mercoledì 22 febbraio 2017

La Buona Annata's Literary Supplement: La speranza

Nelle cripte del Tribunale Vescovile di Saragozza, al cader di una sera di tanto tempo fa, il venerabile Pedro Arbuez d'Espila, sesto priore dei domenicani di Segovia, terzo Grande Inquisitore di Spagna, - seguito da un fra redemptor (maestro torturatore) e preceduto da due famigli del Santo Uffizio, che reggevano delle lanterne - scese verso una segreta perduta. La serratura di una porta massiccia cigolò; essi penetrarono in un mefitico in pace, in cui la luce dall'alto lasciava intravedere, tra anelli infissi ai muri, un cavalletto annerito dal sangue, un fornello, una brocca. Su uno strato di letame, trattenuto dai ceppi, la gogna di ferro al collo, stava seduto, stravolto, un uomo coperto di cenci, di un'età ormai indistinta.
Questo prigioniero non era altri che rabbi Aser Abarbanel, ebreo aragognese che, imputato di usura e impietoso sdegno dei Poveri, da più di un anno era stato quotidianamente sottoposto a tortura. Tuttavia, poiché "il suo accecamento era duro quanto la sua pelle", egli si era rifiutato di abiurare.
Fiero di una filiazione plurimillenaria, orgoglioso dei suoi antichi antenati - poiché tutti gli ebrei degni di questo nome sono gelosi del loro sangue - egli discendeva, talmudicamente, da Othoniel, e, di conseguenza, da Ipsiboȅ, moglie di quest'ultimo Giudice d'Israele: circostanza che aveva contribuito a sostenere il suo coraggio nei momenti più terribili degli incessanti supplizi.
Il venerabile Pedro Arbuez d'Espila aveva dunque le lacrime agli occhi, pensando che quest'anima così ferma si privava della salvezza, quando, avvicinatosi al rabbino fremente, pronunciò le seguenti parole:
"Figlio mio, rallegratevi: ecco che le vostre prove quaggiù stanno per terminare. Se, di fronte a tanta ostinazione, ho dovuto permettere, gemendo, che si usasse grande rigore, il mio compito di correzione fraterna ha i suoi limiti. Voi siete il fico caparbio che, trovato tante volte senza frutto, incorre nell'inaridimento... ma spetta a Dio solo decidere della vostra anima. Forse l'infinita Clemenza risplenderà per voi nel supremo istante! Noi dobbiamo sperarlo! Ci sono degli esempi... Così sia! Riposate, dunque, stasera, in pace. Farete parte, domani, dell'autodafé: cioè sarete esposto al quemadero, braciere premonitore dell'eterna Fiamma; esso non brucia, voi lo sapete, che a distanza, figlio mio, e la Morte mette almeno due ore (spesso tre) a giungere, a causa delle bende bagnate e ghiacciate con le quali abbiamo cura di proteggere la fronte e il cuore degli olocausti. Sarete solamente quarantatré. Considerate che, collocato per ultimo, avrete il tempo necessario per invocare Dio, per offrirgli questo battesimo di fuoco che è dello Spirito Santo. Sperate dunque nella Luce e dormite."
Al termine di questo discorso, don Arbuez, avendo con un cenno fatto togliere le catene al disgraziato, lo abbracciò teneramente. Poi fu la volta del fra redemptor, che, sottovoce, pregò l'ebreo di perdonargli ciò che egli gli aveva fatto subire al fine di redimerlo; poi lo abbracciarono i due famigli, il cui bacio, attraverso le loro buffe, fu silenzioso. Terminata la cerimonia, il prigioniero fu lasciato solo e interdetto, nelle tenebre.
Rabbi Aser Abarbanel, con la bocca secca, il viso inebetito dalla sofferenza, fissò, dapprima senza particolare attenzione, la porta chiusa. "Chiusa?..." Questa parola, a sua stessa insaputa, risvegliava, nei suoi pensieri confusi, una fantasticheria. Perché egli aveva intravisto, per un istante, il bagliore delle lanterne nella fessura tra gli stipiti di quella porta. Una morbosa idea di speranza, dovuta allo spossamento del suo cervello, commosse il suo essere.
Egli si trascinò verso l'insolita cosa apparsa! E, piano piano, facendo passare un dito, con lunghe precauzioni, nello spiraglio, tirò la porta verso di sé. Oh stupore! per un caso straordinario, il famiglio che l'aveva richiusa aveva girato la grossa chiave un po' prima dell'urto contro gli stipiti di pietra. Di modo che, non essendo la stanghetta arrugginita entrata nel dado, la porta scivolò di nuovo nel ridotto.
Il rabbino si arrischiò a gettare uno sguardo al di fuori.
Col favore di una sorta di oscurità livida, distinse dapprima un semicerchio di muri terrosi, forati da spirali di scalini; e, dominanti, di fronte a lui, cinque o sei gradini di pietra, una specie di portico nero, da cui si accedeva a un vasto corridoio, del quale non era possibile intravedere dal basso altro che le prime arcate.
Stesosi al suolo, dunque, strisciò fino a questa soglia. Sì, era proprio un corridoio, ma di una lunghezza smisurata! Lo illuminava una luce pallida, un chiarore di sogno; alcuni lumi, sospesi alle volte, azzurravano, a intervalli, il colore smorto dell'aria; il fondo lontano non era altro che ombra. Non una porta, lateralmente, in questa distesa! Da un solo lato, alla sua sinistra, alcuni spiragli, chiusi da inferriate incrociate, nelle rientranze del muro, lasciavano passare un crepuscolo - che doveva essere quello della sera, a causa delle striature rosse che tagliavano, a lunghi intervalli, il lastricato.  E quale terribile silenzio!... Eppure, laggiù, nella profondità di quella bruma, un'uscita poteva condurre alla libertà! La vacillante speranza dell'ebreo era tenace, poiché era l'ultima. Senza esitare, dunque, egli si avventurò sul lastricato, costeggiando la parete degli spiragli, sforzandosi di confondersi con la tinta tenebrosa delle lunghe muraglie. Avanzava con lentezza, trascinandosi sul petto, e trattenendosi dal gridare quando una piaga, recentemente messa a nudo, lo straziava.
All'improvviso, il rumore di un sandalo che si avvicinava giunse fino a lui nell'eco di quel viale di pietra. Un tremito lo scosse; l'ansia lo soffocava; la vista gli si oscurò. Addio! era finita, senza dubbio! Egli si rannicchiò, bocconi, in una rientranza, e, mezzo morto, attese.
Era un famiglio che si affrettava. Passò rapidamente, con uno strappa-muscoli in pugno, la buffa abbassata, terribile, e disparve. L'emozione che aveva attanagliato il rabbino aveva come sospeso le sue funzioni vitali: egli rimase per quasi un'ora senza poter compiere un movimento. Nella paura di un supplemento di tormenti se fosse stato ripreso, gli venne l'idea di ritornare nella sua segreta. Ma la vecchia speranza gli sussurrava, nell'anima, quel divino può darsi, che rincuora nei peggiori sconforti. Si era verificato un miracolo! Non bisognava più dubitare! Egli riprese quindi a strisciare verso la possibile evasione. Estenuato dalla sofferenza e dalla fame, tremando per le angosce, egli avanzava! E quel sepolcrale corridoio sembrava allungarsi misteriosamente! E lui, senza finir di avanzare, guardava sempre l'ombra, laggiù, che doveva essere un'uscita salvatrice. 
Oh! oh! ecco che dei passi suonarono di nuovo, ma questa volta più lenti e più sordi. Le forme bianche e nere di due inquisitori, dai lunghi cappelli dai bordi rovesciati, gli apparvero, emergendo dall'aria smorta, laggiù. Essi parlavano a bassa voce e sembravano in controversia su un punto importante, poiché le loro mani si agitavano.
A questa vista, rabbi Aser Abarbanel chiuse gli occhi; il suo cuore batté a morte; i suoi cenci furono penetrati da un freddo sudore di agonia; restò stupito, immobile, steso lungo il muro, sotto il raggio di un lume, immobile, implorando il Dio di Davide.
Arrivati di fronte a lui, i due inquisitori si fermarono sotto il chiarore della lampada, per un caso senza dubbio dovuto alla loro discussione. Uno di loro, ascoltando il suo interlocutore, si trovò a guardare il rabbino! E, sotto quello sguardo di cui non comprese, all'inizio, l'espressione distratta, il disgraziato credeva di sentire le tenaglie calde mordere ancora la sua povera carne; egli sarebbe dunque ridiventato un lamento e una piaga! Sentendosi venir meno, senza poter respirare, battendo le palpebre, egli tremava, sfiorato da quella veste.
Ma, cosa insieme strana e naturale, gli occhi dell'inquisitore erano evidentemente quelli di un uomo profondamente preoccupato da quello che sta per rispondere, assorbito dall'idea di ciò che ascolta, essi erano fissi - e sembravano guardare l'ebreo senza vederlo!
In effetti, dopo che furono trascorsi alcuni minuti, i due sinistri conversatori continuarono il loro cammino, a passi lenti, e sempre discorrendo a bassa voce, verso il bivio dal quale era uscito il prigioniero; NON ERA STATO VISTO!... Tanto che, nell'orribile sconvolgimento delle sue sensazioni, la sua mente fu attraversata da questa idea: "Sarei già morto, dato che non mi vedono?" Un'impressione orrenda lo fece uscire dal suo letargo: osservando il muro, proprio contro il suo viso, credette di vedere, di fronte ai suoi, due feroci occhi che l'osservavano!... Gettò la testa all'indietro, in un'angoscia travolgente e brusca, coi capelli ritti!
... Ma no. La sua mano si era resa conto, tastando le pietre: era il riflesso degli occhi dell'inquisitore che egli aveva ancora nelle pupille, e che egli aveva rifratto su due macchie del muro.
In cammino! Bisognava affrettarsi verso quella fine che egli s'immaginava (morbosamente senza dubbio) fosse la liberazione! Verso quelle ombre dalle quali non distava più che una trentina di passi, all'incirca. Riprese dunque, più velocemente, sulle ginocchia, sulle mani, sul ventre, il suo doloroso percorso; e presto entrò nella parte buia di quel pauroso corridoio.
Ad un tratto, il disgraziato sentì freddo sopra le mani che appoggiava sul lastricato: un violento soffio d'aria scivolava sotto una porta alla quale conducevano i due muri. Ah! Dio! se questa porta si aprisse sull'esterno! Tutto l'essere del povero evaso ebbe come una vertigine di speranza! Egli l'esaminava, dall'alto in basso, senza poterla ben distinguere a causa dell'oscurità intorno a lui. Tastava: nessun chiavistello, nessuna serratura. Un lucchetto!... Si raddrizzò: il lucchetto cedette sotto il suo pollice; la silenziosa porta scivolò davanti a lui.
"ALLELUIA!..." mormorò, in un immenso sospiro di ringraziamento, il rabbino, ora in piedi sulla soglia, alla vista di ciò che gli appariva.
La porta si era aperta su dei giardini, sotto una notte di stelle! Sulla primavera, sulla libertà, sulla vita! I giardini davano sulla campagna circostante, prolungandosi verso le sierre le cui sinuose linee azzurre si profilavano all'orizzonte; là, era là la salvezza! Oh! fuggire! Avrebbe corso tutta la notte sotto quel bosco di limoni di cui gli giungeva il profumo. Una volta sulle montagne, sarebbe stato salvo! Respirava la buona, sacra aria; il vento lo rianimava, i suoi polmoni risuscitavano!
Sentiva, nel cuore dilatato, il Veni foras di Lazzaro! E per benedire ancora il Dio che gli concedeva questa misericordia, tese le braccia davanti a sé, alzando gli occhi al firmamento. Fu un'estasi.
Allora, credette di vedere l'ombra delle sue braccia ritorcersi su di lui: credette di sentire quelle braccia d'ombra circondarlo, avvinghiarlo e stringerlo teneramente contro un petto. Un'alta figura era, in effetti, accanto alla sua. Fiducioso, abbassò lo sguardo verso quella figura e restò ansimante, sconvolto, con l'occhio spento, tremebondo, gonfiando le guance e sbavando per lo spavento.
Orrore! era fra le braccia del Grande Inquisitore in persona, del venerabile Pedro Arbuez d'Espila, che lo osservava, gli occhi pieni di lacrime, e un'aria da buon pastore che ritrova la pecorella smarrita!...
Lo scuro prete si stringeva al cuore lo sventurato ebreo, con uno slancio di carità così fervida che le punte del cilicio monacale sarchiarono, sotto il saio, il petto del domenicano. E mentre rabbi Aser Abarbanel, gli occhi rovesciati sotto le palpebre, rantolava d'angoscia fra le braccia dell'ascetico don Arbuez e comprendeva confusamente che tutte le fasi della fatale serata non erano altro che un supplizio previsto, quello della Speranza! il Grande Inquisitore, con un accento di pungente rimprovero e lo sguardo costernato, gli mormorava all'orecchio, con alito ardente e alterato dai digiuni:
"Ma come, figlio mio! Alla vigilia, forse, della salvezza... volevate dunque lasciarci!"

(Villiers de l'Isle-Adam, Il convitato delle ultime feste. Mondadori, 1989)










sabato 4 febbraio 2017

La Buona Annata's Literary Supplement: Yzur

Acquistai la scimmia all'asta di un circo fallito. La prima volta che mi passò per il capo l'idea di tentare l'esperienza che sto per narrare in queste righe, fu un giorno che lessi non so dove che gli indigeni di Giava attribuiscono la carenza di linguaggio articolato nelle scimmie all'astensione e non all'incapacità. "Non parlano", dicono, "perché non le facciano lavorare". Simile idea, all'inizio per nulla profonda, finì per preoccuparmi tanto da mutarsi in questo postulato antropologico: 
Le scimmie furono uomini che per una ragione o per l'altra smisero di parlare. Il che produsse l'atrofia dei loro organi di fonazione e dei centri cerebrali del linguaggio; debilitò fin quasi a sopprimerlo il rapporto fra gli uni e gli altri, fissando l'idioma della specie nel grido inarticolato, e l'umano primitivo decadde in animale.
E' chiaro che se si riuscisse a dimostrare quanto sopra, verrebbero spiegate naturalmente tutte le anomalie che rendono la scimmia un essere così singolare; ma non ci sarebbe che una dimostrazione possibile: ridare alla scimmia il linguaggio.
Intanto, avevo percorso mezzo mondo col mio esemplare, che mi si affezionava sempre più grazie a varie peripezie e avventure. In Europa richiamò l'attenzione, e se avessi voluto avrei potuto elevarlo alla celebrità di un Consul; ma la mia serietà di uomo d'affari mal si conciliava con simili pagliacciate.
Tormentato dalla mia idea fissa del linguaggio delle scimmie, esaurii tutta la bibliografia concernente il problema, ma senza alcun risultato apprezzabile. Sapevo solo, con assoluta certezza, che non esiste alcuna ragione scientifica perché la scimmia non possa parlare. Questo era il risultato di cinque anni di meditazioni. 
Yzur (nome di cui non riuscii mai a scoprire l'origine, perché ignorata anche dal precedente proprietario), Yzur era certamente un animale notevole. L'educazione del circo, benché ridotta quasi esclusivamente al mimetismo, aveva assai sviluppato le sue facoltà; era questo ciò che mi incitava maggiormente a provare su di lui la mia apparentemente sballata teoria.
D'altro canto, è noto che lo scimpanzé (Yzur lo era) è tra le scimmie quella meglio provvista di cervello e una delle più docili, il che aumentava le mie probabilità. Ogni volta che lo vedevo venire avanti su due zampe, con le mani dietro la schiena per mantenere l'equilibrio, e il suo aspetto di marinaio ubriaco, la convinzione della sua umanità trattenuta si rafforzava in me.
Non esiste in realtà ragione alcuna perché la scimmia non articoli assolutamente. Il suo linguaggio naturale, vale a dire l'insieme di grida per mezzo delle quali comunica coi suoi simili, è abbastanza variato; la sua laringe, per quanto risulti diversa da quella umana, non lo è mai tanto come quella del pappagallo, che tuttavia parla; e quanto al suo cervello, a parte che il paragone con quello di quest'ultimo animale fuga ogni dubbio, basta ricordare che quello dell'idiota è altrettanto rudimentale; e malgrado ciò vi sono dei cretini che sanno pronunciare alcune parole. Per ciò che concerne la circonvoluzione di Broca, dipende, è evidente, dallo sviluppo generale del cervello; bisogna dire inoltre che non è provato che essa sia fatalmente il punto di localizzazione del linguaggio. Se è il caso di localizzazione meglio stabilito in anatomia, l'esistenza di dati contrastanti è comunque incontestabile.
Fortunatamente, le scimmie hanno, fra le molte cattive qualità, il gusto dell'apprendimento, come dimostra la loro tendenza all'imitazione; la memoria è buona, la riflessione si spinge fino a una profonda capacità di dissimulazione, e l'attenzione è comparativamente più sviluppata che nel bambino. Sono dunque soggetti pedagogici tra i più adatti.
La mia inoltre era giovane, ed è noto che la giovinezza costituisce l'epoca più intellettuale della scimmia, simile sotto questo aspetto al negro. La difficoltà consisteva soltanto nel metodo che avrei dovuto usare per comunicarle la parola.
Conoscevo tutti gli infruttuosi tentativi dei miei predecessori; ed è inutile dire che dinanzi alla competenza di alcuni di essi e all'inutilità di tutti i loro sforzi, i miei propositi vennero meno più di una volta; quando la tenace meditazione su quel problema mi condusse a questa conclusione: Per prima cosa si tratta di sviluppare l'apparato di fonazione della scimmia.
Ed è così, in effetti, che si procede coi sordomuti prima di condurli all'articolazione; e avevo appena concepito questa riflessione, che tutte le analogie fra il sordomuto e la scimmia mi si affollarono nella mente.
Anzitutto, la loro straordinaria capacità mimica che sostituisce il linguaggio articolato, dimostrando che l'assenza di parole non è assenza di pensiero, come se questa facoltà fosse sminuita dalla paralisi di quella. Poi altri caratteri più peculiari in quanto più specifici: la diligenza sul lavoro, la fedeltà, il coraggio accresciuto fino alla temerità da queste due condizioni la cui coesistenza è veramente rivelatrice: la facilità di eseguire esercizi d'equilibrio e la resistenza al mal di mare.
Decisi allora di iniziare la mia opera con una vera e propria ginnastica delle labbra e della lingua della mia scimmia, trattandola in questo come un sordomuto. Per il resto, mi avrebbe aiutato l'udito a stabilire comunicazioni dirette di parola, senza bisogno di ricorrere al tatto. Il lettore vedrà che a questo proposito le mie previsioni erano troppo ottimistiche.
Per fortuna, fra tutte le grandi scimmie lo scimpanzé è quella che ha le labbra più mobili; e nel caso specifico, avendo Yzur sofferto di angina, sapeva aprir la bocca per farsela esaminare.
Il primo esame confermò in parte i miei sospetti. La lingua rimaneva immobile in fondo alla bocca, come una massa inerte; gli unici movimenti erano quelli della deglutizione. La ginnastica produsse presto il suo effetto, perché in capo a due mesi sapeva già tirar fori la lingua in segno di beffa. Fu questo il primo rapporto che riuscii a stabilire fra il movimento della sua lingua e un'idea; un rapporto in perfetto accordo con la sua natura, peraltro.
Le labbra mi diedero più problemi, perché bisognò addirittura tendergliele con delle mollette; ma egli apprezzava - forse dalla mia espressione - l'importanza di quel compito anomalo, e lo intraprendeva con prontezza. Mentre io praticavo i movimenti labiali che doveva imitare, restava seduto, grattandosi la groppa col braccio teso all'indietro e ammiccando in una concentrazione dubitosa, o lisciandosi le basette con tutta l'aria di un uomo che armonizza le proprie idee per mezzo di gesti ritmici. Alla fine imparò a muovere le labbra.
L'esercizio del linguaggio è un'arte difficile, come dimostrano i lunghi balbettii del bambino, che lo conducono, parallelamente al suo sviluppo intellettuale, ad acquisirne l'abitudine. In effetti, è dimostrato che il centro delle innervazioni vocali si trova associato a quello della parola in forma tale, che lo sviluppo normale di entrambi dipende dal loro esercizio armonico; questo era già stato presentito nel 1785 da Heinicke, l'inventore del metodo orale per l'insegnamento ai sordomuti, come una conseguenza filosofica. Egli parlava di una "concatenazione dinamica delle idee"; frase la cui profonda chiarezza onorerebbe più di uno psicologo contemporaneo.
Yzur si trovava, rispetto al linguaggio, nella stessa situazione del bambino che prima di saper parlare capisce già molte parole; ma era molto più in grado di associare alle parole i giudizi che doveva possedere sulle cose, per la sua maggior esperienza della vita.
Questi giudizi, che non dovevano essere solo impressionistici, bensì anche inquisitivi e disquisitivi, a giudicare dal carattere differenziale che assumevano, il che presuppone un ragionamento astratto, dimostravano un grado superiore di intelligenza assai favorevole in verità ai miei intenti.
Se le mie teorie paiono troppo audaci, basta riflettere che il sillogismo, ossia l'argomento logico fondamentale, non è estraneo alla mente di molti animali. Poiché il sillogismo è originariamente una comparazione fra due sensazioni. Se no, perché gli animali che conoscono l'uomo lo sfuggono, e non quelli che non l'hanno mai conosciuto?...
Diedi inizio, quindi, all'educazione fonetica di Yzur.
Si trattava di insegnargli dapprima la parola meccanica, per condurlo poi progressivamente alla parola sensata.
Poiché la scimmia possiede la voce, essendo in questo avvantaggiata sul sordomuto, con più sicure articolazioni rudimentali, si trattava di insegnarle le sue modificazioni, che costituiscono i fonemi, e la loro articolazione, definita dai maestri statica o dinamica, secondo che si riferisca alle vocali o alle consonanti. Data la ghiottoneria della scimmia, e seguendo in ciò un metodo usato da Heinicke coi sordomuti, decisi di associare ogni vocale con una leccornia: a con patata; e con miele; i con vino; o con cocco; u con zucchero, facendo in modo che la vocale fosse contenuta nel nome del cibo, ora con il dominio pressoché unico e ripetuto, come in patata, cocco, miele, ora accentrando su di sé i due accenti, tonico e prosodico, ossia come suono fondamentale: vino, zucchero.
Tutto andò bene finché si trattò delle vocali, cioè dei suoni che si formano con la bocca aperta. Yzur le imparò in quindici giorni. La u fu quella che gli costò di più pronunciare.
Le consonanti mi diedero un lavoro tremendo; e ben presto compresi che non sarebbe mai riuscito a pronunciare quelle alla cui formazione concorrono i denti e le gengive. Le sue lunghe zanne lo ostacolavano troppo.
Il suo vocabolario si riduceva, quindi, alle cinque vocali e alla b, la k, la m, la g, la f e la c, cioè a tutte quelle consonanti alla cui formazione partecipano solo il palato e la lingua.
Ma anche per questo non mi bastò l'udito. Dovetti ricorrere al tatto come con un sordomuto, appoggiandogli la mano sul mio petto prima e poi sul suo, affinché sentisse le vibrazioni del suono.
E passarono tre anni, senza che riuscissi a fargli formare neppure una parola. Tendeva ad attribuire alle cose, come nome proprio, quello della lettera il cui suono predominava in esse. Questo era tutto.
Nel circo aveva imparato ad abbaiare, come i cani, suoi compagni di lavoro; e quando mi vedeva disperare nei vani tentativi di strappargli la parola, abbaiava forte come per darmi tutto ciò di cui era capace. Pronunciava isolatamente le vocali e le consonanti, ma non sapeva associarle. Al massimo, imbroccava una ripetizione vertiginosa di pi e di emme.
Per quanto lentissimo, si era operato un gran mutamento nel suo carattere. Mostrava una minor mobilità nelle espressioni, aveva lo sguardo più profondo, e assumeva atteggiamenti meditabondi. Aveva acquisito, per esempio, l'abitudine di contemplare le stelle. Anche la sua sensibilità subiva lo stesso sviluppo: notai che era assai più facile alle lacrime.
Le lezioni continuavano con irremovibile costanza, benché senza il minimo successo. Erano pian piano divenute una dolorosa ossessione, e a poco a poco mi sentivo sempre più incline a usare la forza. Il mio carattere si inacidiva a causa del fallimento, fino a farmi assumere una sorda animosità contro Yzur. Questi si intellettualizzava sempre più, in fondo al suo mutismo ribelle, e cominciavo a convincermi che non sarei mai riuscito a superare quel punto morto, quando improvvisamente seppi che non parlava perché non voleva parlare.
Il cuoco, terrorizzato, venne a dirmi una sera che aveva sorpreso la scimmia mentre "parlava con vere parole". A quanto raccontò, Yzur se ne stava raggomitolato accanto a un fico, nell'orto; ma il terrore gli impedì di ricordare le cose essenziali, ossia le parole. Gli pareva di rammentarne solo due: casa e pipa. Per poco non lo prendevo a calci per la sua imbecillità.
Inutile dire che passai quella notte in preda a una grande emozione; e ciò che non avevo commesso in tre anni, l'errore che mandò a monte tutto, fu causato dalla spossatezza di quella veglia, non meno che dalla mia eccessiva curiosità.
Invece di lasciare che la scimmia arrivasse naturalmente alla manifestazione del linguaggio, la chiamai il giorno seguente e volli imporgliela per obbedienza.
Non ottenni che le pi e le emme di cui ero ormai stufo, le strizzatine d'occhio ipocrite e - Dio mi perdoni - un certo barlume di ironia nell'irrequieta ubiquità delle sue smorfie.
Mi abbandonai alla collera e senza alcuna giustificazione lo picchiai. L'unica cosa che ottenni fu il suo pianto e un silenzio assoluto che escludeva persino i gemiti.
Tre giorni dopo si ammalò, cadendo in una sorta di oscura demenza complicata da sintomi di meningite. Sanguisughe, docce fredde, purganti, revulsivi cutanei, infusi di brionia in alcol, bromuro; tutta la terapeutica della spaventosa malattia gli venne applicata. Lottai con disperato vigore, spinto da un rimorso e da un timore. Quello, perché ritenevo l'animale vittima della mia crudeltà; questo, per la sorte del segreto che forse si sarebbe portato nella tomba. Migliorò in capo a moltissimo tempo, ma rimase tuttavia così debole che non poteva muoversi dal letto. La vicinanza della morte lo aveva nobilitato e umanizzato. I suoi occhi pieni di gratitudine non mi lasciavano un istante, seguendomi per tutta la stanza come due sfere girevoli, anche se mi trovavo dietro di lui; la sua mano cercava le mie in una intimità da convalescenza. Nella mia grande solitudine, andava acquistando rapidamente l'importanza di una persona.
Il demone dell'analisi, che altro non è se non una forma dello spirito di perversità, mi spingeva tuttavia a rinnovare le mie esperienze. In realtà la scimmia aveva parlato. Quella faccenda non poteva finire così.
Iniziai con molta cautela, chiedendogli le lettere che sapeva pronunciare. Nulla! Lo lasciai solo per ore, spiandolo attraverso un forellino praticato nel tramezzo. Nulla! Gli rivolsi brevi orazioni, cercando di sollecitare la sua fedeltà o la sua ghiottoneria. Nulla! Quando scivolavo nel patetico, gli occhi gli si riempivano di lacrime. Quando gli dicevo una frase abituale, come quel "io sono il tuo padrone" con cui iniziavo tutte le mie lezione, o quel "tu sei la mia scimmia" con cui completavo la mia precedente affermazione, per mettere innanzi al suo spirito la certezza di una verità totale, egli assentiva chiudendo le palpebre; ma non emetteva il minimo suono,e neppure arrivava a muovere le labbra.
Era tornato alla gesticolazione come unico mezzo di comunicazione con me; e questo particolare, aggiunto alle sue analogie coi sordomuti, raddoppiava le mie precauzioni, perché nessuno ignora la grande predisposizione di questi ultimi alle infermità mentali. A volte desideravo che diventasse pazzo, per vedere se il delirio avrebbe infine rotto il suo silenzio.
La sua convalescenza continuava, stazionaria. La stessa debolezza, la stessa tristezza. Era evidente che era malato d'intelligenza e di dolore. La sua unità organica si era spezzata sotto l'impulso di un'attività cerebrale anormale, e giorno più giorno meno, era ormai da considerarsi perduto.
Ma, nonostante la mansuetudine che il progredire della malattia accresceva in lui, il suo silenzio, quel disperante silenzio provocato dalla mia esasperazione, non cedeva. Da un oscuro recesso di tradizione pietrificata in istinto, la razza imponeva il proprio millenario mutismo all'animale, fortificandosi di volontà atavica nelle radici stesse della sua essenza. Gli antichi uomini della giungla, costretti al silenzio, ossia al suicidio intellettuale, da chissà quale barbara ingiustizia, mantenevano il loro segreto formato da misteri di foresta e abissi di preistoria, in quella decisione ormai inconscia, ma formidabile per l'immensità della sua durata.
Infortuni dell'antropoide ritardato nell'evoluzione alla cui avanguardia passava l'umano con un despotismo di oscura barbarie, avevano senza dubbio spodestato le grandi famiglie quadrumani nel dominio arboreo dei loro primitivi eden, diradando le loro file, catturandone le femmine per organizzare la schiavitù dallo stesso ventre materno, fino a ispirare alla loro impotenza di vinti l'atto di dignità morale che li portava a rompere col nemico persino il legame, superiore sì, ma infausto, della parola, rifugiandosi come salvezza suprema nella notte dell'animalità.
E quali orrori, quali stupefacenti sevizie non devono aver commesso i vincitori sulla semibestia in fase critica di evoluzione, perché questa, dopo aver gustato il fascino intellettuale che è il frutto paradisiaco delle bibbie, si rassegnasse a quella claudicazione della propria stirpe nella degradante eguaglianza degli inferiori; a quella retrocessione che cristallizzava per sempre la sua intelligenza nei gesti di un automatismo da acrobata; a quella gran viltà della vita che avrebbe curvato per l'eternità, come un contrassegno bestiale, la sua schiena di dominata, imprimendole quel malinconico turbamento che permane sullo sfondo della sua caricatura.
Ecco ciò che sul punto di conseguire il successo il mio malumore aveva risvegliato nel profondo del limbo atavico. Attraverso milioni di anni, la parola, col suo esorcismo, smuoveva l'antica anima scimmiesca; ma contro questa tentazione che stava per violare le tenebre dell'animalità protettrice, la memoria ancestrale, diffusa nella specie sotto forma di un istintivo orrore, opponeva un'età sopra l'altra come una muraglia.
Yzur entrò in agonia senza perdere conoscenza. Una dolce agonia a occhi chiusi, respiro debole, polso impercettibile, calma assoluta, che egli interrompeva solo per volgere verso di me, con una lacerante espressione di eternità, il suo vecchio volto di mulatto triste. E l'ultima sera, la sera della sua morte, accadde la cosa straordinaria che mi decise a narrare questi fatti. Mi ero appisolato al suo capezzale, vinto dal calore e dalla quiete del crepuscolo incipiente, quando sentii improvvisamente qualcosa di caldo toccarmi il polso. Mi svegliai di soprassalto. La scimmia, con gli occhi spalancati, stava morendo, e la sua espressione era così umana che mi terrorizzò; ma la sua mano, i suoi occhi mi attiravano con tanta eloquenza verso di lui, che dovetti chinarmi subito accanto al suo viso; e allora, col suo ultimo respiro, l'ultimo respiro che coronava e frustrava nel contempo la mia speranza, sgorgarono - ne sono certo - sgorgarono in un mormorio (come descrivere il tono di una voce rimasta muta per diecimila secoli?) queste parole la cui umanità riconciliava le specie:
"Padrone, acqua. Padrone, padrone mio..."

(Leopoldo Lugones, La statua di sale. Franco Maria Ricci, 1980)