sabato 27 giugno 2015

Strettezza di borsa

In anni di grande depressione economica, in cui l'umorismo agro della Compagnia della Lesina aveva codificato uno stile di vita che per molta gente era strenua necessità osservare, continuava ad alzarsi la voce ammonitrice del Parco che vedeva nell'uomo "il più cieco di tutti gli altri animali... una furia insaziabile, un corpo matematico senza punti, una materia prima senza potenza, et tandem iumentum senza freno" [1]. Egli infatti, nella sua grande imperfezione, al contrario degli animali (parodia dell'homo quidam Deus ficiniano) doveva vestirsi, riscaldarsi, trovare una casa e mangiare. Perciò, "essendo la Privazione non sol principio, ma causa d'ogni nostro diletto... deesi attendere alla parsimonia in tutte le cose" [2] e alla Temperanza, naturalmente, rettamente interpretando le leggi nascoste della natura "la quale diede anco due orecchie, due occhi, due narici e due mani all'uomo, e una sola bocca, accioché oda molto, molto vegga, fiuti e tocchi assai e parli e mangi poco, iuxta illud 'Claude os, et crepitum coge tenere nates'" [3].
Il camaleonte era l'animale emblematico dell'ideale perfezione "lesinante": "direi che l'uomo dovesse nutrirsi d'aria, a guisa di camaleonte, poiché essendo lo spirar principio della vita e spirandosi in virtù dell'aria, chi non sa che l'aria ha l'ufficio del nutrire...?" [4]. Questo mangiatore d'aria, cittadino dell'"alma città della Parsimonia", popolata da "sottilissimi, tiratissimi e plusquam aggaffatissimi Signori" [5] che risparmiano oltre che sul mangiare (un uovo a famiglia), sul vestire, sul calzare, sul riscaldarsi, è perfettamente antifrastico al cittadino della città ideale, parodia delle isole felici dei riformatori utopici del '500, delle città del Sole e delle comunità di savi e di giusti; perché - scriveva G. C. Croce - "chi non è lesinante, non può far robba" [6]. Una città di avidi maniacali borghesi accumulatori, allevati alle tecniche del risparmio secondo i princìpi della corporazione nella quale il "maestro" trasmetteva ai "novitii" i segreti dell'arte (dell'arrangiarsi), i cui "capitoli" dovevano "osservarsi inviolabilmente da tutti i fratelli", anche in materia uxoria perché

Se puoi star casto è meglio: ma se vuoi moglie e non puoi starne senza, onde quel Romano la chiamò "Malum necessarium", pigliala picciola per ispendere manco a vestirla, e per fare i materassi, le lenzuola e le coperte del letto da coprirla più picciole, se la grandezza della dote come raggio non spegnesse le tenebre di questi rispetti... [7]

Una città nella quale anche il banchetto nuziale si celebrava sotto la regìa di "Madonna Parsimonia dispensiera" [8], nella quale Messer Tiratutto Gaffatosto, in vena di generosità, poteva permettersi di prestare a Rampino, servo di Madonna Lesina, "un osso di susino da tenere in bocca per cavar la sete" [9] (col patto però che glielo restituisse), o invitarlo a casa sua a "nasare un pomo cotogno" [10]; una città di uomini "piattonissimi e spilorcissimi" [11] ben qualificati anche onomasticamente, come Pitocco Rastrelli, Coticone de' Coticoni, Tanghero Villani, Lesiniero Finetti, Uncinato degli Uncinati, Brancazio Spilorcioni, Quomodocumque, Taccagnino da Carpi, Tiraquello Rasponi, Truffaldino da Graffignano, Gabbinio de' Gabbini, Semprecarpi, Brancailtutto, Prestaniente, Taccagna, Sottile, Formicone, Mettintasca, Pignastretto, Scorticante, Carpione, Aprilocchio, Gramignante, Stringiforte, tutti messeri di collaudata "lesinante coscienza". In caso d'infermità un capitolo della Compagnia imponeva che

quando alcuno de' fratelli si ammalasse, non mandi così in un tratto a chiamare il medico, per non iscomodarlo, ma s'intertenga sei giorni o otto, facendo in quel tanto buona dieta, per veder dove voglia riuscir cotal malatia. Potrà nondimeno far sapere a Signori Visitatori della Compagnia la sua infermità, et eglino non mancheranno del loro ufficio: e non sarebbe gran fatto che con questo buono avvertimento e intertenimento, che è avvenuto in molti altri dell'altre volte, si liberasse del male, Iuxta illud: "Requiescat in pace" [12].

La coscienza lesinante si serviva con estrema disinvoltura dell'intelligenza graffignante, astutamente furfantesca, mutuando dal mondo dei furbi e dei paltonieri trucchi, espedienti, tecniche che appartenevano al repertorio delle arti della fame, grande inventrice di sottigliezze truffaldine. Nella manoscritta Galeria de Lesinanti, dove quasi tutta l'Italia dello stento viene rappresentata emblematicamente da spilorcissimi figuri, oltre ad un medico bolognese (Messer Gramignante) e ad un fornaio (Messer Sottile da Pisa), compaiono un "milanese alchimista" (M. Anurino), un "mendicante falso" (M. Corriadoni de Trabacchi)...
Le invenzioni per "far grasse le minestre", per far la spesa senza pagare, per rubare con destrezza il formaggio, per rimediare le verdure senza spendere una lira, illuminano un'Italia affamata e picaresca abitata da gente che con "ingegno mirabile" s'arrovella a vivacchiare a spese altrui: specchio di una società povera dove l'ingegnosità (anche dolosa e fraudolenta) era artificio necessario nella dura lotta per l'esistenza. Ne escono pagine dove l'arrangiarsi quotidiano si trasforma in commedia furbesca, recitata da maschere taccagne, come quel "Pedante veronese detto M. Vadibene" prefigurazione della scuola-incubo, di quel tempio della fame giovanile, diabolicamente organizzata dall'ineffabile dottor Capra, nella Historia de la vita del buscon llamado Don Pablo ejemplo de vagabundos y espejo de tacanos.

Teneva costui - il Pedante veronese, racconta Coticone de Coticoni - giovani non solo a scuolama ancora in dozina, et n'aveva molti et era pagato bene da loro. Ora M. Vadibene che sapeva che i giovani hanno sempre fame, acciò che non merendassero o facessero colazione, s'imaginò d'empir loro il ventre al desinare, et di robba dava da digerire, perché comprava ogni volta una pancia di bue vecchio, facendola cucinare così un poco accioché non si potesse così presto digerire, et per conseguenza non gli tornasse apetito fra pasti; et s'alcuno si lamentava che non era cotta, rispondeva che così doveva essere la carne, dicendo il francese "pesce cotto, et carne cruda". Ma prima la faceva sempre empire d'erba pesta galantemente, poi la divideva costa per costa da un capo a l'altro come si farebbe un melone o zucca, et una de quelle poneva fra quattro, dicendo "figliuoli, vedete la liberalità mia, che potrei cavar fuori l'osso, et ve lo lascio acciò potiate trattenervi, oltre che questo pezzo di robba vi rappresenta una sfera, come mangiando potete ancora cibare l'intelletto vostro".
Rastellante - In che guisa poteva assimigliare una costa di bue ad una sfera?
Coticone - In questo modo: diceva, "vedete figliuoli l'osso di questa costa è il fuso del mondo, queste pellicule che girano intorno a l'osso sono i duo colori, questa cinta di pelle che cerchia il pieno è l'equinoziale, questi nervetti sono l'altre zone, il pieno è il centro, e 'l zodiaco che tocca l'uno e l'altro tropico dove si formano i solstizii potete dire che sia la carne che sta attaccata a le pellicole" [13].

La vera regola per mantenersi magro con pochissima spesa, scritta da Messer Spilorcione de' Stitichi, Correttore della nobilissima Compagnia della Lesina a M. Agocchion Spontato suo Compare. Opera Utilissima per tutti coloro che patiscono strettezza di borsa, capitolo bernesco di G. C. Croce, s'inserisce alla perfezione nel clima penurioso degli anni forse più stentati e miseri che Bologna abbia mai conosciuto: la "scienza di risparmiare" [14], l'ideale sublime del digiuno che giunge fino alla teologia eroica della non generazione, indicano anche una forma paleoborghese d'accumulazione fondata non sull'espropriazione d'altri gruppi sociali, ma sulla privazione, l'astinenza e la frode necessarie a mettere insieme, conservare e aumentare quella "roba che con tanto stento e sudore s'acquista" [15].

Non vi vantate aver troppi talenti,
Ma fate sempre il povero, e'l pitocco
Acciò che non v'accoppino le genti [16]

ammoniva Croce, memore di un perentorio avvertimento della Lesina la quale prescriveva che il savio massaro "con giusta e onorata industria pensi, cerchi, tenti e asseguisca di farsi ricco", simulando ristrettezza e povertà per fuggire "ogni sorte di trappole e inganni" tesi da "un gran numero d'uomini mendichi e oziosi", "anzi che con ogni ingegno si pigli occasione in publico e in privato di querelarsi della fortuna, della miseria e calamità sua: il che si dice a questo fine, accioché né ladri, né scrocconi, né abbracciatori, né ruffiani, né vagabondi, né parenti falliti, né sicurtà, né corte, né spioni, né ipocriti, né ingordi vi facciano disegno" [17].
I tentativi di surrogare la farina di frumento con erbe non potevano non essere encomiati dalla bibbia dei taccagni; e infatti vi si racconta della proposta, non giunta in porto, d'un viceré di Napoli di volere far produrre un pane "mescolato con certe radici ridotte in polvere di un'erba, che se ne trova in abbondato, accioché il grano, consumandosene tanto meno, venisse a soprabbondare".

Ma quelle genti nemiche affatto della nostra lodevole professione, in vece di riconoscere quel notabil beneficio e ringraziarnelo, cominciarono a calcitrare e fare schiamazzo, di sorte che il savio Vicerè v'impose perpetuo silenzio e se lo recò in pazienza. Pensisi ora, se 'l negozio aveva effetto, di quanto giovamento sarebbe stato all'una e all'altra parte, a sé d'infinito guadagno e a' popoli d'inestimabile risparmio e abbondanza; perché avendo quel pane alquanto dell'amarognolo e del dispiacevole, se ne sarebbe mangiato manco, si sarebbe fatto più grosso e a miglior derrata: ma gli insaziabili scialacquatori usi a nuotare nel grasso non vi vollono prestar orecchio... [18].

Sebbene la Lesina vi scherzasse sopra crudelmente, per gli "insaziabili scialacquatori usi a nuotare nel grasso " (le plebi urbane affamate e i contadini sottoalimentati), il pane "più grosso" era un sogno drammaticamente urgente che - come già si è visto - spingeva la gente di campagna alla ricerca problematica, per non dire onirica, della pagnotta grande, bianca, buona.
Le plebi meridionali non avevano certamente bisogno degli improbabili suggerimenti d'un vicerè per cercare di sopravvivere con un pane artificiale, con un amaro surrogato di miscele che costituivano la norma per la popolazione di campagna e di montagna (cereali inferiori, fave, ghiande, castagne... ecc.) perché il pane dei poveri era anche in tempi meno tormentati un pane abbondantemente "tagliato": perseguitate - come narrano i testimoni della terribile carestia napoletana o, più generalmente, meridionale del 1764 - "da una fame morbosa e canina" cercavano di sopravvivere facendo ricorso a disperati inganni ("con ogni più abominevole modo ed arte più maligna toglievano a chi languiva il necessario alimento") finendo tuttavia "miseramente distesi sul nudo suolo, in aspetto di tristezza sparuto, cencioso e spirante miserie" [19].

Note

 1 - Della famosissima Compagnia della Lesina. Dialogo, Capitoli e Ragionamenti ..., Venezia, L. Spineda, 1610, c. 21a.
 2 - Ibid., c. 21b-22a.
 3 - Ibid., c. 23a.
 4 - Ibid., c. 22a.-b.
 5 - G.C. Croce, Le nozze di M. Trivello Foranti, e di Madonna Lesine de gli Appuntati. Comedia, Bologna, B. Cochi, 1620, p. 3.
 6 - Ibid., p. 5.
 7 - Della famosissima Compagnia della Lesina ..., cit., c. 73a.-b.
 8 - Le nozze di M. Trivello Foranti..., cit. p. 5.
 9 - Ibid., p. 7.
10 - Ibid., p. 8.
11 - Ibid., p. 48.
12 - Della famosissima Compagnia della Lesina ..., cit., c. 16a.
13 - galeria de' Lesinanti, Bologna, Biblioteca Universitaria, Mss. 3878, caps- LI, T. VI., cc. 101r. - 102v.
14 - Della famosissima Compagnia della Lesina ..., cit., c. 56b.
15 - Ibid., c. 103a.
16 - La vera regola per mantenersi magro..., cit., c. 4v.
17 - Della famosissima Compagnia della Lesina ..., cit., c. 25a.
18 - Ibid., c. 89a.
19 - Cit. da Venturi, 1764: Napoli nell'anno della fame, cit., p. 406.

(Piero Camporesi, Il pane selvaggio. Il Mulino, 1983)