lunedì 26 ottobre 2015

Magia nel sonno profondo

Non siamo soliti dedicare particolare attenzione ad avvenimenti che si ripetono dovunque e tutti i giorni: per lo meno, non li consideriamo meritevoli di una ricerca approfondita.
Tutti gli esseri viventi dormono; lo fanno persino le piante quando arriva il momento. Magari, neppure il fatto che le pietre non russino, ci autorizza a ritenere che non dormano.
La considerazione che sin dalla nascita alterniamo di continuo veglia e sonno, non permette che in noi sorga un sentimento di meraviglia, allorché impariamo ad avvederci che, spesso senza un motivo in apparenza sufficiente, perdiamo in pochissimi minuti conoscenza e la riprendiamo al risveglio altrettanto rapidamente. E' molto raro che il tale o il talaltro un bel momento si chieda: cosa mi accade esattamente durante il sonno profondo?
La questione non è risolvibile di primo acchito e così si lascia la risposta al... medico! La si potrebbe lasciare altrettanto bene ad un avvocato. Chi non indaga di persona in questo campo o in campi simili, non conquisterà mai la conoscenza; al massimo arricchirà, nel corso del tempo, il suo patrimonio linguistico di quella terminologia greca che caratterizza le scienze psicologiche e fisiologiche.
Si riderebbe in faccia a chi affermasse che, nel regno del sonno profondo, son sopite le cause prime da cui provengono quelle azioni che portiamo a compimento durante la veglia. L'erudito obietterà: se così fosse, coloro che non dormono da lungo tempo - e sono noti i casi di persone che non hanno dormito per anni! - piomberebbero nell'abulia più totale.
Una tale confutazione è corretta solo in apparenza; chi vi rifletta con attenzione, sarà in grado da solo di comprendere perché essa non può reggere. Anzitutto, se un essere umano è in grado di dimostrare inconfutabilmente di non aver mai dormito nel corso della propria vita, si dovrebbe sottoscrivere la convinzione corrente che il sonno sia semplicemente un riposarsi e null'altro! Esistono, al contrario, innumerevoli indagini - riproposte in ogni epoca - che dimostrano come, almeno in certe condizioni, durante il sonno si conseguano risultati superiori, addirittura sul piano della pura razionalità, di quanto si sia in grado di fare durante la limpida coscienza di veglia.
Per far qui un esempio a tutti ben noto: uno studente - credo che più tardi divenne una personalità molto in vista - si alzò, una notte, in stato di sonnambulismo e risolse un compito di matematica che aveva lasciato sul suo tavolo la sera prima. Lo fece in modo così perfetto che gli sarebbe stato impossibile durante la veglia, viste le scarse cognizioni che possedeva sulla materia. Alzatosi, il mattino seguente, ritenne che qualcun altro avesse portato a termine il lavoro; lo riconobbe come di sua mano solo dalla calligrafia: a tal punto aveva del tutto dimenticato ciò che aveva fatto fisicamente durante il sonno. 
La convinzione corrente che il sonno abbia, come scopo esclusivo, il superamento della stanchezza corporea, è totalmente falsa.
I sonnambuli si svegliano - come mi sono potuto convincere ripetutamente, persino dopo faticosissimi vagabondaggi notturni di parecchie ore - altrettanto freschi dell'uomo più sano del mondo, se non addirittura molto più riposati.
Il vecchio adagio che dice: "quando l'uomo terreno chiude gli occhi, li apre quello spirituale", oltre al noto consiglio espresso dal proverbio: "dormici sopra prima di decidere", ed a molte altre sentenze, indicazioni e cenni pratici, mi hanno, già dalla prima giovinezza, rafforzato nella vaga convinzione che vi possano essere sorgenti di forza e sapere magici talmente lontani dalla nostra coscienza di veglia da costringerci ad immergerci profondamente nei recessi del sonno, se vogliamo accostarci ad esse. 
Il perno è nel sonno profondo: lì è il punto d'appoggio dell'universo, sul quale può essere poggiata la leva di Archimede per far uscire le stelle dalle loro orbite. Questo è però uno dei compiti più difficili che ci si trova dinanzi, sul sentiero dell'autodominio. Sono necessari, per raggiungerlo, determinati ausili di pensiero. Su dieci esperimenti ne son falliti, per quanto mi riguarda, nove buoni. 
Voglio qui descrivere due casi in cui gli esperimenti ebbero successo.
Una sera - si era nel 1895 a Praga, mi coricai con il proposito di recarmi "spiritualmente" durante il sonno (o di trasferirmici) nell'appartamento, a me sconosciuto, di un mio amico, il pittore Arthur von Rimay, che allora frequentavo molto e che, come me, era particolarmente nel campo dei problemi metafisici. Volevo, così mi ripromisi, far risuonare a distanza nella sua camera alcuni colpi di bastone.
A tal scopo - o, più precisamente, per poter meglio immergermi nell'autosuggestione che mi ero riproposto - mi misi a letto, tenendo un bastone da passeggio stretto in mano e sforzandomi, al tempo stesso, di addormentarmi.
Avevo la sensazione di dover calmare il battito cardiaco, se volevo trattenere un pensiero.
Questo lo si può ottenere facilmente, grazie alla via traversa della regolazione del respiro e del sentimento.
Grazie ad un "caso" mi riuscì di addormentarmi di colpo. Seguì un sonno breve, profondo, completamente privo di sogni, simile alla catalessi. Un senso di terrore quasi folle mi assalì d'un tratto e mi risvegliò dopo circa dieci minuti. Ero in un bagno di sudore freddo ed il cuore martellava in modo talmente forte da darmi il soffocamento. Al tempo stesso, ebbi la singolare certezza interiore che l'esperimento fosse riuscito.
Guardai l'orologio e annotai l'ora. Mi sforzai dunque per ore di frugare nella memoria, alla ricerca di qualche ricordo che mi potesse dare un chiarimento su come avessi agito a distanza: tutto era immerso in un'oscurità impenetrabile: "Quindi ho trovato il perno!", dissi a me stesso. Ero talmente curioso da no riuscire ad attendere che si facesse giorno.
Verso le dieci di mattina mi recai, come al solito, dal mio amico. Stavo in agguato, attendevo che mi comunicasse qualcosa, Invano: parlava di tutto, tranne che di eventi notturni di qualsiasi genere. Dopo un po' gli chiesi titubante: "Non hai per caso sognato qualcosa di strano, stanotte, o...?".
"Allora eri tu!" m'interruppe il mio amico. Lo lasciai raccontare, senza pronunziare una sola parola. Mi disse: "Stanotte, poco dopo l'una (e l'ora era quella che risultava anche a me), mi sono improvvisamente svegliato, spaventato da un forte rumore proveniente dalla camera vicina; era come se qualcuno stesse battendo sul tavolo con un bastone a intervalli regolari. Quando il rumore divenne più forte saltai dal letto, corsi nella camera accanto e accesi la luce.
"Si era appena fatto chiaro che anche il rumore prese tosto un timbro diverso; era ancora molto forte, ma aveva un tono come di distanza, quasi un'eco. I colpi provenivano dal grande tavolo che si trovava nel centro della stanza. Non si notava nulla di strano. Alcuni minuti più tardi sono arrivate mia madre e la vecchia governante, in un comprensibile stato di angoscia. Erano state anche loro destate dal rumore e credevano che ci fossero i ladri in casa. Dopo un po', il rumore si fece sempre più debole, sino a che tacque del tutto. Scuotendo il capo ci rimettemmo infine a dormire".
Così il racconto del mio amico Arthur von Rimay, che oggi vive a Vienna e può confermare in qualsiasi momento che quanto scrivo è la pura verità.
"Ma perché non mi hai raccontato tutto questo subito, da solo? Perché hai aspettato che ne parlassi io, per quanto solo per vaghi accenni? E' abbastanza strano, no?" domandai.
"Riesco a spiegarmi la cosa, a questo punto, soltanto in un modo", fu la risposta esitante. "E cioè che la profonda impressione che mi aveva provocato il fatto, si sia stranamente dileguata nel corso delle ore di sonno che l'hanno seguito; direi quasi di avere l'impressione di aver soltanto sognato (adesso sento la cosa così distante da me)  se non ne avessi parlato, appena un paio d'ore fa, a colazione con mia madre. Di' un po', hai veramente fatto risuonare i colpi di bastone a distanza grazie ad un'azione della volontà?"
Per dimostrarlo gli mostrai un biglietto sul quale avevo annotato, durante la notte, in brevi frasi, quanto avevo in animo di tentare.
Per quanto singolare fosse il fatto in sé, mi sembra ancor più significativa la circostanza concomitante che la cosa era rimasta impressa nella memoria del mio amico in maniera completamente diversa da come avviene per i fatti della vita di tutti i giorni. A rigore, si dovrebbe ritenere che essa, proprio grazie alla sua straordinarietà, sarebbe dovuta rimanere invece ben più profondamente impressa nel ricordo!Più tardi potei constatare che in casi simili, ed in particolare nelle sedute spiritiche e medianiche, gli avvenimenti magici sono poco ancorati nella memoria o mostrano la tendenza a dileguarsi rapidamente.
Alcuni anni più tardi mi ammalai gravemente. Mi stavo spostando, una volta, col treno, dal santuario Lahmann, vicino Dresda, verso Praga. Si era nei pressi di Pirna, quando, nello scompartimento, mi venne, con mio grande rincrescimento, improvvisamente in mente che mi ero dimenticato di scrivere qualcosa di molto importante per il rapporto con la mia fidanzata - oggi mia moglie - ed oltretutto avevo indirizzato la lettera al suo indirizzo, invece che, come usavo fare, al fermo posta. Ambedue gli errori potevano distruggere il nostro futuro.
Inviare un telegramma era impossibile, per diversi motivi. La fronte mi si coprì di sudore. Impossibile trovare una scappatoia a tale situazione! Mi ritornò in mente quell'esperimento con il mio amico Arthur. Ciò che allora era riuscito, poteva funzionare un'altra volta!
No, doveva funzionare, dato che v'era in gioco tutto! Mi ripromisi di apparirle dinanzi... alla luce del giorno! Ma come? Allo specchio, mi venne l'idea. Voglio comparirle davanti e le comparirò - decisi - con la mano alzata in cenno di ammonizione e le trasmetterò il pensiero: devi fare questo e quest'altro!
Espressi l'ordine in chiare parole, rappresentandomele impresse in lettere di fuoco, ad occhi chiusi, sino a che non potessero più scomparire dall'immaginazione.
A questo punto non rimaneva che addormentarsi il più rapidamente possibile e trasferirsi a Praga!
Fare del cuore un apparecchio trasmittente, rallentandone i battiti: questa era la chiave, ed al tempo stesso astrarre i sensi dal mondo circostante! Gli occhi si possono chiudere facilmente, ma come fare con le orecchie, quando a destra ed a sinistra ci sono delle donnette schiamazzanti?
Implorai risolutamente il mio cervello: fa dunque che diventi sordo, vecchio mio! Ma sembrava che anche lui fosse sordo. Alla fine fu il cuore, così mi parve, a togliermi dì'impaccio, dato che un'altra volta, come allora, piombai d'un colpo in un sonno profondo.
Mi risvegliai dopo pochi minuti. Il mio polso era questa volta straordinariamente lento: contai non più di quaranta battiti! Contemporaneamente provai un sentimento di vittoria, così consolante e rasserenante, come raramente mi è capitato di provare in tutta la mia vita! Volli provare a far sorgere nel mio petto un mezzo sentimento di dubbio, per mettere alla prova tanta sicurezza interiore; da tutto il mio corpo sgorgò una risata, come se esultasse in me ogni goccia di sangue.
Appena giunto a Praga mi precipitai dalla mia fidanzata. la trasmissione di pensiero aveva ottenuto pieno successo! Così mi riferì la cosa lei: "Quel pomeriggio, ad una certa ora, circa mezz'ora dopo pranzo, mi ero coricata sul divano, quando fui vinta da una singolare sonnolenza. Mi ero appena assopita, quando mi sentii scuotere e mi risvegliai. Il mio sguardo si posò...".
"Sullo specchio!" la interruppi.
"No, non ci sono specchi in camera mia", ribatté la fidanzata. "No, su di un mobile lucido vicino al sofà. Sulla sua superficie riflettente vidi una figura alta circa due spanne, avvolta in un mantello chiaro, con la mano alzata in tono di ammonizione. L'immagine svanì poco dopo".
Dalla conversazione più dettagliata che nacque da ciò, risultò che mia moglie aveva fatto tutto ciò che io desideravo; solo che l'aveva fatto molto più compiutamente e meglio di quanto io avessi immaginato. E ciò che doveva fare non era punto facile, né le sarebbe venuto in mente senza il mio avvertimento, dato che avrebbe dovuto essere a conoscenza di certi particolari, che effettivamente ignorava. "Ho come ubbidito ad un'ispirazione", fu il suo commento.
Il mago medievale Agrippa di Nettesheim pronunziò la frase: "Nos habitat non tartara sed nec sidera coeli: spiritus in nobis qui viget, illa facis".
All'incirca: "Né le stelle del cielo, né l'inferno: in noi è solo lo spirito a tutto operare... ".
Questo motto è divenuto per me una guida per la mia intera esistenza. (Magie im Tiefschlaf, in Die Gegenwert, Literatur & Unterhaltungsbeil, Der Saarbrucker Zeitung, 18 febbraio 1928)

(Gustav Meyrink, Il diagramma magico. Basaia, 1983)





martedì 20 ottobre 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: Solo andata

Joe Gibson era in qualche posto più in su dell'inferno, ma non sapeva affatto dove, e non gliene importava un accidente finché quel bancone del bar restava davanti a lui. Ora stava ridendo, mentre qualcuno cantava con voce triste e lontana. Lui disse: "Sì, un altro", e poi... 
Ecco comparirgli davanti quel tipo col soprabito marrone.
Uno strano tipo dall'aria un po' pazza: teneva le mani ficcate in tasca, il bavero sollevato e la falda del cappello abbassata, come un gangster da strapazzo in un film poliziesco.
Il pazzoide stava parlando, ma ci volle un buon minuto prima che le parole raggiungessero il cervello di Gibson e acquistassero un senso.
"Il tuo guaio, amico, è che hai bisogno di un po' di vacanza", diceva il pazzoide. "Diciamo che devi cambiar aria".
"Certo, certo", annuì Gibson, cercando il bicchiere. Lo aveva perso da qualche parte in mezzo alla nebbia.
"Ti ho osservato, amico", continuò il pazzoide. "Mi son detto: ecco un uomo nei guai. Ecco un uomo che ha bisogno di tirarsi fuori da qui. Tu mi sembri perso, amico".
"Certo", disse Gibson. "Certo, sono un'anima persa. Vuol bere qualcosa oppure togliersi cortesemente dai piedi?".
Quel piccolo pazzoide non gli diede minimamente retta.
Continuò a parlare con voce tremendamente seria. Una vecchia zitella.
"Lavoro per la Ace Travel Bureau, socio. Ti piacerebbe comprarti un biglietto?".
"Per dove?", chiese Gibson, come se gliene importasse.
Il pazzoide in soprabito marrone scrollò le spalle: "Che ne diresti di un biglietto per Marte?", propose.
Gibson lasciò che la cosa gli galleggiasse nel cervello per un buon minuto. Poi sorrise: "Marte, eh? Quanto mi verrebbe a costare?".
"Oh, non so. Per te poco. Diciamo due dollari e ottantotto".
"Due dollari e ottantotto fino a Marte? Mi sembra molto ragionevole". Gibson fece una pausa. "Andata e ritorno o solo andata?".
Il pazzoide tossicchiò come per scusarsi.
"Uhm... solo andata. Vedi, non siamo ancora riusciti a trovare il modo di organizzare il viaggio di ritorno".
"Immagino che non venderete molti biglietti", commentò Gibson.
"Abbiamo i nostri clienti", disse il tizio in soprabito. "T'interessa, allora?".
"No, non credo", Gibson trovò il bicchiere. Lo sollevò attraverso la nebbia e ingollò lo scotch con un brivido.
"Allora t'interesserà qualche altra occasione, forse", insisté il pazzoide.
"Senta, lei... ", sbottò Gibson all'improvviso.
"E' da un po' di tempo che ho il tuo nome sulla lista, amico, bofonchiò il pazzoide. Sembrò non essersi accorto che Gibson aveva stretto la mano a pugno intorno al bicchiere.
"So che presto o tardi faremo affari".
"E se li facessimo subito?", disse Gibson, tra i denti.
Tirò indietro la mano, ruotando il corpo, pronto a spaccare il muso al pazzoide. Tese i muscoli e pregustò l'attimo in cui avrebbe colpito il segno, duramente. Il pugno scattò... e volò via al di là delle stelle, nell'abisso di tenebra. Joe Gibson seguì il pugno e precipitò attraverso le tenebre in un tunnel, sempre più giù, più giù.
"Ah! Ma che bella botta ti sei preso, ieri sera", esclamò Maxie, agitando la tazza prima di avvicinarla alle labbra di Joe Gibson. "Sbronzo eri... sbronzo marcio".
"Chiudi il becco", disse Gibson.
"Il grugno contro il pavimento del bar, K.O.", insisté Maxie, obbligando la gola riluttante di Gibson a ingurgitare il contenuto della tazza.
"Dimenticatene", disse lui, non appena poté parlare di nuovo.
Maxie scrollò le spalle.
"D'accordo, amico", annuì. "Io me ne dimenticherò. Meglio così... Ti organizzo un affare da cinquecento alla settimana con l'orchestra jazz più in voga del circondario, e tu che cosa mi combini? Te ne vai in giro a farti veder ciucco da mezza città, e poi vai giù lungo disteso come il tizio che fa la parte principale in Billboard. E mi dici di dimenticare. A questo punto sono disposto a dimenticare tutto, il che comprende anche te".
Gibson si rizzò a sedere sul letto. Si mosse molto svelto per un uomo in preda ai postumi di una sbornia.
"No, Maxie", esclamò, "non intendevo farlo. Davvero non volevo. Mi spiace, non avrei mai preso a pugni quel tizio se non avesse cominciato a fare lo scemo con quella storia di Marte. Io me ne stavo lì a farmi i fatti miei, quando lui si avvicina e comincia quello sproloquio su un viaggio. Così gli ho tirato un cazzotto e sono caduto sulla faccia".
Maxie lo fissò.
"Ho visto mentre succedeva, Joe", mormorò. "Tu eri in piedi al banco del bar, e non c'era nessuno intorno a te per un raggio di tre metri. Hai cominciato a borbottare, fra te e te, poi ti sei girato di scatto, hai mollato un pugno e sei crollato giù per il conto a dieci, dopo avere sventagliato l'aria".
"Ma quello svitato col soprabito marrone... ", cominciò Gibson.
"Non ho visto nessuno svitato con un soprabito marrone", fece Maxie, lentamente. "Tutto quello che ho visto, è stato uno svitato di nome Joe Gibson che è finito lungo disteso a terra, ubriaco fradicio".
Gibson sospirò: "E' così che è andata?".
"Proprio così".
"Ho avuto le traveggole", e rabbrividì.
Maxie si sedette sul letto.
"Ti ricordi i vecchi tempi, Joe?, gli chiese. "Tu eri un disgraziato venuto da Kansas City, quando ti tirai fuori da quel buco del Rialto. Suonavi alle festicciole a tariffe non sindacali. Io ti scoprii e ti procurai gli ingaggi. Ti feci lavorare. Feci emergere il tuo stile".
"Dove tieni il violino?", replicò Gibson. "Le tue parole hanno bisogno di un bello sfondo di musica zuccherosa".
"Non ti sto sviolinando", ribatté Maxie. "Ti sto semplicemente dicendo... ".
"Che cosa mi stai dicendo?", Joe si drizzò completamente, scostando la mano che Maxie gli aveva appoggiato sulla spalla. "D'accordo, allora. Mi hai tirato fuori dalla fogna e hai fatto di me un cornettista super. Non un comprimario, un super. Grosso quanto basta per un Goodman, uno Shaw, un Miller, chiunque, insomma. Ma certo che l'hai fatto! Sono proprio io quel Joe Gibson, il tizio che soffia il proprio cuore fuori dal tubo. Tu sei senz'altro capace di distinguere qualcosa di buono quando ti capita a portata di mano, perciò d'accordo, sei tu che mi hai fatto. Ma ti prendi il tuo dieci per cento, no? Sono io il musicista. Tu sei soltanto uno spacciatore di carne umana".
Maxie non batté ciglio, ma il suo sorriso era triste.
"Non è questo, Joe", sospirò. "Non voglio niente di più di quanto mi spetti. Tu eri un bravo ragazzo. Hai lavorato duro. Ma non più, adesso".
Si alzò dal letto. "Non capisco", proseguì. "Prima c'è stato quel numero fuori programma a Scranton, quando ti sei presentato ubriaco sul podio. E il modo con cui quasi tagliavi la corda da quell'orchestra che avevo messo su per la Rainbow Room. E quella volta che ti ho tirato fuori da quel pasticcio a Chicago, quando non ti sei presentato per la registrazione alla Decca. Fra quella tua pupattola sballata e il whisky ti stai facendo una bella reputazione... "Joe Gibson, uno dei migliori trombettisti sulla piazza! Ma non impegnate denaro su di lui, perché si è fatto un nome anche con le pupattole bionde e il bourbon".
Joe Gibson era quasi piegato in due sulla sedia. Teneva la testa china e singhiozzava.
"Va bene", concluse Maxie. "Non so che cosa ti abbia preso. Non so che cosa ti faccia paura. Forse ne uscirai tutto all'improvviso. Non farmi promesse, però. Vedrò che cosa potrò fare. Forse riuscirò a sistemare quell'ingaggio, il resto dipende da te. Prenditi un po' di riposo, verrò da te domani".
Maxie uscì. Lui scivolò sotto le coperte. Il suo volto smise un po' per volta di contrarsi. Si preparò a dormire.
E il telefono squillò. Gibson fece scivolare la mano sul ricevitore, dal lato del letto.
"Pronto", disse una voce familiare. Gibson non riuscì a identificarla e grugnì sommesso.
"Stavo ripensando", disse la voce, "alla nostra piccola conversazione della scorsa notte. Non hai ancora deciso niente per quel viaggetto su Marte?".
Lui sbatté giù il ricevitore con un colpo secco. La sua testa scomparve sotto le coperte, e giacque lì, rabbrividendo e singhiozzando a lungo.

La serata inaugurale fu perfetta.
Doveva esserlo, la settimana precedente era stata un vero inferno. Maxie aveva lavorato come un cane per ricucire il contratto. Durante le prove Joe Gibson aveva sudato tanto da eliminare l'alcool dal suo organismo.
Ora sedeva sul podio dell'orchestra in attesa della prima battuta, e stringeva la cornetta in grembo, pronto. Sapeva che tutto stava andando per il meglio.
C'era soltanto una cosa sbagliata: i suoi occhi. A Gibson facevano male gli occhi. Gli facevano male a causa di tutte le volte che li aveva strizzati nel corso della settimana precedente. Li aveva strizzati per fissare i volti tra la folla, le facce che vedeva dall'imperiale degli autobus o attraverso i finestrini.
Joe Gibson cercava qualcuno, un piccolo pazzoide con un soprabito marrone. E aveva paura di vederlo. E per qualche ragione aveva ancora più paura perché finora non l'aveva ancora visto.
Ora guardò giù, verso la pista da ballo in penombra, accecato dai riflettori proprio sopra la sua testa, e strizzò un'altra volta gli occhi.
Dunque, gli occhi gli facevano male, anche se per tutto il tempo continuò a illudere se stesso che ogni cosa andasse bene, e che quella era soltanto un'altra serata inaugurale fra le tante. Però spasimava in attesa del momento in cui avrebbe portato la tromba alla bocca, soffiando via tutte le paure e le preoccupazioni, l'ossessione di dover strizzare gli occhi e i pensieri che si celavano sotto quelle strizzate.
Le mani che stringevano la tromba tremarono e stille di sudore comparvero sulla superficie dello strumento.
Un ultimo sguardo frettoloso alle tavole che circondavano la pista da ballo: nessun soprabito marrone.
La battuta d'inizio.
Joe Gibson sollevò la sua tromba.
Allora era tutto a posto. Davvero.
La gente ballava. Joe Gibson smise di preoccuparsi di cercare nella calca. Teneva gli occhi chiusi, era fuori da questo mondo. Cavalcava verso le stelle su una tromba, innalzandosi in volo a tempo di boogie.
Era eccitante, meraviglioso, qualcosa a cui aggrapparsi. Si avvinghiò a ogni nota, riluttante a farsela scappare. Voleva una cavalcata solitaria, voleva suonare la sua tromba, tenere gli occhi chiusi, tenere il cervello chiuso a qualunque cosa fuorché alla musica. Fuori da questo mondo.
Tutto andò bene. Tutto liscio e perfetto fino all'intervallo.
Poi Gibson si accorse che la sua camicia e il suo falso sparato erano inzuppati di sudore e lo smoking era strappato sotto l'ascella sinistra. Fino a quel momento era stato troppo eccitato per accorgersene. Gli altri ragazzi stavano lasciando il palco per andarsi a fare una fumata e la folla stava sgomberando la pista da ballo.
Gibson si alzò. Vide Maxie che lo aspettava lì accanto, mise la tromba nella custodia, si raddrizzò e si avviò in fretta verso i gradini dietro il palco.
Diede un'occhiata alla pista deserta... La pista deserta non era del tutto deserta.
Una macchia marrone roteò fuori, oltre il bagliore delle luci... Una figura danzava intessendo un assolo. Con un'impeccabile scivolata la figura fu all'improvviso vicina la podio, e lui riconobbe il volto sotto la falda abbassata del cappello e poi sentì il mellifluo bisbiglio: "Mi sono goduto la tua musica. Credo che adesso tu sia quasi pronto per il viaggio fino a Marte".
Gibson si precipitò giù dal podio con un solo balzo. Ma non fu abbastanza rapido... Il soprabito marrone scomparve ondeggiando fra i tavoli. nessuno sembrò accorgersi dell'altro, ma tutti videro Joe Gibson saltar giù dal podio e correre urlando fuori dalla sala, in strada.

Joe si sentì tranquillo finché Maxie restò nella stanza con lui, ma poi quel mediconzolo disse a Maxie di uscire, e cominciò a parlare a Joe da solo.
Il mediconzolo era un tipo dalla voce calma e affabile, che sembrava conoscere il suo lavoro. Maxie aveva detto che era il miglior psichiatra disponibile, e Maxie di queste cose se ne intendeva.
Ma adesso Maxie era uscito, Joe era disteso sul divano con una luce abbagliante davanti agli occhi, e il mediconzolo gli diceva di rilassarsi, di prenderla con calma, di smettere di pensare e di dire, semplicemente, qualunque cosa gli fosse venuta in mente.
A Joe ciò ricordava troppo quei film di gangster dove il protagonista veniva sottoposto al terzo grado. Ma, a pensarci bene, era sempre meglio starsene distesi piuttosto che il mediconzolo si mettesse a battergli il martelletto sul ginocchio, facendogli magari stendere le braccia a occhi chiusi. Quello sarebbe servito a controllare i suoi riflessi, ma a Gibson non importava niente dei suoi riflessi. Lui aveva paura dell'uomo col soprabito marrone, l'uomo che si era letteralmente volatilizzato in strada la notte in cui gli aveva dato la caccia fuori dal night, rimettendoci il posto.
Cominciò a spiegare tutto questo al mediconzolo, scegliendo cautamente le parole, poiché non voleva assolutamente che quello psichiatra si mettesse in testa che lui soffriva veramente di qualcosa.
Lui non sentiva voci, o cose del genere. Non c'era niente di sbagliato nella sua testa. Soltanto, continuava a vedere quel pazzoide.
Ma il mediconzolo insisté con le sue domande, e ben presto riuscì a far ammettere a Joe ogni genere di cose... non tanto ammettere, in verità, quanto ricordare. Un bel po' di faccende confuse e pasticciate di quando lui era bambino. Assurdità .
Come, ad esempio, la sua abitudine di sgattaiolare nella cantina piena di carbone quando il suo vecchio litigava con la vecchia. Laggiù, lui finiva per addormentarsi, e sognava di non trovarsi affatto nella cantina: non si trovava, in effetti, in nessun luogo. In quei sogni non c'era nessuna cantina col carbone, e neppure il primo e il secondo piano della casa. Non c'era un "fuori", e neppure gente. C'erano soltanto il buio e Joe Gibson.
Joe riferì al mediconzolo un sacco di cose confuse come quella. Più restava lì, con quella vivida luce negli occhi, più riusciva a ricordarne. Raccontò di quando aveva avuto la sua prima tromba, e di come aveva continuato a esercitarsi in casa, dimenticando del tutto le bande dei ragazzi con cui aveva giocato in strada.
Raccontò di come aveva ottenuto il primo lavoro, e di come era scappato via senza ritirare la paga. Poi passò a spiegare perché gli piaceva la musica... soprattutto quella del tipo in cui non si dovevano leggere le note, ma bastava suonarla fuori dalla propria testa, una musica che ti sparava su di giri più e meglio di qualunque alcoolico.
Poi si rese conto che la storia della sua vita si stava avvicinando troppo al presente, e che lui avrebbe dovuto raccontare dell'uomo col soprabito marrone, ma non voleva farlo, e perciò prese a parlare a voce più alta, diffondendosi in mille particolari, ma non funzionò, perché finì per sputar fuori tutto, e il mediconzolo cominciò a sparagli una domanda dopo l'altra a bassa voce, e lui disse, sì, che aveva visto quell'uomo al bar, e no, non aveva uno strano aspetto, e sì, l'aveva visto in viso, e quell'uomo aveva la pelle intorno alla bocca come un fazzoletto di carta spiegazzato.
Buffo... Joe non si era mai ricordato di com'era la pelle intorno alla bocca di quel pazzoide col soprabito marrone, fino a quando il mediconzolo non gliel'aveva chiesto.

Ora provò un vivo sollievo, come se si fosse tolto un grosso peso dallo stomaco. Perciò raccontò anche il resto, quello che lui aveva risposto, l'informazione che il tizio lavorava per l'Ace Travel Bureau, e che il biglietto per Marte costava due dollari e ottantotto, solo andata. Gli disse degli altri clienti di cui quel tizio gli aveva parlato, e di come lui era svenuto, crollando a terra, quando aveva tentato di dargli un pugno.
Gli riferì anche della telefonata, e della nuova comparsa del tizio sulla pista da ballo. E continuò a insistere col mediconzolo che, quest'ultima volta, non aveva toccato alcool, eppure aveva visto quel piccolo pazzoide dal soprabito marrone con identica chiarezza, perciò non era pazzo.
Il mediconzolo sorrise, rassicurò Joe e chiamò dentro Maxie. Poi uscirono insieme e parlottarono a lungo nella stanza accanto, senza che Joe riuscisse a capire che cosa dicevano.
Il mediconzolo rientrò e gli fece vedere un elenco telefonico con le Pagine Gialle. Lo aprì sulle pagine delle agenzie di viaggio, e non c'era nessuna Ace Travel Bureau sulla lista.
Questo fece sentire un po' meglio Joe, fino a quando il mediconzolo non cominciò a chiedergli che cosa sapesse del pianeta Marte. Quasi subito capì a che cosa stava mirando quel tizio, e si chiuse come un'ostrica. Il mediconzolo gli chiese che cosa significasse per lui il numero 288, e Joe fece il finto tonto.
Allora lo strizzacervelli sorrise e lo invitò ad alzarsi. Gli disse che avrebbe dovuto ritornare un paio di giorni dopo per sottoporsi ad alcuni test.
Maxie disse a Joe di recarsi all'albergo da solo, lui sarebbe arrivato quasi subito, dopo aver saldato il conto allo psichiatra.
Così Joe si alzò e uscì.

C'era un paziente nella sala di attesa, immerso nella lettura del National Geographic, ma quando Joe attraversò la stanza, il paziente mise giù la rivista e Joe vide l'ometto col soprabito marrone.
"Ti ho fatto preparare il biglietto", disse quel pazzoide. "Puoi partire oggi stesso, se vuoi".
Joe non disse nulla. Restò lì a fissare la pelle increspata intorno alla bocca del tizio, e i minuscoli occhi protetti dalla falda abbassata del cappello. Fissò il soprabito marrone tutto coperto di macchie e i buchi delle tarme sul bavero logoro.
Respirò profondamente e percepì l'odore del soprabito e qualcos'altro, qualcosa di vecchio e stantio.
Così Joe seppe che non soltanto poteva vedere e sentire, ma anche annusare quell'essere; per tutto il tempo il piccoletto aveva continuato a sorridergli e adesso s'infilò la mano in tasca. Joe seppe che stava cercando il suo biglietto per Marte.
Questa volta Joe era pronto. Gli balzò addosso in un lampo, sentì le sue dita chiudersi intorno a qualcosa, e strinse, strinse, strinse, per strangolare; tutto divenne rosso, e nero, e ancora rosso, e qualcuno urlava, molto in distanza, ed era lui, Joe, che urlava, ma ben presto non seppe più nulla perché perse i sensi.

Quando Joe Gibson si risvegliò, giaceva di nuovo a letto e si sentiva bene, molto bene.
Sulle prime non ricordò che cosa fosse successo, poi gli ritornò in mente tutto. Lui era saltato addosso a quell'ometto dal soprabito marrone, naturalmente. Si chiese se non l'avesse ucciso. Ma no, non poteva averlo fatto, altrimenti adesso si sarebbe trovato in prigione, e non nella sua stanza d'albergo.
Tuttavia, si sentiva bene. Avrebbe voluto far festa.
Maxie entrò nella stanza. Lui non aveva l'aria di stare granché bene.
Joe cominciò a dirgli che adesso tutto era a posto, ma Maxie borbottò qualcosa su un attacco che aveva avuto nello studio del mediconzolo. Joe, che proprio lì, nella sala d'attesa, aveva avuto la prova di non esser pazzo, ammise di aver avuto l'attacco, ma non disse niente sul fatto che aveva stretto le mani intorno alla gola del pazzoide col soprabito marrone.
"Credo che ora mi vestirò e andrò fuori a fare una passeggiata", disse Joe.
Sapeva che a Maxie l'idea non sarebbe piaciuta, ma si sentiva troppo bene perché gl'importassero le opinioni dell'altro.
Ma Maxie non cercò di fermarlo. Disse invece: "D'accordo", e si sedette sul letto, accendendosi un sigaro mentre lui si vestiva. Fissò il tappeto e si accigliò, quando Joe cominciò a fischiettare.
"Joe", disse Maxie.
"Sì?".
"Tu non andrai a fare nessuna passeggiata".
"Chi lo dice?".
"Devi prendere le cose con calma".
"Certo, le sto prendendo con calma. Rientrerò fra un'ora".
"No. Non è questo che intendo, Joe. Te ne starai a letto a riposare, invece. In una clinica".
"Che cosa diavolo... ".
"Ho parlato col dottore. Verranno a prenderti fra mezz'ora. Ma non è niente di cui tu ti debba preoccupare, sarai fuori di nuovo in... ".
Ah, pensò Joe, era così che andavano le cose! Ora capiva.
Si avvicinò allo scrittoio.
"Che cosa fai?".
"Prendo le sigarette. Non preoccuparti. Tutto è a posto. Ho capito tutto".
"E' per il tuo bene", riprese Maxie, senza guardare Joe.
"Certo che lo è", disse lui, e aprì il cassetto.
"Nessun rancore?", chiese Maxie.
"Nessun rancore", disse Joe.
Si girò di scatto e sparò due volte a Maxie con la pistola che aveva tirato fuori dal cassetto, centrandolo allo stomaco.
Lui non era pazzo, e non si era mai sentito meglio in vita sua, altrimenti non avrebbe capito così perfettamente come stavano andando le cose.
Scese al piano terra e pagò il conto coi soldi che aveva trovato addosso a Maxie, poi prese un tassì. Se fosse riuscito ad arrivare nel Jersey all'ora di punta prima di cena, non avrebbero mai più potuto ritrovarlo.
Così andò alla stazione, fece il biglietto e agguantò il treno delle 17 e 14, quando il convoglio aveva già cominciato a muoversi. Mentre percorreva il corridoio scoppiò a ridere, perché si ricordò che il piccolo svitato dal soprabito marrone era morto. Ora non c'era nulla di cui preoccuparsi, eccetto quella folla, tutta quella gente. Lui voleva star solo per un po' e pensar bene alla prossima mossa.
perciò cercò il gabinetto all'estremità della carrozza, aprì la porta ed entrò. La lampadina non funzionava. Faceva buio là dentro, ma Joe poteva vedere fuori dal finestrino.
Gli ci volle un buon minuto perché i suoi occhi riuscissero a mettere a fuoco la scena, ma poi vide quello che c'era fuori. Soltanto una grande distesa di vuoto con le stelle che sfrecciavano, abbaglianti.
Poi la porta si aprì. Il controllore, pensò Joe. Ma il controllore indossava un soprabito marrone e il suo cappello aveva la falda abbassata. Una mano si protese a prendere il biglietto di Joe.
Lui fissò il biglietto alla luce delle stelle e lesse il suo nome e il prezzo e la destinazione, e poi non gli restò altro che starsene lì ad aspettare, mentre continuava a sfrecciare via, fuori da questo mondo.

(Robert Bloch, Il dio che uscì dalla tomba. SIAD, 1979)






lunedì 12 ottobre 2015

Buon Compleanno Alessandro!

Questo post è dedicato all'amico Alessandro, senza il cui aiuto questo blog - cari lettori - non esisterebbe. Dal momento che attualmente vive a Parigi la grande ville con la sua signora postiamo un brano dei grandissimi Malicorne. Ci pare inoltre un'idea particolarmente astuta per farci perdonare il (consueto) ritardo. Buon Compleanno!