ma non potevano vederlo e non sapevano a che cosa puntare; i proiettili sparati così alla cieca furono del tutto inutili.
Dopo questa crociera fantastica, a von Gemmingen fu concessa la croce di ferro di seconda classe per la sua audacia, e bisogna ammettere che questo gentiluomo di mezza età se la meritò largamente. Non aveva un paracadute e nessuno sapeva esattamente quanto ci si potesse fidare di quel cavo.
V'è una storia molto nota le cui origini sono forse incerte, la quale racconta che il comandante Strasser decise un giorno di provare la navicella d'osservazione penzolante dal dirigibile, e fece installare una copia dell'apparato nel locale delle bombe, su una nuova aeronave. Quindi si levò in volo per provarla. L'aeronave girò sul campo parecchie volte, quindi si alzò a novecento metri. La prova di Strasser venne seguita sul campo dai comandanti e dai membri degli equipaggi delle altre aeronavi, e ognuno di loro probabilmente si chiedeva se sarebbe toccato a lui il prossimo agghiacciante esperimento.
Tutto andò bene da principio. Strasser saltò a bordo della bagnarola affusolata e quelli che osservavano dal basso notarono che la piccola navicella sembrava risentisse molto del flusso dell'aria provocato dal moto del dirigibile. La navicella dondolava e girava intorno a se stessa, quindi si vide che la pinna stabilizzatrice era rimasta impigliata e per minuto Strasser parve penzolare quasi rovesciato. Intanto il cavo si aggrovigliava nell'uscire dal verricello a mano, e a grandi spire pendeva dalla navicella d'osservazione, ma Strasser restò attaccato paurosamente, mentre tutti si aspettavano di vederlo sbalzare fuori e precipitare sul campo.
Finalmente la pinna si disimpigliò, le spire si distesero e la navicella cadde come una pietra. Per quale ragione il cavo non si sia rotto sotto quello sforzo fu un mistero, ma è certo che resisté, e il comandante del reparto dirigibili della marina agitò una mano vivacemente per rassicurare tutti che era salvo. Ignorando la sua spaventosa esperienza, Strasser si convinse che l'idea era realmente buona e ordinò che ogni Zeppelin fosse equipaggiato con un verricello e una navicella da osservazione.

(Arch Whitehouse, Le battaglie degli Zeppelin. Longanesi, 1968)




Pack your bags, we're leaving
earth, where hate is seething,
nothing's worth believing.
There's no time, make up your mind!
Imperial Zeppelin...

Quick, the engines are turning,
cabin lights are burning,
now there's no returning.
We'll have love a mile above...
Imperial Zeppelin, Imperial Zeppelin, Imperial Zeppelin!

We, the undersigned, being of sound mind, 
hereby to declare:
'We henceforth pledge ourselves
unto the power of the Upper Air.'

Doesn't that sound simply super,
Zeppelin visions of the future?
Of course we all know very well it wouldn't work, but what the hell -
every dice deserves a throw,
and when we get back home below
we can say we had a go!

Overboard we are throwing
seeds of love we are sowing,
hope to God they're growing.
Flying high across the sky:
Imperial Zeppelin!

We will try to do some good,
I don't know why we really should,
I only wish that we could!
Down below they'll see and know all about
Imperial Zeppelin, Imperial Zeppelin, Imperial Zeppelin!




giovedì 12 settembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Korla Pandit

Nato nel 1921 a Delhi da una cantante francese d'opera e da padre bramino, Korla Pandit aveva cominciato a suonare il piano all'età di due anni e mezzo. A dodici si era trasferito con la famiglia negli Usa, dove in seguito avrebbe frequentato l'Università di Chicago. Infine si era stabilito a Los Angeles, divenendo un vero e proprio maestro della tastiera. Quando nel 1935 la Hammond Co. immise sul mercato il primo organo elettrico, di certo non pensava al ruolo che lo strumento avrebbe assunto nell'ambito della musica popolare. Piuttosto aveva puntato al vasto mondo delle sonorizzazioni (radiofoniche, cinematografiche) e a un sicuro impiego in ambito ecclesiastico.
Pandit era, invece, convinto che l'Hammond avrebbe potuto rivoluzionare l'intero mercato della musica, bastava solo ampliarne le possibilità musicali.
Mentre con la mano destra mantenevo l'armonia e la melodia, con la sinistra ero in grado di ottenere effetti percussivi, - racconta il musicista. - Questo era possibile sperimentando con le timbriche che mescolavo al suono proveniente dalla pedaliera dei bassi; così potevo imitare bonghi, piatti e tom.
L'artista era in grado di evocare una vera e propria orchestra, come quelle big band che si esibivano negli anni Quaranta a Balboa e che durante gli intervalli gli "lasciavano" il palcoscenico. Pochi minuti per intrattenere il pubblico, ma a Korla Pandit erano sufficienti. Di lui si era accorto anche Art Tatum, importante pianista jazz, che lo aveva spesso invitato ad alcune session musicali tra amici. Anche Peggy Lee, Mel Tormé, i Sons Of The Pioneers o Roy Rogers avevano notato quel ragazzino indiano. Addirittura Yogananda, l'autore di Autobiografia di uno Yogi, gli aveva chiesto di esibirsi dinanzi ai suoi discepoli.
Prima di approdare in televisione Korla Pandit aveva lavorato anche con Chandu The Magician, conduttore dell'omonimo programma radiofonico. Chandu aveva bisogno di un pianista in grado di evocare lande esotiche e distanti, di meravigliare gli ascoltatori trasportandoli fin sulle rive del Gange. Solo Korla avrebbe potuto accontentarlo. Sulle note di Misirlou o di The Trance Dance i suoni dell'artista si propagavano nell'aria scatenando i sogni di fuga di migliaia di ascoltatori. Del resto erano tempi in cui solo la radio era in grado si sollecitare l'immaginazione del pubblico; e Korla era il re indiscusso di ogni fantasia pagana. Nonostante l'ampio seguito e l'enorme successo, la carriera del musicicsta sarà però costellata di discriminazioni e razzismi.
RJ Smith ricorda come negli anni Quaranta il sindacato dei musicisti di Los Angeles fosse ancora segregato e diviso in "bianchi", "neri" e "latini". Nessuna voce per gli "indiani". Pandit fu costretto a riporre il turbante, cambiare nome in Juan Orlando e farsi "passare" per messicano. Non finì qui. Un incendio distrusse i registri del sindacato e l'artista non riuscì a farsi pagare i diritti dei pezzi depositati a nome Orlando. Con la Ktla, presso cui aveva lavorato fino alla metà degli anni Cinquanta, sarebbe andata anche peggio. Nonostante il record di ascolti i responsabili dell'emittente avevano deciso di non concedergli alcun aumento. Pandit abbandonò subito il posto di lavoro. Infine la Fantasy, etichetta prevalentemente jazz con cui Pandit avrebbe inciso quattordici dischi: a stento onorerà gli impegni economici presi con l'artista.
Negli anni Sessanta-Settanta Korla Pandit avrebbe avviato la sua piccola casa discografica, la India, partecipando a seminari e concerti New Age, esibendosi nelle università e in centri quali il Philosophical Research Center.
Con il tempo la sua musica ha perso quell'alone di mistero e novità che la contraddistingueva agli esordi, e anche gli effetti percussivi con cui "strapazzava" l'organo sono divenuti una consuetudine in ambito jazz e pop. Resta comunque un nome di riferimento dell'ondata Exotica e della musica popolare americana in genere.
Echi delle sue canzoni si avvertono addirittura nei Doors e nell'organo che introduce Light my Fire, uno dei loro brani più noti. Gli stessi Beach Boys si sarebbero ispirati a lui durante le registrazioni di Smiley Smile (1967), un disco caratterizzato da un uso reiterato dell'organo e sotteso da una forte vena di misticismo. Infine negli anni Ottanta e Novanta anche gruppi come Dead Kennedys o Cramps avrebbero considerato l'artista un'importante fonte di ispirazione.
Con il revival Exotica Korla Pandit è apparso nel film Ed Wood, ha suonato dal vivo e pubblicato, nel 1996, Exotica 2000, un nuovo disco sullo stile degli album che lo avevano reso famoso. Nello stesso anno è uscito anche Journey to the Ancient City, un cd a nome Karla Pundit, divertente pseudonimo di Lance Kaufman che, imitando lo stile di Pandit e ironizzando sul suo misticismo, aveva reso omaggio al musicista indiano.Il 2 ottobre 1998 Korla Pandit è morto per cause naturali nella sua casa di Los Angeles. Nelle interviste asseriva che la sua età si aggirava "tra i 2028 e i 2039 anni".

(Francesco Adinolfi, Mondo Exotica. Einaudi, 2000)




venerdì 6 settembre 2013

La Buona Annata's History Channel: Vampirismo medianico

Si suole indicare con questa espressione un fenomeno più volte riscontrato, per il quale alcune persone sembrano avere la facoltà, più o meno inconsapevole e più o meno volontaria, di trarre energie vitali da altre persone che vivono con loro o sono loro vicine. Questi "vampiri" possono anche non essere medium e i fenomeni possono avvenire nella vita normale come in sedute medianiche.
Fin dall'antichità i medici hanno sconsigliato di far dormire nella stessa stanza un giovane e un vecchio. Le ragioni che ne sono state date, e se ne danno, sono varie e più o meno vaghe, ma evidentemente derivano da una lunga esperienza: il giovane perde vitalità a vantaggio del vecchio. Il reverendo Townsend, nel secolo scorso, citava il caso di una vecchia signora che cercava cameriere giovani offrendo loro alti stipendi a patto che dormissero nel suo letto; le ragazze deperivano in breve tempo ed erano costrette a lasciare il servizio. David Gow, che fu direttore della rivista Light, cita a sua volta casi di persone dalla vitalità aggressiva, sanguigne e corpulente, che, solo stando per un'ora o due a contatto con giovani di temperamento passivo e impressionabile, provavano un improvviso benessere mentre il giovane si sentiva prostrato. Il fisiologo tedesco Heufeland notò che i maestri delle classi elementari sono per lo più longevi e spiegava il fatto con il loro continuo contatto con giovani organismi. Il medico Robert Fielding Ould riferisce nel Journal of the American Society for Psychical Research del 1921 di un suo paziente il quale provava un improvviso miglioramento ogni volta che lo visitava, mentre egli si sentiva, all'opposto, stanco e indebolito. Miss H.A. Dallas narra che, essendo rimasta a lungo al capezzale della medium Florence Cook, alla vigilia della sua morte, se ne allontanò in uno stato di straordinario esaurimento. 
Nelle sedute medianiche è ormai accertato il fatto che le energie necessarie per le varie manifestazioni vengono attinte non solo dal medium ma anche, e probabilmente per suo tramite, dai presenti, i quali tutti più o meno ne risentono. Maxwell sperimentò una volta questo fenomeno dopo una seduta con Eusapia Paladino, constatando, col dinamometro, che i presenti alla destra della medium avevano subito una perdita di energie fino a 6 chilogrammi, quelli alla sua sinistra fino a 14. Egli stesso cadde in deliquio per sfinimento dopo una seduta in cui era stato accanto a lei. 
Crawford, sperimentando con la Goligher, notò che, dopo la seduta, i presenti avevano perso un peso che variava dai 140 ai 280 grammi e si sentivano più esauriti della medium. D.D. Home sottraeva spesso energie a chi presenziava ai suoi fenomeni, a eccezione dello sperimentatore, il fisico William Crookes, che non ne risentiva alcun danno: Lord Adare, che fu tra i primi a studiarlo, dovette abbandonare le esperienze con lui per lo stato di prostrazione in cui cadeva dopo ogni seduta. Hyslop, dopo la sua prima seduta con la signora Piper, dovette stare a letto due giorni per rimettersi dall'esaurimento. Si pensa che, in tutti questi casi, il "vampiro" sia lo stesso medium, il quale prende forza dagli astanti per produrre i suoi fenomeni, e talora in misura superiore alle energie prodigate da lui stesso.
Di norma il fenomeno non lascia conseguenze, e, nel peggiore dei casi , bastano alle "vittime" un paio di giorni di riposo per ristabilirsi. Ma vi sono stati alcuni episodi drammatici. La D'Espérance riferì nella rivista Light del 1903 un caso mortale. Pregata da una sua amica, permise che il figlio di lei, quanto mai scettico in fatto di fenomeni medianici, assistesse a una seduta, durante la quale si materializzò una personalità; il giovanotto, sicuro di un inganno, si gettò sulla forma materializzata afferrandola; questa reagì con estrema violenza mentre la madre di lui si abbatteva con un grido. Rifatto luce, la forma era scomparsa e la donna era in preda a convulsioni: morì qualche tempo dopo. Secondo la D'Espérance, la personalità materializzata, per divincolarsi, aveva sottratto ogni energia vitale alla sciagurata. Bozzano, infine, in Luce e Ombra del 1925, dà relazione di una seduta alla quale fu presente e a cui partecipavano due medium fra loro amicissimi: Luigi Poggi e Tito Aicardi. Caduti entrambi in trance, il Poggi "si avvicinò all'altro medium e prese a tracciare dei grandi passi magnetici sulle braccia di lui, cominciando dall'omero e scendendo alle estremità digitali; ogni volta facendo atto di riversare sulle proprie braccia il fluido vitale sottratto alle braccia dell'amico. Quindi fece altrettanto con gli arti inferiori... Dopo di che passò al cuore, sul quale sovrappose ripetute volte la punta delle sue dieci dita riunite, tenendole sul posto un paio di minuti per poi di volta in volta portarle sul proprio cuore. Infine passò al cervello sovrapponendo a esso la faccia palmare delle proprie mani distese e riunite abbassandole poi lentamente verso la nuca per poi toglierle di scatto e sovrapporle al proprio capo... Dopo circa un quarto d'ora si svegliò spontaneamente (caso mai capitato con lui), si guardò attorno e domandò: 'Che cosa è successo? Mi sento invaso da un benessere straordinario.' Intanto l'altro medium, sempre in trance, giaceva prostrato sul seggiolone e appariva sbiancato come un pannolino. Ci affrettammo a risvegliarlo coi soliti metodi e quando vi riuscimmo dopo reiterati sforzi, trovammo che il povero Aicardi non aveva la forza di reggersi in piedi. Egli rivolse intorno uno sguardo spaurito domandando a sua volta: 'Che cosa è successo?' Ma purtroppo il motivo della sua interrogazione era diametralmente opposto a quello dell'altro. Egli disse di sentirsi letteralmente esausto e di provare una sensazione generale penosissima come se lo avessero svuotato". Gli effetti di questo vampirismo durarono una settimana e solo dopo un paio di mesi Aicardi poté riprendere come di consueto la sua attività di medium. Inoltre si manifestò in lui un senso di antipatia verso l'amico, che perdurò per parecchi mesi e non si estinse mai del tutto.

(L'altro Regno. Enciclopedia di metapsichica, di parapsicologia
 e di spiritismo. A cura di Ugo Déttore. Bompiani, 1973)





mercoledì 28 agosto 2013

La Buona Annata's History Channel: James Douglas Morrison

Nel boom generale di economia e demografia del 1943 James Douglas Morrison nacque americano l'8 dicembre non lontano da Cape Canaveral, figlio di un ufficiale di marina pilota su una portaerei. Fu nutrito a bibite zuccherate, vitamine, bistecche e cinema. E la madre convenne col marito che mai avrebbero alzato le mani sui loro figli. A cinque anni Jim in macchina coi suoi vide dei morti d'un incidente stradale; subito gli dissero che non era vero, sognava. Crebbe paffuto, mentre a scuola l'intelletto gli era forzato a crescere prima del dovuto, come richiedono il Secolo Americano e i suoi quozienti d'intelligenza. Steve Morrison divenne "esperto d'arma atomica" e fu pure in Corea, nel 1952 a pianificare bombardamenti. Intanto Jim spingeva sulla neve la slitta d'un suo fratello contro un pilastro: provava gran piacere al rischio suo o degli altri. A quattordici anni era un adolescente educato alle buone maniere, ma già cupo e snervato. Nella Baia di San Francisco, là dove è la più grande base aerea della Marina degli Stati Uniti, Jim Morrison lesse On the Road di Jack Kerouac, mentre i giornali inventavano il peggiorativo beatnik. A North Beach vide nella vetrina della libreria di Ferlinghetti il cartello "Libri proibiti": si votò a leggerli tutti. Il padre intanto, promosso, fu comandato al Pentagono. Jim, malgrado gli abusi etilici e di droghe, fu menzionato tra gli alunni meritevoli con quoziente intellettivo 149 e voti sopra la media nazionale. Disprezzava il rock, leggeva Nietzsche e Plutarco: appena seppe che anche Alessandro Magno lo faceva, prese il vizio di inclinare la testa verso la spalla sinistra. Prediligeva Balzac. Si compiacque che Rimbaud, Whitman e Ginsberg fossero omosessuali, e Dylan Thomas un etilista. Credette a Rimbaud quando scrive che "il poeta diviene un visionario attraverso un lungo, illimitato, sistematico sregolamento dei sensi". E prese a comporre notevoli poesie; anche sui cavalli precipitati in mare dai galeoni spagnoli durante le bonacce. Per quanto ottimo nuotatore Jim aveva paura dell'acqua. Discorritore inesausto, prese gusto a esasperare chiunque. All'Università della California contro il volere dei suoi studiò cinematografia e ammirò gli scritti teatrali di Artaud. Steve Morrison era divenuto intanto il comandante d'una delle più grandi portaerei del mondo. Tagliarono i capelli a Jim e lo portarono sul ponte a sparare ai bersagli. Alla UCLA proseguì ad abusare di droga e alcol e dei discorsi su Nietzsche, Blake e The Doors of Perception di Aldous Huxley. Dopo la partecipazione allo scontro del Golfo del Tonchino, al largo del Vietnam, nel 1964 il comandante Steve Morrison sfidò a una gara di flessioni i suoi ufficiali; vinse come sempre. Era già ammiraglio, quando incontrò il figlio per l'ultima volta. Jim fallì il film che presentò al saggio di fine corso: fu deriso. Scappò. Vide la realtà fuori quadro e sentì emanare suoni dai colori usando dosi elefantiache di LSD. Giudicò di doversi sbarazzare di se stesso per arrivare ai mondi più sottili che gli angeli di Blake e Huxley promettevano. Avversando il rock, coerente, creò il gruppo rock The Doors. Musicarono alcune sue poesie. Cantò: "uccidi tuo padre e fotti tua madre". L'uso di droghe e l'alcol l'avevano dimagrato: scoprirono un morbido cupo Dioniso con uno sguardo che tutti seduceva. Il suo primo LP tirò un milione di copie: il music business s'interessò alla band. Ma a fatica ormai si riusciva a frenarlo: oltraggioso e turbolento dichiarò l'America patria dell'ipocrisia e della violenza. Né stimava il gregge che plaudente nei concerti venerava le sue pause: prese a sputar loro addosso. Ingrassò. Disprezzava i santoni. Durò così tre anni, peggiorando sempre. A Miami nel 1969 vide una seduta del Living Theatre; il giorno seguente emulo e ubriaco si calò le braghe di pelle durante un concerto. Fu denunciato. Per paradosso Morrison era rispettoso delle leggi, così come non poteva sopportare di bucarsi con un ago ipodermico. Venne assolto; depresso, nauseato dal gregge adolescente che l'applaudiva e dal music business, si dedicò a scrivere ancora poesie. Ma fu pure accusato di molestie su un aereo di linea, mentre era ubriaco. Infine, il 12 dicembre 1970, crollò nel mezzo d'un concerto. Fuggì colla sua allucinata moglie eroinomane in Europa, a Parigi, dove conobbe la prematura fine del suo sé mal cresciuto. La sera del 3 luglio 1971 nella vasca da bagno gli scoppiò il cuore. Come aveva scritto nel suo migliore verso: "Tutti i bambini sono impazziti, aspettando le piogge estive".

(Geminello Alvi. Uomini del Novecento. Adelphi, 1995)




domenica 11 agosto 2013

La Buona Annata's History Channel: Sorcerer

Le riprese del film [Sorcerer di William Friedkin] ebbero inizio a Parigi nell'aprile 1976. Per le location in America Latina Friedkin si diresse con Walon Green alla volta dell'Ecuador, dove trovò l'ambientazione ideale per la storia. Sulle Ande scoprì il posto dove costruire il pozzo petrolifero di Poza Rica, e nella cittadina di Puerto Bolivar, di proprietà della Texaco, quella che senza ulteriori modifiche avrebbe potuto essere la Porvenir del film. Purtroppo, il paese si trovava in uno dei suoi tanti periodi d'instabilità politica, il rischio di attentati terroristici era alto e la Universal si rifiutò di finanziare la pellicola a queste condizioni. Con l'intervento di Bludhorn, proprietario di piantagioni nella Repubblica Dominicana, divenne gioco forza spostarsi nella zona. Gli interessi della Gulf & Western sul posto erano tali che, sostiene Friedkin, "il Presidente della Repubblica stava sul loro libro paga", e la produzione avrebbe potuto contare su tutto l'aiuto di cui avesse avuto bisogno. I problemi, per il regista, anche produttore del film, iniziarono quando bisognò trovare il fiume adatto per la scena in cui Lazaro e Sorcerer, i due camion col carico di nitroglicerina, attraversano un ponte di legno nel bel mezzo di una tempesta. Si fecero ricerche per trovare un fiume impetuoso, di grande portata, su cui costruire la complessa armatura del ponte sostenuto e "mosso" da congegni idraulici: La scelta cadde su un corso d'acqua che in centocinquant'anni non era mai sceso al di sotto dei tre metri di profondità. Il ponte venne costruito, e un'improvvisa, anomala siccità investì il paese riducendo il fiume ad un rigagnolo. La stessa cosa avvenne con la seconda scelta, un luogo nella foresta pluviale del Messico del Sud, il budget crebbe spaventosamente (la costruzione del ponte costò un milione di dollari) e il risultato finale, per quanto straordinario, dovette essere ottenuto con l'aiuto di pompe, elicotteri, indios che buttavano detriti nel corso d'acqua per simulare la tempesta: il perfezionista Friedkin non ne rimase soddisfatto. Metà della troupe si ammalò di malaria (una sorte che toccò allo stesso regista), molti abbandonarono un set in cui l'atmosfera era tesa e, a metà lavorazione, il direttore della fotografia John M. Stephens venne sostituito da Dick Bush. Lo stesso Friedkin ammette di essere stato, all'epoca, viziato dal successo e "molto arrogante". Certo è che Il salario della paura rafforzò ulteriormente la sua reputazione di regista difficile. Dove la fortuna e il suo proverbiale fiuto per la musica invece lo assistettero, è nella scelta dei musicisti a cui affidare la colonna sonora. Durante il tour promozionale de L'esorcista in Germania, William Friedkin era venuto a sapere di un concerto tenuto in una chiesa sconsacrata nella Foresta Nera, a mezzanotte, da tre giovani musicisti. Rimasto grandemente impressionato dalla qualità delle improvvisazioni dei Tangerine Dream (questo il nome del gruppo), che si esibivano al buio in una chiesa totalmente immersa nell'oscurità, inviò loro il copione, con delle note sulla storia e sulle atmosfere del film, commissionandogli la prima colonna sonora della loro carriera. Il risultato fu l'invio di una serie di nastri che raggiunsero Friedkin sul set, dove, nonostante le difficoltà logistiche, riuscì ad ascoltarli. Con un lavoro di riadattamento durato alcuni mesi, ne trasse una delle colonne sonore più suggestive, sperimentali e inquietanti che si siano sentite in un film almeno dichiaratamente mainstream

(Daniela Catelli. Friedkin. Il brivido dell'ambiguità. Transeuropa, 1997)






giovedì 8 agosto 2013

La Buona Annata's History Channel: Faculty X

Chesterton dice: "Noi diciamo grazie quando qualcuno ci porge il sale, ma non intendiamo veramente ringraziare. Diciamo che la terra è rotonda, ma non vogliamo veramente dirlo, anche se ciò è vero". Noi diciamo qualcosa e intendiamo dirla soltanto quando la Facoltà X è sveglia, soltanto quando possiamo arrivare-oltre-i-sensi. La Facoltà X è la chiave di ogni esperienza poetica e mistica; allorché si desta, la vita acquista immediatamente una qualità nuova, intensa. Faust sta per suicidarsi, sopraffatto dal tedio e dalla disperazione, allorché ode le Campane di Pasqua; esse gli riportano la sua infanzia e la Facoltà X all'improvviso è desta; egli sa che il suicidio è l'estrema ridicola assurdità.
La Facoltà X è semplicemente quel potere latente che gli esseri umani posseggono per arrivare oltre il presente. In fin dei conti, sappiamo perfettamente bene che il passato è altrettanto reale del presente, e che New York, Singapore, Lhasa e Stepney Green sono altrettanto reali di questo luogo in cui mi trovo in questo momento. Tuttavia i miei sensi non sono d'accordo. Essi mi assicurano che questo luogo, qui e ora, è molto più reale di qualsiasi altro posto e di qualsiasi altro tempo. Soltanto in certi momenti di grande intensità interiore so che questa è una bugia. La Facoltà X è un senso di realtà, di realtà di altri posti e di altri tempi, e è il suo possesso - per quanto frammentario e incerto - che distingue l'uomo da tutti gli altri animali.
ma se l'opprimente realtà di questo luogo e tempo è un'illusione. altrettanto lo è il mio senso di essere unicamente qui, ora. "Io no sto qui; né sto altrove", dice Krishna nel Bhagavad Gita. Quindi, se la Facoltà X può rendere Strindberg chiaramente conscio della realtà di un luogo distante parecchie centinaia di miglia, non è in tal caso concepibile che ve lo possa 'trasportare' in un altro senso?
Sarebbe un errore pensare la Facoltà X come una facoltà 'occulta'. Non lo è; essa è il potere di afferrare la realtà e essa unisce le due metà della mente dell'uomo, la conscia e la subconscia.
Riflettete: che accade se un brano musicale, o l'odore di legna che arde, all'improvviso mi fanno ricordare ciò che è successo dieci anni fa? E' come toccare la zampetta di una rana morta con un cavo elettrico. La mia mente si agita e si contrae afferrando all'improvviso la realtà del tempo passato come se fosse il presente. Lo stesso accade a Marcel nel romanzo Du coté de chez Swann, allorché assapora una 'madeleine' inzuppata nel tè - il suo passato fluisce all'indietro come una realtà. Ciò che accade è che la nostra consapevolezza normalmente pigra e diffusa si mette a fuoco, come io posso serrare il mio pugno. La melodia  o l'odore fornisce soltanto lo stimolo; la mia forza interiore fa il resto - una forza interiore di cui sono normalmente inconscio.
Alcuni anni fa, gli psicologi attuarono un classico esperimento con un gatto. Un filo elettrico venne connesso al nervo tra l'occhio del gatto e il suo cervello; l'altra estremità del filo fu collegata a un quadrante per la misurazione degli impulsi elettrici. Allorché un forte rumore veniva provocato vicino all'orecchio del gatto, l'ago del quadrante girava violentemente. Poi una gabbia di topi veniva posta di fronte al gatto. Questo si mise ad osservarla intensamente. Venne fatto risuonare lo stesso rumore vicino al suo orecchio. Questa volta l'ago non si spostò. Il gatto era così intento ai topi da ignorare i rumori e, in qualche maniera, esso 'spense' l'impulso fisico tra l'orecchio e il cervello. Scelse di mettersi a fuoco su qualcos'altro.
Tutte le creature viventi hanno questo potere di 'mettersi a fuoco' su qualcosa che le interessa, e di 'spegnere' tutto il resto. Un individuo abituato a una città moderna probabilmente si sottrae al 99 per cento degli stimoli che cadono sui suoi sensi. Lo sappiamo tutti. Ma ciò che non abbiamo afferrato è lo straordinario potere che possediamo di essere capaci di metterci a fuoco su aspetti particolari della realtà. Questo potere è la Facoltà X; ma presentemente, difficilmente ce ne serviamo, essendo inconsapevoli delle sue potenzialità.
Vale la pena di chiedersi: a che serve la consapevolezza? Allorché siete profondamente addormentati, non avete consapevolezza. Quando siete molto stanchi, la vostra coscienza è come una luce fioca che non illumina quasi nulla. Allorché siete completamente svegli e eccitati, la consapevolezza sembra aumentare in numero di candele. Il suo scopo è di illuminare la realtà, di arrivare sino ai suoi recessi, e in tal modo di renderci capaci di agire su di essa e trasformarla. E' ovvio che il nostro scopo fondamentale dovrebbe essere di accrescere il numero delle candele. Allorché questo è basso, la realtà diviene 'irreale'; se aumenta, la realtà si fa 'più reale'; diviene la Facoltà X.

(Colin Wilson, L'occulto. Astrolabio, 1975)




Hope by and by, hope by and by
Motes in the eye, portcullis is shut,
A skull isn't much
Of a castle to live in
When the change is going to come,
The change has got to come,
Explosions in the brain attest to it
Evolution down the drain - let all the rest do it...
Oh yeah, the only result is cumulative drek
It won't be the drug
It won't be the sex
It's got to be the faculty X
Looking for a method, I play a straight bat,
Throw away the chances to slip.
Yeah, you talk about the average 
I don't care about that
And my words are only giving me lip
When I know that the change has got to come
Or what am I living for? Or why am I here?
I running, I give in more,
Far away from the near
Go meta-physical world, the sign that protects
It wasn't the last
It won't be the next
It's Faculty X
Reading seeks, sages, prophets and obscurantsit tracts,
Draining the elixir to the dregs...
Active yeast in the bottom is on the attack
And it leaves me without any legs to stand on
Still I hope that the change will come
Meanwhile I don't know
I think I'll have to go
Yeah, go for the governing body my consciouness elect
It won't be so clear, it won't be direct.
It's all that I fear, it's all I suspect
And I'll disappear in Faculty X
I pluck all these characters out of thin air,
I push them down into the lungs;
I infuse them with meaning as much as I dare.
Stretch out for the shoreline and wait
For the wave...






giovedì 1 agosto 2013

La Buona Annata's History Channel: Psi Power

Detta Anche "la donna che fa muovere piccole cose a distanza", [Nina Kulagina] è uno dei soggetti più corteggiati dalle autorità scientifiche e soprattutto, secondo Milan Ryzl, dalle autorità militari dell'URSS. Fu studiata intorno agli anni '50 dall'illustre ed ora scomparso prof. Leonid Leonidovich Vasiliev, in vista di possibilità, vincolate a fini segreti, che promettessero qualcosa di pratico in ordine alla scoperta di metodi di comunicazione mentale fra astronauti in orbita e persone a terra, durante i periodi di silenzio radio, oppure tra marinai imbarcati nei sommergibili in rotte polari e persone a terra, in condizioni nelle quali nessuna comunicazione era fisicamente possibile.
Oltre allo scopo di stabilire dei contatti fra esseri umani in condizioni che normalmente lo avrebbero impedito, gli studi quindi di Vasiliev e di altri nell'URSS si proponevano anche quello di mettere in atto possibili iniziative tendenti alla ricerca ed alla preparazione di un certo numero di "spie segrete" e per di più "perfette", che avessero la possibilità di carpire col mezzo mentale i gelosi segreti di altre nazioni politicamente e militarmente importanti. Pur non essendo accertato, dato il silenzio ufficiale degli ambienti scientifici e militari di quel paese, ciò è molto probabile, se le deduzioni degli scienziati e dei giornalisti specializzati europei sono esatte.
Milan Ryzl dichiara esplicitamente, e non si hanno in proposito motivi per dargli torto, che oggi "nell'URSS si è giunti ormai al boom delle ricerche parapsicologiche collegate con i problemi della sicurezza e della difesa.
Dal 1968 in poi l'interesse per le capacità della Kulagina è veramente esploso con fragore, nonostante le campagne denigratorie che contro di lei furono organizzate, utilizzando ogni motivo possibile (ivi compreso quello di certi suoi precedenti penali), per sminuirne la figura e le capacità. Stampa, radio, televisione e cinema si impadronirono del soggetto ed allora intervenne qualcosa che diede un colpo di spugna ad ogni contraria voce o parola scritta: venne unanimemente riconosciuto che nel caso in esame si era di fronte a capacità davvero eccezionali e quasi uniche al mondo e da allora Nina Kulagina fu fatta conoscere con ogni mezzo in tutti gli angoli del paese, né più né meno che come una gloria nazionale; su di lei venne realizzato anche un documentario intitolato Sette passi oltre l'orizzonte, premiato in Italia al "Festival del documentario" di Trieste.
Vari cortometraggi realizzati due anni dopo portarono alla ribalta, oltre alla Kulagina, altri soggetti tra i quali Alla Vinogradova, essa pure telecinetica, Drozhin, l'uomo che guida l'auto ad occhi chiusi ed il calcolatore prodigio Shelushov.
In Oltre le soglie dell'ignoto, uno di tali documentari, era possibile vedere Nina Kulagina che faceva muovere da lontano piccoli oggetti di diversa forma, tipo e consistenza, racchiusi in contenitori trasparenti. La cosa fece talmente sensazione che se ne sparse la notizia anche al di qua della "cortina di ferro", provocando reazioni di entusiastico interesse, ma anche di perplesso stupore, se non di misurato ma sensibile panico, sentimento quest'ultimo che in Inghilterra fece porre da qualcuno la seguente domanda ad un giornale: "E se Mrs. Kulagina fosse veramente in grado di far scattare la spoletta di una bomba atomica o di far chiudere un circuito elettrico di emergenza, cosa accadrebbe?". In breve la Kulagina divenne nota, anche attraverso le parole della scrittrice inglese Sybil Leek, socia di un circolo di maghi, come l'ultima arma della macchina militare sovietica.
(Masimo Inardi, Il romanzo della parapsicologia, SugarCo, 1976) 




When I was a kid in school
They showed me symbols on a card
Then they sent them from a locked and bolted room
I had to fake that it was hard
Circle, square, triangle, waves
I got them crystal clear by the hour
And all I said was "may I please take a rest?"
I didn't want them to know I was possessed
With Psi Power
Psi Power
Psi Power

I can read your mind like a magazine
I see where you're at I know what you mean
I get all the secrets that you'd rather keep

When I was a teenage kid
and I hung around the streets
I could see inside the mind
of any girl that I wanted to meet
Wave, triangle, circle, square
They opened to me like a flower
How would you like to have your mind caressed?
Can't you feel that I'm possessed
With Psi Power
Psi Pwer
Psi Power

I can read your mind like a magazine
I see where you're at I know what you mean
I get all the secrets that you'd rather keep

Psi Pwer
Psi Power
Psi Power
I can read your mind like a magazine
I see where you're at I know what you mean
I get all the secrets that you'd rather keep

It's like a radio you can't switch off
There's no way to get peace of mind
I'd like to live inside a lead-lined room
And leave all this Psi Power behind
Circle, square, triangle, waves
It's a gift that soon turns sour
Why don't they let me get some rest?
It's too muche to understand and to digest

Psi Pwer
Psi Power
Psi Power
I can read your mind like a magazine
I see where you're at I know what you mean
I get all the secrets that you'd rather keep