domenica 7 novembre 2021

Do the Stiggy


Non poca dev’essere stata la sorpresa dei tipi della Bam Caruso quando, vedendosi recapitare i master dell’album The Accents per una provvida ristampa, scoprirono invece la prima e la quarta facciata del disco The Kings of Oblivion. Contattato uno dei membri del gruppo si venne a scoprire che i nastri furono inviati alla fine del 1967 alla Gazzarri, piccola etichetta operante in quel di Hollywood, che però decise di non pubblicare il disco. Non solo: gli stolti discografici smarrirono il master di cui nemmeno il gruppo possedeva una copia, essendo quest’ultima andata in fumo nell’incendio del loro studio. Il Big Fish Popcorn dato proditoriamente alle stampe è pertanto un “mezzo album”.

Questa la vicenda narrata nelle note di copertina. Come spesso accade, però, i fatti mal si adeguano all’orizzonte dei desideri. Nel caso specifico a quelli di appassionati e collezionisti, perennemente all’inseguimento un po’ necrofilo del capolavoro sconosciuto occultato nei recessi di qualche magazzino.

Artefici del progetto sono invece due coltissimi burloni che rispondono al nome di Jakko M. Jakszyk (alias Mario “Fat Man” Vanzetti) e Gavin Harrison (alias Elmo “Hairdo” Hudson). Divertita complice della burla, si è detto, la Bam Caruso di Phil Smee, volta a gettare ponti tra un passato (forse troppo) mitizzato e un presente di incertezze se non di ristrettezze.

I più scaltri (o i meno ottusi, che non è proprio la stessa cosa) si rendono subito conto della natura dell’operazione. Il palato giubila al contatto con un pasticcio ben confezionato, gli ingredienti sapidi, la cottura giusta. Giusto per non strafare, per non far alzare i commensali satolli e barcollanti, si dice che quanto hanno nel piatto rappresenta “solo” la prima portata, essendo appunto andata perduta metà delle registrazioni che sarebbero dovute confluire in un album doppio. Se ne auspica il ritrovamento ma, ovviamente, un po’ per omaggiare l’inverosimile ma credibilissima aneddotica del rock e un po’ per strizzare l’occhio all’Avvertito.

Si, perché la natura di doppio LP è uno dei tanti indizi buttati lì per indirizzare l’ascoltatore al modello di riferimento dell’operazione. Gli altri: i nomignoli buffi, la sorda cialtroneria delle case discografiche, la grafica che ricrea mimeticamente le opere di Cal Schenkel e, ovviamente, la musica: uno spettro che va dall’irresistible Energia Idiota agli episodi più dissonanti e spaventapasseri. E poi i testi, frutto di notti insonni a lume di candela passate a cercare di cavar profezie e vaticini dall’opus zappiano. Sì, perché è ovviamente il Duca delle Prugne il profeta a cui i giovani s’inchinano.

Uncle Meat, doppio album pubblicato nel 1969 dalla Bizarre, l’oggetto dello scherno. Parodia sì, ma rispettosa e condotta a giusta distanza.

Va da sé che la parodia, per sua natura, non può ambire a una vera e propria autonomia artistica, per quanto possa però fornire un utile strumento per leggere più ampie dinamiche.

Giusto un paio di anni fa i Dukes Of Stratosphear (Sir John Johns - Andy Partridge, Red Curtain Colin Moulding, Lord Cornelius Plum - David Gregory e E.I.E.I. Owen - Ian Gregory) avevano pubblicato, appropriatamente il primo di aprile, 25 O'Clock, sei mimetiche canzoni traboccanti fanciullesche fantasie e gentili acidità tipiche del suono britannico di fine Sessanta. Giusto quest’anno gli XTC (inutile ribadire l’ovvio: erano loro) hanno dato un seguito a quell’operina, uno Psonic Psunspot meno conciso e fresco ma altamente godibile.


Che dire poi dei sempre più frequenti album di tributo ad artisti del passato. A titolo di esempio, ma è solo uno dei tanti, potremmo citare il lavoro della piccola label Imaginary, le cui antenne piantate nel Lancashire diffondono per il mondo buone vibrazioni. Determinati a omaggiare con tutti i riguardi il Diamante Pazzo, hanno fatto uscire il bel Beyond the Wildwood, con Paul Roland, Mock Turtles, TV Personalities e vari altri simpatici allucinati.


Quanto accomuna queste uscite discografiche, azzardiamo, è forse la percezione dell’approssimarsi della fine per il rock. Le sue, già peraltro limitate, possibilità espressive si stanno esaurendo. Il rock si avvia a diventare un ingombrante anacronistico dinosauro che non presta orecchio a quanti cercano di renderlo edotto della realtà. Tipo Residents o John Lydon: peccato che non abbiano fatto un disco insieme. Una forma che sopravvive alla funzione, ma così grossa che tanti, troppi avrebbero molto da perdere se l’istanza di fallimento giungesse a destinazione. E allora giù di revival e fantasiose etichette appiccicate a coprire il nulla.

Al più, a voler essere benevoli, si può dire che il rock o quello che è funziona ancora come Spettacolo, come Intrattenimento. Tra un concertino dixieland e una cover band di De André.


(Fukashita, recensione di Big Fish PopcornIn Alternative musicali, n. 4, dicembre 1987)