martedì 25 novembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Enoch Soames

Riassumerò la singolare, incredibile biografia di Enoch Soames. Poeta satanista inglese, autore di due libri di poesie, Negazioni e Fungoidi. Morì a Londra o piuttosto sparì a Londra nel 1897, ad un'età che si calcola tra i venti e i trent'anni. 
Non ho letto le sue poesie, ma suppongo che siano opera di un genio. Come tutti i geni Soames subì il disprezzo dei critici e l'indifferenza del pubblico. Tuttavia egli non dubitava del valore della sua poesia, opinione che non condivise con nessuno, neppure con il suo unico amico, il disegnatore e letterato Max Beerbhom (1872-1950). 
Un giorno, in un piccolo ristorante di Soho, scommise con Beerbhom che cent'anni dopo sarebbe stato più famoso e più ammirato di Shelley e Byron. Sfortunatamente nessuno dei due sarebbe vissuto abbastanza per vederlo. Un signore, seduto ad un tavolo vicino, li udì. Si alzò, si avvicinò a Soames e si presentò senza ambagi: - Il Diavolo, ai suoi ordini.
Poi si offrì di trasportarlo nella Londra del 1997 in cambio dell'anima, come di norma in questi casi. Soames accettò. Il Diavolo fece schioccare le dita in aria e Soames disparve istantaneamente. Il diavolo salutò Beerbhom e se ne andò, Beerbhom rimase stupefatto.
Un'ora più tardi riapparve Soames, ridotto ad uno straccio. Raccontò a Beerbhom la sua breve escursione nel futuro. In sintesi era questo: era andato alla biblioteca del Museo Britannico, dove sperava di trovare cento schede con il suo nome, successive edizioni dei suoi due unici libri, successive traduzioni, biografie, tesi universitarie, studi critici, saggi apologetici.
- Pensavo - disse ed insinuò a Beerbhom - che lei avrebbe divulgato il mio patto con il Diavolo. Pensavo che si sarebbero interessati a me almeno per questo. Pensavo che dopo avrebbero riconosciuto il mio genio. 
Ma nello schedario non trovò nulla. Chiese antologie, dizionari, enciclopedie: niente. Chiese storie della letteratura inglese e della poesia inglese, storie della letteratura e della poesia inglese dell'Ottocento e di fine Ottocento: niente.
Sì, qualcosa c'era. Nell'indice dei nomi della Selezione di saggi letterari di un certo T.K. Nupton, edita nel 1995, trovò questo riferimento in corsivo: Soames, Enoch: v. p. 274. Cercò la pagina 274 e lesse: "Uno scrittore di quell'epoca, Max Beerbhom, pubblicò un racconto in cui un personaggio fittizio, chiamato Enoch Soames, un poeta di terza categoria che si crede un genio, fa un patto con il Diavolo per sapere che cosa avrebbero pensato di lui i posteri. E' una satira un po' forzata, anche se con qualche pregio".
Quando Soames, ancora stordito per il viaggio nel tempo e per i vergognosi risultati ottenuti, cessò di parlare; quando cominciava a comprendere l'atrocità che non aveva compreso prima, e cioè che Beerbhom avrebbe sfruttato i suoi ragguagli per fabbricare un racconto e che lui, Soames, sarebbe sopravvissuto soltanto come personaggio di questo racconto; quando Soames già guardava Beerbhom con orrore, riapparve il Diavolo e se lo portò via.
Per vari mesi Beerbhom si dedicò a fare quello che Enoch Soames gli aveva insinuato: pubblicò su quotidiani e riviste articoli sul caso Soames, pubblicò una foto (l'unica) di Soames, ottenne e pubblicò le testimonianze di varie persone che l'avevano visto o conosciuto, si dice che avesse cercato senza successo l'atto di nascita di Soames. Alla fine riuscì a provare che Soames era esistito, che il nome dell'autore di Negazioni e Fungoidi non era uno pseudonimo e che nel 1995 il signor T.K. Nupton non avrebbe rispettato la verità storica. 
Ciò nonostante, nessuno gli credette. Tutto il mondo letterario pensò che Max Beerbhom scherzava. I più maligni sospettarono che stava montando una farsa pubblicitaria a suo esclusivo vantaggio e a beneficio di qualche libro che stava per pubblicare e che si sarebbe intitolato Il caso di Mr. Enoch Soames o roba del genere. L'intromissione del Diavolo toglieva verosimiglianza alla storia di Soames. Per il resto, nessuno trovò, o nessuno cercò, nelle librerie qualche copia di Negazioni e Fungoidi
Nel 1908 apparve The Modern English Poetry Thesaurus di sir Edward Bridges e Soames non vi figura. Nel 1910 Ezra Pound pubblica il suo Spirit of Romance, dove parla ampiamente della poesia satanista, e Soames neppure vi figura. Nel 1913 Holbrook Jackson dà alle stampe un Saxon Literature Catalogue, minuzioso fino all'esasperazione, e Soames brilla per la sua assenza. Nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale, tra i cui segreti propositi c'è quello di relegare nel discredito e nell'oblio tutto il passato. E nel 1919, appena terminata la guerra, Max Beerbhom può pubblicare un libro di racconti (sottolineo, racconti) intitolato Seven Man, dove intrufola la storia di Soames, adulterata e presentata falsamente come letteratura fantastica. 
Intravedo, in tutto ciò, un vasto complotto, una determinazione minuziosamente architettata e realizzata: evitare che Soames sappia, nel 1997, di essere stato un genio. E per aggiungere al danno il ludibrio, nel 1995 perdurerà soltanto la mistificazione di Beerbhom e il signor T.K. Nupton (senza colpa da parte sua, se guardiamo bene) sosterrà impunemente che Enoch Soames è un personaggio fittizio. 
Ma chi sarebbe capace di organizzare e portare a termine una simile congiura? Non certo la stupidità degli uomini, né la loro incredulità nell'esistenza del Diavolo. Neppure l'invidia dei letterati. Ci sono sempre stati dei geni ignorati in vita, ma nessuno è mai stato condannato ad un vasto imbroglio postumo che dura da quasi un secolo. Fa lo stesso che l'iniziativa sia sua o che obbedisca agli ordini dell'Altro.
L'unica cosa che importa è che Soames fu punito per aver venduto l'anima a causa di una mera vanità letteraria. La punizione, terribile, consiste nella sua metamorfosi, da uomo in carne ed ossa qual era, in un personaggio di finzione, nel protagonista di un racconto di Max Beerbhom. Nessuno potrà più riscattarlo da questa condanna. E il peggio è che nuovi Enoch Soames seguiteranno a vendere la loro anima allo stesso prezzo pattuito da Enoch Soames per la sua.
[Marco Denevi, Enoch Soames, da Falsificaciones, ora in Obras Completas, Corregidor, Buenos Aires, 1980]

(L'altro cielo. Racconti fantastici argentini. A cura di Lucio D'Arcangelo. Lucarini, 1989)




lunedì 24 novembre 2014

Sedici anni


Per Stella




One of these days
When you figure, figure it all out
Well be sure to let me know
Well I'll be waiting right here
Come and whisper in my ear what it is I want to know
One of these days, gonna get into it way on ever our heads
And you'll find there's no place to hide
But if you fight and if you fail, don't fall back into yourself
You can fall back on me
One of these days
When you figure it, figure it all out
Put your lips against my ear
Tell me it all
Or tell me just a little bit, you know
You know it's what I wanna hear
One of these days
When you figure it, figure it all out
Well be sure to let me know
Well I'll be waiting right here
Come and whisper in my ear what it is I wanna know
One of these days
When you figure, figure it all out
Put your lips against my ear
Tell me it all
Or tell me just a little bit, you know
You know it's what I wanna hear


martedì 11 novembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Genesi e catastrofe (storia vera)

"Tutto è normale," stava dicendo il dottore. "Basta che stia sdraiata e tranquilla." La sua voce si perdeva nello spazio, era come se parlasse a voce altissima. "Ha un figlio."
"Cosa?"
"Le è nato un bel bambino. Mi capisce? Un bel bambino. Non l'ha sentito gridare?"
"E' tutto a posto, dottore, sta bene?"
"E' sanissimo, naturalmente."
"Me lo faccia vedere."
"Lo vedrà fra un momento."
"E' proprio sicuro che stia bene?"
"Assolutamente."
"Piange ancora?"
"Ora cerchi di riposare. Non c'è assolutamente nulla di cui preoccuparsi."
"Perché ha smesso di piangere, dottore? Cos'è successo?"
"Non si agiti, per favore. Tutto è normale."
"Voglio vederlo. Me lo faccia vedere, per favore."
"Cara signora," disse il dottore, "lei ha avuto un bel bambino, sano e forte. Non mi crede?"
"Che cosa sta facendogli quella donna?"
"Lo sta preparando, lo sta mettendo in ordine per lei. Lo stiamo lavando, ecco tutto, e lei ci deve pur concedere un minuto di tempo."
"Mi giura che sta bene?"
"Glielo giuro. Ora rimanga sdraiata, su riposi. Chiuda gli occhi, su, chiuda gli occhi. Così va bene. Brava figliola..."
"Ho pregato e pregato perché viva, dottore."
"Ma certo che vivrà. Che diavolo dice!"
"Gli altri no, dottore."
"Che cosa?"
"Nessuno degli altri miei figli è vissuto, dottore."
Il medico rimase in piedi accanto al letto, osservando la faccia pallida e sfinita della giovane donna. Non l'aveva mai vista prima, era arrivata col marito da poco in quella città. La moglie dell'albergatore, che era salita per assistere la partoriente, gli aveva detto che il marito lavorava alla locale dogana di confine e che i due erano capitati lì improvvisamente, con un baule ed una valigia, circa tre mesi prima. Il marito era un ubriacone, aveva detto la locandiera, arrogante, prepotente, borioso, ma la giovane donna era gentile e pia. E molto triste; non sorrideva mai: da quando era lì, l'albergatrice non l'aveva vista sorridere neppure una volta. Si diceva anche che quello fosse il terzo matrimonio dell'uomo, che la prima moglie fosse morta e la seconda avesse divorziato per ragioni ignote. Ma erano solo voci.
Il dottore si chinò e sistemò meglio il lenzuolo sul petto della paziente. "Non si deve preoccupare, per nulla," disse con dolcezza. "Questo bambino è perfettamente normale."
"E' proprio quello che mi hanno detto anche per gli altri, eppure li ho perduti tutti, dottore. Negli ultimi diciotto mesi ho perso tutti e tre i miei bambini, non se la prenda se sono così ansiosa."
"Tre?"
"Questo è il mio quarto figlio... in quattro anni."
Il dottore si mise a stropicciare i piedi sul pavimento, a disagio.
"Lei non sa cosa significa, dottore, perderli tutti, tutti e tre, lentamente, separatamente, uno per uno. Continuo a vederli: vedo il sorriso di Gustav come se fosse qui nel letto, accanto a me. Gustav era un bellissimo bambino, dottore, ma era sempre malato. E' terribile: sono ammalati e non c'è niente da fare per aiutarli."
"Lo so."
La donna aprì gli occhi, guardò per un momento il medico e subito richiuse gli occhi.
"La piccola si chiamava Ida: è morta pochi giorni prima di Natale, quattro mesi fa. Mi piacerebbe tanto che lei avesse potuto vederla, dottore."
"Adesso ha un altro bambino."
"Ma Ida era così bella!"
"Sì," disse il dottore. "Lo so."
"Come può saperlo, lei?" gridò la donna.
"Sono sicuro che era una bella bambina, ma anche questo che è appena nato è bellissimo." Il dottore si allontanò dal letto, si avvicinò alla finestra e rimase lì, a guardare fuori. Era un pomeriggio piovoso e grigio, di aprile: al di là della strada si scorgevano i tetti rossi delle case e le grosse gocce di pioggia che s'infrangevano sui tegoli. 
"Ida aveva due anni, dottore, e... ed era così bella che non riuscivo mai a staccare gli occhi da lei, da quando la vestivo al mattino fino a quando non la vedevo al sicuro nel suo letto, alla sera. Vivevo nel terrore che le accadesse qualcosa. Gustav era morto, anche il mio piccolo Otto era morto, mi restava solo lei. A volte mi alzavo di notte, mi avvicinavo in punta di piedi alla culla e accostavo l'orecchio alla sua bocca per sentire se respirava ancora."
"Ora cerchi di riposare," disse il medico, ritornando accanto al letto. "Per favore, cerchi di riposare." Il volto della donna era bianco ed esangue e ai lati del naso e della bocca c'era una lieve sfumatura grigio-azzurra. Una ciocca di capelli umidi le era rimasta appiccicata alla pelle, sulla fronte.
"Quando morì... ero di nuovo incinta, dottore. Questo bambino era già di quattro mesi, quando Ida morì. 'Non lo voglio!' gridavo al funerale. 'Non lo voglio! Ne ho seppelliti abbastanza, di bambini!' E mio marito... mio marito passeggiava tra gli ospiti con un grande bicchiere di birra in mano... si girò di colpo e mi disse: 'Ho delle novità per te, Klara, delle belle notizie.' Capisce, dottore? Avevamo appena sepolto il nostro terzo bambino e lui era lì, con un bicchiere di birra in mano a dirmi che c'erano delle belle notizie. 'Oggi sono stato trasferito a Braunau,' disse, 'puoi metterti subito a fare le valigie. Questo sarà un nuovo inizio per te, Klara: un posto nuovo, avrai un nuovo dottore...'"
"Ora smetta di parlare, per piacere."
"Lei è il nuovo medico, non è vero, dottore?"
"Sì."
"E noi siamo a Braunau."
"Sì."
"Ho paura, dottore."
"Ma no, cerchi di cacciare via la paura."
"Quante probabilità ha di vivere, questo quarto bambino?"
"Certi pensieri bisogna che li cacci via."
"Non ci riesco. Sono sicura che c'è qualcosa di ereditario nei miei bambini ed è per questo che muoiono così. Deve esserci."
"Queste sono sciocchezze."
"Lei sa cosa mi disse mio marito quando nacque Otto, dottore? Entrò nella stanza, guardò nella culla dove Otto riposava e disse: 'Perché tutti i miei figli devono essere così piccoli e deboli?'"
"Ma no, sono sicuro che non può essersi espresso così."
"Cacciò la testa dentro la culla di Otto, come se stesse osservando un minuscolo insetto, e gridò: 'Dico soltanto che non capisco perché non possono essere degli esemplari migliori, ecco tutto.' Tre giorni dopo Otto era morto. Lo battezzammo alla svelta il terzo giorno, e alla sera morì. E poi morì Gustav, poi Ida. Morirono tutti, dottore... ed improvvisamente la casa rimase vuota."
"Non ci pensi, ora."
"E' molto piccolo, questo?"
"E' un bambino normale."
"Ma piccolo?"
"Sì, è forse un po' minuto, ma a volte quelli più piccoli sono più resistenti degli altri. Pensi un po', Frau Hitler, l'anno venturo, in questo periodo starà già imparando a camminare. Non è bello pensarlo?"
La donna non rispose.
"E fra due anni sarà probabilmente un terribile chiacchierone e vi farà impazzire coi suoi discorsi. Avete già deciso che nome dargli?"
"Un nome?"
"Sì."
"Non so, non sono sicura. Mi pare che mio marito abbia detto che, se fosse stato un maschio, l'avremmo chiamato Adolf."
"E allora vuol dire che si chiamerà Adolf."
"Sì. A mio marito piace il nome Adolf perché ha una certa assonanza con Alois. Mio marito si chiama Alois."
"Benissimo."
"Oh, no!" gridò improvvisamente la giovane donna, rizzandosi sul cuscino. "E' la stessa domanda che mi hanno fatto quando nacque Otto! Vuol dire che morirà! Battezzatelo subito!"
"Su, su," disse il dottore prendendola gentilmente per le spalle. "Lei si sbaglia, davvero, le assicuro che si sbaglia. E' soltanto perché sono curioso, mi diverto a discutere sui nomi; Adolf è un bellissimo nome, è uno dei nomi che preferisco. Guardi, eccolo che arriva!"
La moglie dell'albergatore, col bimbo sollevato sull'enorme petto, attraversò la stanza e si avvicinò al letto.
"Eccola qui la nostra bellezza!" esclamò raggiante. "Vuole tenerlo un momento, cara? Glielo metto qui accanto a lei?"
"E' ben coperto?" chiese il dottore. "Fa molto freddo, qua dentro."
"E' coperto benissimo."
Il bambino era strettamente fasciato in uno scialle bianco di lana e solo la piccola testa rosea era visibile. La locandiera lo posò gentilmente accanto alla madre. "Ecco qua, ora può guardarlo a piacimento."
"Le piacerà senz'altro," disse il dottore. "E' proprio un bel bambino."
"Ha delle mani bellissime!" esclamò la moglie dell'albergatore. "Le dita sono lunghe e molto delicate."
La madre non fece un gesto, non girò neppure il capo per guardarlo.
"Avanti!" gridò la locandiera. "Non morde mica!"
"Non oso guardare. Non posso credere di avere un altro figlio, e che sia sano."
"Ma su, non sia così sciocca."
Lentamente, la giovane girò la testa e guardò il visetto incredibilmente sereno posato sul cuscino accanto a lei.
"E' mio figlio?"
"Naturalmente."
"Oh... oh... ma è bellissimo!"
Il dottore si girò, s'avvicinò al tavolo ed incominciò a riporre i suoi ferri nella borsa. La madre giaceva nel letto guardando fissamente il bambino, sorridendo ed accarezzandolo con piccole grida soffocate di gioia. "Ciao, Adolf," sussurrava. "Benvenuto, mio piccolo Adolf..."
"Sssst!" disse la locandiera. "Ascolti! Credo che stia arrivando suo marito."
Il dottore andò alla porta, l'aprì e guardò nel corridoio.
"Herr Hitler!"
"Sì."
"Avanti, avanti!"
Un uomo piccolo, in uniforme grigio scuro, entrò piano nella stanza e si guardò in giro.
"Congratulazioni," disse il dottore. "E' un bel maschio."
L'uomo aveva un paio di enormi baffi meticolosamente arricciati alla maniera dell'Imperatore Francesco Giuseppe e puzzava fortemente di birra. "Un maschio?"
"Sì."
"E come sta?"
"Bene, e così sua moglie."
"Ottimamente." Il padre si girò e si diresse, con una curiosa andatura leggermente impettita, verso il letto dove giaceva la moglie. "Bene, Klara," disse, sorridendo attraverso i baffi. "Com'è andata?" Si chinò per dare un'occhiata al bambino. Poi si abbassò ancora; con una serie di piccoli scatti si portò sempre più in basso fino a trovarsi col viso quasi accanto alla testa del neonato. La moglie giaceva appoggiata su un fianco al cuscino, fissandolo con uno sguardo supplichevole.
"Ha un paio di polmoni formidabili," disse la moglie dell'albergatore. "Avreste dovuto sentire come gridava, appena venuto al mondo."
"Ma santo cielo, Klara..."
"Cosa c'è?"
"Questo è ancora più piccolo di Otto!"
Il dottore fece rapidamente due o tre passi in avanti. "Non c'è niente di anormale in questo bambino," disse.
Lentamente, il marito si sollevò, si allontanò dal letto e fissò il medico. Sembrava scosso e perplesso. "Non serve mentire, dottore," disse. "So cosa significa tutto questo: si ripeterà esattamente quello che è già avvenuto altre volte."
"Mi stia a sentire," disse il medico.
"Ma lei sa cosa è successo agli altri, dottore?"
"Dimentichi gli altri, Herr Hitler. Questo ha tutte le possibilità che vuole."
"Ma è così piccolo e gracile."
"Mio caro signore, è appena nato!"
"Anche così..."
"Ma cosa dice!" gridò la locandiera. "Volete scavargli la fossa prima del tempo?"
"Ora basta!" disse il dottore bruscamente.
La madre piangeva, forti singhiozzi la scuotevano tutta.
Il medico si avvicinò al marito, e gli mise una mano sulla spalla. "Sia gentile con lei," sussurrò. "Per piacere. E' molto importante." Poi gli premette ancor più forte sull'omero e, impercettibilmente, incominciò a spingerlo verso il letto. L'uomo esitava. Il dottore aumentò la pressione, costringendolo anche con una leggera stretta delle dita. Infine, ancora riluttante, il maritò si chinò e depose un leggero bacio sulla guancia della moglie.
"Va tutto bene, Klara," disse. "Non piangere."
"Ho tanto pregato perché possa vivere, Alois."
"Sì."
"Ogni giorno, per mesi, mi sono recata in chiesa ed ho implorato in ginocchio che almeno a questo fosse concesso di vivere."
"Sì, Klara, lo so."
"Tre bambini morti... non ne posso più, te ne rendi conto?"
"Naturalmente."
"Egli deve vivere, Alois. Egli deve, deve... Oh, Dio, sii misericordioso con lui ora..."

(Roald Dahl. Kiss Kiss. 11 racconti macabri (con humor). Feltrinelli, 1964)






lunedì 3 novembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Vespe

In un'inclemente giornata sul far dell'autunno, feci sosta durante la mia passeggiata in un frutteto del Surrey a osservare una curiosa scena di vita degli insetti: l'avrei potuta definire una graziosa commediola di insetti, se non mi avesse richiamato alla memoria i tempi andati, quando avevo la mente offuscata dai dubbi, e i comportamenti di certi insetti, specialmente delle vespe, erano un pensiero ricorrente. A più di una tempesta che ci squassa scampiamo e ce ne dimentichiamo; ma molto tempo dopo una cosa da niente - il profumo di un fiore, il richiamo di un uccello selvatico, anche la vista di un insetto - basterà a riaccenderne il ricordo e a far rivivere una sensazione che sembrava morta e sepolta.
Nel frutteto c'era un vecchio pero che dava grosse pere tardive, e tra i frutti che il vento di settembre aveva fatto cadere quel mattino, ce n'era uno assai maturo con una profonda cavità a forma di coppa scavata dalle vespe. Dentro la cavità sei o sette vespe gozzovigliavano nel succo zuccherino, appiattite e immobili, ammassate insieme. Fuori la cavità, sulla pera, si erano adunati trenta o quaranta mosconi azzurri, avidi del succo, ma evidentemente non osavano attaccare a nutrirsene; indugiavano d'intorno in una massa compatta, gli ultimi che incalzavano e si accalcavano a ridosso degli altri: eppure, nonostante l'incalzare, la prima fila di mosconi rifiutava di avanzare oltre il bordo esterno della parte scavata. Ogni tanto uno dallo spirito più temerario allungava la proboscide e iniziava a succhiare sul margine; il leggero movimento esitante era immediatamente scoperto da una vespa, che si voltava rapida ad affrontare il moscone insolente, le ali sollevate in atteggiamento minaccioso, e il moscone doveva ritrarre la proboscide dal bordo della coppa. A momenti la fame vinceva la paura; si verificava un sommovimento generale dei mosconi, e parecchi iniziavano assieme a succhiare, allora la vespa, ritenendo che in tale frangente ci volesse più di un semplice sguardo o gesto intimidatorio, insorgeva con un ronzio rabbioso, e l'intera massa di mosconi fuggiva turbinando tutt'intorno in una piccola nube azzurra con un sonoro animato brusio, per tornare a posarsi dopo pochi istanti sulla grande pera gialla, riprendendo ad ammassarsi attorno alla buca come prima.
Mai una volta, nel tempo trascorso a osservarli, la vespa guardiana allentò la vigilanza. Quando abbassava il capo per succhiare con le altre, i suoi occhi riuscivano ancora a rispecchiare nel piccolo malevolo cervello ogni sommovimento nella massa circostante di mosconi. Strisciassero pure a piacere lungo il bordo, ma bastava che uno attaccasse a succhiare e in un attimo quella era già in assetto di guerra.
La domanda che mi sono posto è stata: quanto di questo comportamento è imputabile all'istinto e quanto all'intelligenza e al temperamento? La vespa ha certamente indole vespigna, un rancore fulmineo, ed è quanto mai malevola e tirannica nei confronti di altri insetti inoffensivi. E', per giunta, una che li assassina e li divora, così come si ciba con loro di nettare e succhi zuccherini, ma quando uccide, quando la vespa solitaria paralizza ragni, bruchi e insetti vari, li stipa in cellette per fornire un macabro cibo alle larve che infine nasceranno dalle uova non ancora deposte, la vespa allora agisce automaticamente, o per istinto, spinta, per così dire, da una forza estranea. In un caso come quello del comportamento della vespa sulla pera, e in innumerevoli altri casi che si possono leggere o constatare di persona, la mente sembra apportare un contributo non indifferente. Senza dubbio essa è presente in tutti gli insetti, ma in misura diversa; e alcuni Ordini paiono più intelligenti di altri. Perciò, chiunque sia solito osservare gli insetti da vicino e notare i loro piccoli atti probabilmente dirà che rispetto agli altri insetti gli scarafaggi hanno una mente inferiore e gli Imenotteri una mente superiore, e anche che in quest'ultimo Ordine le vespe si pongono sul gradino più alto.
La scena nel frutteto è servita anche a farmi ricordare di uno stuolo di vespe, estremamente diverse per dimensioni, colore e abitudini, sebbene molto simili quanto a temperamento tirannico, che ero solito osservare nell'infanzia e giovinezza in una terra remota. Mi attraevano più, forse, di ogni altro insetto a causa della loro singolare e brillante livrea e del loro formidabile carattere. Erano belle creature, ma cagione di dolore; il dolore che mi cagionavano era in primo luogo fisico, quando mi intromettevo nelle loro faccende o le trattavo senza i dovuti riguardi, e passava presto; poi mentale e più duraturo.
Per i giovanissimi il colore è senza dubbio la caratteristica più attraente in natura, e questi insetti erano smaltati di colori che li facevano rivaleggiare con le farfalle e con gli scintillanti metallici scarafaggi. C'erano vespe con anelli neri e gialli e con anelli neri e scarlatti; vespe di un'uniforme bruno-dorata; altre simili alla nostra libellula che parevano appena uscite da un bagno di uno splendido blu metallico; altre con corpi blu acciaio e ali rosso acceso; altre con corpi cremisi, testa e zampe gialle, e ali blu brillante; altre nere e oro, con testa e zampe rosa; e così via per decine e centinaia di specie "come la Natura si diverte a giocare con i suoi piccoli", tanto da rimanere stupefatti di fronte a una così grande varietà, a così singolari e bei contrasti, prodotti da una mezza dozzina di colori vivaci.
Fu quando iniziai a scoprire i comportamenti delle vespe con gli altri insetti, di cui nutrono i loro piccoli, che il piacere che mi procuravano si mischiò al dolore. Poiché non uccidevano subito la loro preda, come fanno ragni, formiche, libellule, cicindelidi e altre specie rapaci, ma la paralizzavano pungendone i centri nervosi per renderla incapace di resistenza, e la stipavano in una celletta chiusa, cosicché la larva prossima alla nascita avesse carne fresca per nutrirsi: non macellata di fresco ma carne viva.
Perciò l'antica dibattuta questione - come conciliare questi fatti con l'idea che un Essere caritatevole abbia progettato tutto ciò - non mi venne dalle letture, né dai maestri, perché non ne ho mai avuti, ma mi fu imposta dalla natura stessa. Sebbene fosse giunta in quel modo imperativo, io, come molti altri, riuscii a rimuovere la dolorosa domanda e ad attenermi alle vecchie tradizioni. Il clamore della battaglia dell'Evoluzione, che durava da anni, mi raggiunse a malapena, era solo un mormorio quasi impercettibile, come di tempeste incommensurabilmente distanti "su stranieri lidi". La cosa non poteva durare.
Un giorno un mio fratello maggiore, di ritorno da un viaggio in terre lontane, mi mise in mano una copia della celebre Origine delle Specie, consigliandomi di leggerla. Una volta letto il libro, mi chiese cosa ne pensassi. "E' falso!" esclamai su tutte le furie, e lui rise, non sapendo quanto fosse importante per me la faccenda, e mi disse che se volevo potevo tenerlo. Io lo presi senza ringraziare, lo rilessi, meditai a lungo, e riuscii nondimeno a respingerne gli insegnamenti per anni, solo perché non sopportavo di separarmi da una filosofia di vita, se così mi è consentito definirla, che non avrebbe potuto essere logicamente sostenuta, qualora Darwin avesse avuto ragione, e senza la quale la vita non valeva la pena di essere vissuta. Così pensavo all'epoca; è un'illusione tipica della mente umana, perché ci accorgiamo che il bene che per noi conta tanto ci viene strappato con la forza, ma ci riprendiamo dalla partita e andiamo avanti più o meno come prima.
Ora è curioso vedere che Darwin stesso fu il primo a consolare quelli che, convinti loro malgrado, agognavano scoprire una qualche via di scampo che non comportasse il totale abbandono delle loro più care credenze. Comunque sia avanzò l'ipotesi - e gli spiriti religiosi furono pronti a farla propria - che la nuova spiegazione dell'origine delle innumerevoli forme di vita che popolano la terra a partire da uno o da alcuni organismi primordiali, ci fornisse una concezione della mente creativa più nobile di quella tradizionale. L'ipotesi non regge a una verifica, probabilmente scaturisce dai sentimenti miti e compassionevoli dell'autore piuttosto che dalle sue facoltà di raziocinio; ma procurò un sollievo momentaneo e servì allo scopo. A dire il vero per alcuni, forse per moltissimi, serva ancora da rifugio: questo misero riparo messo su alla meglio con un po' di paglia, che lascia entrare e pioggia e vento, ma che a costoro sembra meglio di niente.
Ma per me il più impressionante dei brani intenzionalmente consolatori del libro, è quello dove Darwin accenna agli istinti e all'adattamento, come nel caso della vespa, che i naturalisti sono soliti descrivere, in un modo che sembra più che giusto e naturale, come diabolici. Come nel caso del piccolo di cuculo che espelle dal nido i fratellastri; delle formiche che crescono schiavi, e delle larve di Ichneumonidae che si nutrono dei tessuti vivi dei bruchi nei cui corpi sono nate. Dice che non sarà una conclusione logica, ma gli pare più convincente ritenere certe cose "non istinti connaturati o acquisiti, ma effetti trascurabili di una stessa legge generale" - la legge della variazione e della sopravvivenza del più forte. [William Henry Hudson, Wasps, 1905]              

(Palinsesto del cervello umano. A cura di Ottavio Fatica. Il melangolo, 1995)