lunedì 24 ottobre 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Uomini animali rampicanti

Nel cadere persi sicuramente i sensi. Ricordo soltanto due occhi che mi guardavano e l'ultimo dondolio dell'aereo, come se una enorme balia mi cullasse tra le sue braccia. Piacerà così a un bambino esser cullato. Serrai le palpebre, vagai per mondi sconosciuti. Poi un rumore assordante e quindi un colpo secco mi riportarono alla realtà: l'incontro duro con il suolo. Dopo, null'altro mi collegava con questa terra, eccetto la sensazione di un falò che si spegne e lascia cenere grigia simile al silenzio. Non comprendo in che modo avvenne l'incidente: che io stia qui solo in questa selva con i viveri e che tutt'intorno non resti alcuna traccia dell'apparecchio sul quale viaggiavo, mi sgomenta. Qualcuno verrà a cercarmi, confido nella capacità degli aviatori che, più che cercare me e tutti gli altri di bordo, cercheranno l'aereo. Mi ritroveranno per caso: il caso esiste e talvolta risolve. Queste provviste, razionate, basteranno per una ventina di giorni. Il mio calcolo potrebbe essere inesatto. Per di più qualche roditore, qualche uccello o una bestia qualsiasi potrebbe divorare i viveri che non sono adeguatamente  protetti; allora la mia razione si ridurrebbe notevolmente. Mi resterebbero, comunque, le marmellate e le gallette in scatola dal sapore di cartone, la ventresca affumicata, le linguette, i datteri, le prugne, le disgustose castagne di Cajù, le arachidi.
Però, quegli occhi, dove saranno?
Venti giorni è molto, è quasi un mese. Viveri per venti giorni, che posso chiedere di più? Dosarli, mi sarà data questa felicità? Non so dove ho letto che certi monaci si nutrivano per lunghi periodi con due o tre datteri al giorno. Anche le bottiglie di vino mi aiuteranno a mantenermi sano e forte.
Però quegli occhi che mi guardavano, cosa berranno?
A nessun animale interessa bere vino, chissà perché?
E a proposito di animali, penso alla probabile esistenza di belve. Sento a volte scricchiolare i rami e mi sembra che ci sia odore di fiera, però capisco che se do retta alle mie elucubrazioni diventerò pazzo, e allora mi butto con la faccia a terra, la bacio e cerco di immaginare un mondo di agnelli, come nei santini della prima comunione, e di farfalle, come nei libri di lettura infantili. Il mio letto è così comodo che dopo aver dormito otto ore mi sveglio placidamente credendo di essere a casa. Allungo il braccio e con mano sicura cerco di accendere il lume sul mio comodino: mi soffermo un po' su questa illusione. Se la notte è molto scura, mi afferra una grande angoscia, però se c'è la luna contemplo la luce che brilla sulle foglie degli alberi e sui tronchi coperti di musco e immagino di stare in un giardino ben curato. Mi tranquillizza questa immagine, così sciocca in verità, giacché ho sempre preferito la selva a un giardino civilizzato. Proprio per questo andavo sempre spettinato, mi lasciavo crescere la barba, e a volte la proprietà del mio vestiario non era impeccabile. Ora che sono circondato da una vegetazione che si estende a casaccio, preferirei essere attorniato da piante più disciplinate? No, assolutamente. Tutti i miei pensieri vanno alla città che odiai; ai dintorni della città che disprezzai. Ricordo con rabbia il suo odore di nafta, di naftalina, di farmacia, di sudore, di vomito, di piedi, di cantina, di vecchio, di insetticida, di orinatoio, di neonato, di sputacchiera, di escrementi, di cucina. Non cado nell'equivoco di riscattare l'immagine della città con quella delle persone amate. Cerco di non rimpiangere né il gabinetto né il lavandino. Mi abituo a questa vita. Ci si abitua a tutto, mi diceva mammà, e aveva ragione.
Non conosco il clima di questo posto; questo sì, mi secca un po' la mia ignoranza. Sarebbe difficile conoscerlo senza nulla che possa orientarmi: né barometro, né indicazione geografica, né studi botanici né climatici. Per colpa di una tormenta l'aereo dovette cambiare direzione, cosicché non so neppure approssimativamente dove è caduto. Potrei consultare il cielo, però non mi intendo neppure di stelle. Temo si sbagliarmi. Credo che questo posto sia umido perché ci sono delle liane e certe varietà di madreselva che crescono in luoghi umidi. Non so se il caldo che sento è tropicale, o semplicemente estivo. Ci sono sotto gli alberi certe felci che si ammassano tra il musco.
Di che colore erano quegli occhi? Del colore delle palline di vetro che io sceglievo nei negozi di giocattoli quando ero piccolo.
Di notte ci sono lucciole e grilli assordanti. Un profumo dolce e penetrante mi afferra, da dove proviene? Ancora non lo so. Credo mi faccia bene. Esala da fiori o da alberi o da erbe o da radici o da tutto insieme (non sarà da un fantasma?); è un profumo che non ho aspirato in nessun'altra parte del mondo, un profumo inebriante e al tempo stesso rilassante. Annusando come un cane, diventerò un cane? Pesto le foglie, le erbe, i fiori selvatici che incontro. Studio le foglie per accertare se questo profumo emani da esse. Strappo e assaporo la corteccia degli alberi. Finalmente ho scoperto cos'è che profuma l'aria con tanta forza: è un rampicante, dai fiori piuttosto insignificanti. Niente del suo aspetto lo distingue dagli altri, salvo il suo rigoglioso fogliame. Mentre lo guardo mi sembra che cresca. Mi nutro metodicamente secondo il calcolo della razioni giornaliere che mi sono proposto di mangiare perché gli alimenti mi bastino fino all'arrivo dell'aereo o dell'elicottero che aspetto dagli uomini e da Dio. Mangio varie volte al giorno piccole dosi di cibo. Ci sono certi frutti selvatici che arricchiscono la mia dieta. Mi faccio schifo. Perché mi affanno tanto? Non più di un mese fa pensavo di suicidarmi; ora mi nutro meticolosamente, cerco di riposare, come se accudissi un bambino. Ci sono persone che ci mettono parecchio a sapere chi sono. Il canto degli uccelli a mezzogiorno (quello che io calcolo sia mezzogiorno) diventa frenetico. Avrei potuto fabbricarmi una fionda con degli elastici che ho alla cinta del mio anorak e due rami che ho tagliato. Perché colpire un uccello?, mi domando. La cosa più naturale sarebbe ucciderlo e mangiarlo. Non potrei. La mia volontà si affievolisce, forse. Dormo molto. Quando mi sveglio faccio fotografie agli alberi, alla mia mano, al mio piede, al fogliame, e del resto che altre fotografie potrei scattare? Non ho l'autoscatto per fotografarmi. D'altronde non so se la mia macchina fotografica funziona, perché ha ricevuto un colpo. In certi momenti pronuncio il mio nome svariate volte, dando alla mia voce tonalità differenti. Avrò paura di dimenticarlo? Scopro che c'è un'eco nel bosco. Niente mi fa tanta paura. A volte odo, o credo di udire, il rumore di un aereo: allora guardo il cielo disperatamente.
Dove saranno quegli occhi che mi guardavano tanto? Di che parleranno? Saranno caduti in mare attratti dal proprio colore? Se arrivassero all'improvviso?
A poco a poco mi abituo a questa vita. Preferisco dormire, è quel che faccio meglio, forse troppo. Se una belva mi attaccasse durante il sonno non potrei difendermi, e commetto tutti i giorni l'imprudenza di dormire profondamente all'ora della siesta: è chiaro che non so con precisione quando sia l'ora della siesta, perché il mio orologio si è fermato e per prima cosa ho perduto la nozione del tempo. Attraverso tanti alberi, la luce del sole mi giunge indirettamente. Dopo aver perso il filo dell'ora, se così si può dire, difficile mi sarebbe orientarmi rispetto a quella luce. Non so se è autunno, inverno, primavera o estate. Come potrei saperlo se non so in quale posto mi trovo? Credo che gli alberi che mi circondano siano dei sempreverdi. Non mi azzardo ad avventurarmi nel bosco: potrei perdere le mie provviste. Questa è ormai la mia casa. I rami sono i miei attaccapanni. Non uso molto il sapone e lo specchio, le forbici e il pettine. Comincia a preoccuparmi la faccenda del sonno, mi sembra che dormo per quasi tutto il tempo e credo che la colpa sia di questi fiori che profumano tanto l'aria. L'aspetto anodino che hanno, inganna: formano un chiosco che a ben guardarlo è diabolico. Invano li strappo dal terreo; tornano a crescere con più vigore. Ho cercato di distruggerne alcuni sotterrandoli, ma non ho attrezzi per scavare la terra e mi sono servito di un pezzo di legno piatto, il cui uso è stato malagevole. Povero Robinson Crosuè, o meglio felice Robinson Crosuè che sapeva cavarsela nelle difficoltà che la solitudine impone. Io non sono adatto per una situazione come questa. Invano ho cercato di distruggere fiori, come stavo dicendo, poiché molti si avvinghiano agli alberi e si perdono in alto chiudendomi il cielo. Non potrei distruggere in alcun modo il loro profumo, perché questo luogo è come una stanza chiusa. A volte mi sono addormentato guardando un ramo con due o tre fiori; al risveglio mi sono accorto che lo stesso ramo aveva già nove fiori in più. Quanto tempo avrò dormito? Non lo so. Non so mai la durata del mio sonno, però suppongo di dormire come nei giorni in cui svolgo una vita normale. Com'è che in un tempo così breve hanno potuto sbocciare tanti fiori? Se penso a queste cose diventerò pazzo. Osservo il fiore colpevole del mio sonno: è come una campanula ed è dolce (l'ho assaggiato). I rami sui quali sboccia vanno ordendo strani canestrelli. Non ho mai osservato un rampicante tanto da vicino. Si avvolge a tronchi e rami con un tessuto tanto fitto che a volte è impossibile strapparlo. E' come una fascia, come una cascata, come un serpente. Assetato di acqua, cerca i miei occhi, si accosta. Ora ho paura di dormire. Ho degli incubi. Sono già diverse notti che sogno la stessa cosa: madreselva mi confonde con un albero e comincia a tessere intorno alle mie gambe una rete che mi imprigiona. Non credo di star male in salute. Credo, al contrario, di stare assolutamente bene. Eppure, questo stato di sonnolenza non sembra tanto normale. A volte mi chiedo: non avrò perduto completamente la nozione del tempo? Dormo di più di quanto sia abituale per un essere umano, o credo di dormire di più? E' il profumo che mi dà sonnolenza? Nell'ora in cui più si espande, comincio a battere le palpebre, mi si chiudono gli occhi, e cado in un letargo che al risveglio mi preoccupa. Il cammino di un rampicante su un albero fu per alcuni giorni il mio orologio. Come una ricamatrice, andava tessendo i suoi punti intorno a ciascun ramo. Al risveglio, dai nodi che aveva fatto, io potevo calcolare il tempo del mio sonno, però ora, da poco, fa più in fretta. Sono io o il tempo? Passare da un'dea all'altra senza ordine alcuno, è una delle mie caratteristiche attuali, però la verità è che mai ho disposto di tanto tempo né di tanta inattività fisica. Mai ho pensato di potermi trovare in una situazione simile. L'astinenza, oltretutto, mi ha sempre causato orrore. Ieri, sarà stato ieri?. ho bevuto due bottiglie di vino per riprendermi, e dopo aver vagato per il bosco, ubriaco, sono caduto addormentato per non so quanto tempo.
Ho sognato che dicevo: Dove staranno quegli occhi che mi guardavano tanto? Che berranno? Ci sono persone che sono mani, altre bocche, altre capigliature, altre petto dove uno giace, altre collo, altre occhi, nient'altro che occhi. Come lei. Cercavo di spiegarglielo quando stavamo sull'aereo, però lei non capiva. Capiva solo con gli occhi e domandava: "Come? Come dice?"
Mi svegliai lontano dai viveri credendo che non li avrei più ritrovati. Mi redarguii aspramente. Ebbi discussioni con me stesso. Tornai guidato da una grazia divina, senza dubbio, al luogo di salvezza: i miei alimenti. Che ironia della sorte! Dipendere dai cibi quando mi vantavo tra gli uomini di poter trascorrere venti giorni a digiuno, e me la ridevo dello sciopero della fame! Ora, per un dattero o per una disgustosa castagna di Cajù, avrei venduto l'anima. Sicuramente tutti gli uomini sono uguali e reagirebbero allo stesso modo. Non mi muovo, sto chiuso come in una cella. Non avrei mai supposto che cella e selva si somigliassero tanto, che società e solitudine avessero tanti punti di contatto. Dentro il mio orecchio un milione di persone discutono, si scontrano, si ingegnano per distruggermi. Tra ra ra ra ra sono stufo.
Dio mio, che mi sia concesso di non dimenticarmi di quegli occhi. Che l'iride viva nel mio cuore come se il mio cuore fosse di terra e l'iride una pianta.
Queste voci contraddittorie (tornando alle voci che sento dentro il mio orecchio), si ingegnano per distruggermi.
Amatevi gli uni con gli altri. Mai fu tanto difficile seguire questo precetto. Ugualmente non c'è bisogno di disprezzare la solitudine. Un giorno il mondo si popolerà tanto che la mia tana non sarà più solitaria. Pensare a trasformazioni mi dà il capogiro. Con gli occhi chiusi penso a tutte queste scemenze, ed è una imprudenza; il rampicante approfitta della mia distrazione per avvinghiarsi alla mia gamba destra, tesse una rete minuziosa su ciascun dito del mio piede. Il dito più piccolo mi fa ridere. Con quale stratagemma gli si avvolge intorno. Non parliamo dell'alluce che pare un issopo. Il rampicante avanza rapidamente nel suo lavoro con metodi distinti: per i diti piccoli del mio piede utilizza semplicemente un punto che assomiglia molto alle spalliere di sedie di vimini moderne, per superfici grandi utilizza uno strano intreccio di arabeschi che imitano le foderine di plastica delle automobili. Strappo dal mio piede la treccia con una certa difficoltà. Ricordo un rampicante della mia casa chiamato amante del muro, e che ha zampette con degli artigli che aderiscono alle pareti. Ricordo di averne strappato da bambino alcuni rami, e di aver sentito la resistenza della pianta in ciascuna foglia, come gattini che non vogliono mollare la presa. Questo rampicante non ha zampette come l'amante del muro. Maggiore è il suo merito. Infaticabilmente va tessendo e tessendo lacci. Poveri alberi, povere piante che cadono sotto i suoi artigli! Felice l'albero poco sensitivo. Glielo dicevo a qualcuna (per la quale ormai non sento più amore) per commuoverla. Mi è rimasto il verso, ma non sono tanto sicuro di codesto poco sensitivo. Di notte mi pare di aver udito gli alberi lamentarsi, abbracciarsi, respingersi o sospirare, inginocchiarsi davanti a quelli della propria famiglia e ad altri già sopraffatti dal rampicante. Sono entrato in questo mondo vegetale ignorandolo completamente. L'unico albero che conoscevo, fuori del salice, s'intende, era la tipa. Una volta la mamma disse attraversando piazza San Martin:
 - Che belle tipe! - passavano in quel momento due donne orrende e scoppiai a ridere.
- Di che cosa ridi? - protestò mamma guardando le fronde delle tipe, e aggiunse: - Per caso ora non si possono ammirare neppure gli alberi?
- Che alberi? - chiesi.
- Le tipe, ignorante. Non sai ancora cosa sono le tipe?
- Ah!, le tipe, - risposi con evidente stupore, - io credevo che parlavi di quell'altre tipe.
- Non sai neppure parlare. Staresti meglio nella foresta a chiacchierare con le scimmie.
Povera mamma, come si sarà pentita dell'insulto. A volte questo ricordo mi tiene desto, ma non posso farci niente. Guardo nell'oscurità le tipe. Avevano fiori gialli, il vestito di mamma sembrava più celeste. E io avrò sempre la mia faccia grigia di Buenos Aires?
Cosa guarderanno quegli occhi?
Faccia scipita, diceva la sarta che veniva a cucire in casa per le mie sorelle e pensava sempre che io avessi ancora dodici anni quando già ne avevo compiuto venti. Che strazio avere vent'anni! Non rimpiango la mia casa; questo no, però uno specchio è sempre una compagnia, cattiva o buona come tutte le compagnie, e lì avevo uno specchio rotondo come una luna. Stavolta ho dormito più di tutte le altre volte, più del giorno della sbronza: è chiaro che non posso essere sicuro di non sbagliarmi.
Dove saranno quegli occhi? Li starò dimenticando? Non ricordo molto bene la forma del loro angolo interno.
A volte uno dorme cinque minuti e sembrerebbe che ha dormito tutta la notte... Mi sono addormentato all'imbrunire, mi sono svegliato con una luce crepuscolare. Avrei dunque dormito solo cinque minuti? Però ho una prova schiacciante che non è stato così: il rampicante ha avuto tempo di tessere la sua treccia intorno alla mia gamba sinistra e di arrivare fino alla coscia; ce l'ha con la mia gamba sinistra! Come se non fosse sufficiente, ha fatto altrettanto con il mio braccio sinistro. Questa volta l'ho strappata con maggiore difficoltà però con meno fretta della volta precedente, dicendogli animale, come ad una delle mie amiche che mi punzecchiava sempre. Ho deciso di cambiare tana. Carico i miei viveri e mi sposto in cerca di un angolo senza rampicanti però non lo trovo e la camminata mi stanca. A volte penso che siano passati tanti anni e che sono vecchio; però se fosse così non mi resterebbero provviste. Ora mi sono fermato in un posto forse peggiore, ma non ho la forza di tornare sui miei passi. Tutta questa foresta è un rampicante. Perché preoccuparmi? C'è da preoccuparsi soltanto per le cose che hanno una soluzione. Il profumo continuerà ad ubriacarmi, a darmi sonnolenza. Il rampicante continuerà a fare le sue trecce. Adesso sono rare le volte che mi sveglio senza che non abbia tessuto qualche treccia intorno al mio braccio o alla mia gamba. Non più tardi di ieri si è arrampicato sul mio collo. Mi seccò un poco. Non che mi facesse paura, neppure quando si attorcigliò intorno alla lingua. Ricordo che nel sognare gridai e aprii imprudentemente la bocca. E' strano. Non avevo mai pensato che un rampicante potesse introdursi tanto facilmente in bocca.
- Anormale. Che ti sei creduto? Non ci si può fidare proprio di nessuno, - gli dissi.
Mi diverte perché penso alle risate che si faranno i miei amici a questo punto. Non mi crederanno. Neppure crederanno che non posso stare in ozio. Negli ultimi tempi cerco di tessere trecce come i rampicanti intorno ai rami: è un esperimento piuttosto interessante, ma difficile. Chi può competere con una pianta rampicante? Sono tanto occupato che mi dimentico di quegli occhi che mi guardavano; a maggior ragione dimentico persino di bere e di mangiare. Mutevole genere umano! Avvolsi l'astuccio della penna con i miei steli verdi, come i portapenne ricamati con lana e seta dei detenuti.

(Silvina Ocampo, I giorni della notte. Einaudi, 1976)








lunedì 12 settembre 2016

Brevi note sull'arte e il modo di sistemare i propri libri


Ogni biblioteca [1] risponde a una duplice esigenza, che spesso è anche una duplica mania: quella di conservare alcune cose (dei libri) e quella di sistemarle in un certo modo.
Un mio amico un giorno progettò di arrestare la sua biblioteca a 361 opere. L'idea era la seguente: partendo da un numero n di opere, e avendo raggiunto, per addizione o sottrazione, il numero K=361, ritenuto quello giusto per una biblioteca, se non ideale, almeno sufficiente, imporsi di non acquistare definitivamente un'opera nuova X se non dopo averne eliminata (regalandola, buttandola, vendendola, o con qualunque altro sistema atto alla bisogna) una vecchia Z si mantenga costante e uguale a 361: 
K + X > 361 > K - Z
La realizzazione del seducente progetto si scontrò con ostacoli prevedibili, ai quali furono trovate le soluzioni necessarie: innanzi tutto si giunse a considerare che un volume - mettiamo della Pléiade - contasse per (1) libro, anche se riuniva tre (3) romanzi (o raccolte di poesie o di saggi, ecc.); se ne dedusse che tre (3) o quattro (4) o n romanzi di uno stesso autore corrispondevano (implicitamente) a un (1) volume di tale autore, intendendoli come frammenti non ancora riuniti, ma inevitabilmente destinati a riunirsi in Opere Complete. A partire da questo punto, si cominciò a considerare che il romanzo appena acquistato di quel romanziere di lingua inglese della seconda metà del XIX secolo non avrebbe logicamente potuto contare come un'opera nuova X, bensì come un'opera Z appartenente a una serie in via di costituzione: l'insieme T di tutti i romanzi scritti dal suddetto romanziere (e Dio solo sa quanti!). Ciò non alterava affatto il progetto iniziale: semplicemente, invece di parlare di 361 opere, si decise che la biblioteca essenziale avrebbe dovuto comporsi idealmente di 361 autori, sia che avessero scritto uno smilzo opuscolo o di che riempire un camion. La modifica risultò efficace per parecchi anni: ma arrivò il momento in cui apparve chiaro che certe opere - poniamo i romanzi del ciclo cavalleresco - non avevano autore o ne avevano più di uno, e che certi autori - i dadaisti, per esempio - non potevano essere separati gli uni dagli altri senza perdere automaticamente dall'80 al 90 % di ciò che costituiva il loro interesse precipuo: si giunse così all'idea di una biblioteca limitata a 361 temi - il termine è vago, ma i gruppi che a volte ricopre lo sono altrettanto - e questo limite ha rigorosamente assolto fino a ora alla propria funzione.
Così, uno dei principali problemi per l'uomo che conserva i libri che ha letto, o che si ripromette un giorno di leggere, è dunque quello dell'accrescimento della propria biblioteca. Non tutti hanno la fortuna di essere il Capitano Nemo:

"... per me il mondo è finito il giorno in cui il Nautilus si è inabissato per la prima volta nelle acque. Quel giorno, ho comprato i miei ultimi libri, i miei ultimi opuscoli, i miei ultimi gionali, e da allora voglio credere che l'umanità non ha più pensato né scritto".

I 12.000 volumi del Capitano Nemo, tutti rilegati alla stessa maniera, sono stati classificati una volta per tutte, e tanto più facilmente dal momento che la classificazione, viene precisato, non fa distinzione, almeno dal punto di vista linguistico (precisazione che non riguarda affatto l'arte di sistemare una biblioteca, mentre intende più semplicemente ricordarci come il Capitano Nemo parli indifferentemente tutte le lingue). Ma per noi, che continuiamo ad avere a che fare con un'umanità che si ostina a pensare, a scrivere e soprattutto a pubblicare, il problema dell'incremento delle nostre biblioteche tende a diventare il solo problema reale: è evidente che non è poi così difficile conservare dieci o venti libri, e diciamo pure anche cento; ma quando si comincia ad averne 361, o mille, o tremila, e soprattutto quando il numero continua ad aumentare ogni  giorno o quasi, allora il problema si pone davvero: in primo luogo, dove sistemare tutti questi libri; poi, poterli trovare allorché, per una ragione o l'altra, arriva il momento in cui si ha finalmente voglia o bisogno di leggerli, o anche di rileggerli.
Così il problema delle biblioteche si rivela duplice: un problema di spazio innanzi tutto, e poi di ordine.

1. Lo spazio

   1.1. Generalità

I libri non sono sparsi ma riuniti. Come si mettono in una credenza tutti i barattoli della marmellata, così mettiamo tutti i libri in uno stesso posto, o in più posti. Volendo, si potrebbero conservare ficcandoli in valigie che poi sbattiamo in cantina o in solaio o in fondo a qualche armadio; ma in genere si preferisce che i libri siano visibili.
In pratica, i volumi sono per lo più disposti uno accanto all'altro, lungo un muro o una parete che faccia da divisorio, su dei supporti rettilinei, paralleli fra loro, non troppo profondi né troppo distanziati. I libri sono sistemati - di solito - nel senso dell'altezza e in modo che il titolo sul dorso sia visibile (a volte, si espone la copertina dei volumi, come nelle vetrine delle librerie; ma è indisponente, quasi sempre di cattivo gusto, e perciò proscritto, disporre un libro in modo che di esso si veda solo uno dei lati rifilati).
Nell'arredamento contemporaneo, la biblioteca è un angolo: l'"angolo biblioteca". Spesso rientra in un insieme detto "soggiorno" di cui fanno parte anche:
   il mobile-bar a ribalta
   il secrétaire anch'esso a ribalta
   la credenza a due ante
   lo hi-fi
   il televisore
   il proiettore per le diapositive
   la vetrinetta
   ecc.
e che i cataloghi, per renderlo più attraente, presentano abbellito con false rilegature d'epoca.
In pratica però, i libri possono essere collocati quasi dappertutto.

   1.2 Vani in cui è possibile mettere i propri libri

   nell'ingresso
   nel soggiorno
   nella o nelle camere
   nel cesso
In cucina d'abitudine si tiene un solo genere di volumi, quello che per la precisione è detto "libro di cucina".
E' molto raro trovare libri in bagno, benché sia per molti un luogo favorito di lettura. L'umidità dell'ambiente è unanimemente considerata la prima nemica per la conservazione della carta stampata. Tutt'al più, in bagno si può trovare un armadietto-farmacia con dentro un libretto intitolato Che cosa bisogna fare in attesa del medico?

   1.3. Posti di un vano dove è possibile disporre libri

   Sulle mensole dei caminetti o dei radiatori (pur considerando che, alla lunga, il calore può risultare nocivo),
   tra due finestre,
   nella strombatura di una porta chiusa,
   sugli scalini di uno sgabello di biblioteca, rendendolo così inutilizzabile (molto chic, vedi Renan),
   sotto una finestra,
   in un mobile disposto obliquamente e che separi il vano in due (molto chic, fa ancora più effetto con qualche pianta verde).

   1.4. Oggetti che non sono libri e che si trovano spesso nelle biblioteche

Fotografie in cornici di ottone dorato, piccole stampe, disegni a penna, fiori secchi in bicchieri a calice, pirofori guarniti o no di accendini chimici (pericolosi), soldatini di piombo, una fotografia di Ernest Renan nel suo studio al  Collège de France, cartoline postali, bamboline, scatolette, bustine di sale pepe e mostarda della Lufthansa, pesalettere, ganci a X, biglie, nettapipe, modellini di vecchie automobili, ciottoli e sassi multicolori, ex-voto, molle.

2. L'ordine

Una biblioteca non in ordine crea disordine: si tratta dell'esempio che mi è stato presentato per farmi capire il concetto dell'entropia e più volte l'ho verificato in via sperimentale.
Il disordine in una biblioteca non è di per sé una cosa grave; c'è forse ordine in "chissà in quale cassetto ho messo i calzini?": istintivamente si crede sempre si sapere dove è stato messo il tal libro o il talaltro; e anche se non lo si sa, non è poi così difficile scorrere rapidamente gli scaffali.
A questa apologia del disordine simpatico si oppone la meschina tentazione della burocrazia individuale: ogni cosa al posto giusto e il posto giusto per ogni cosa, e viceversa; tra queste due tensioni, l'una che privilegia il lasciar andare, la bonomia anarchica, e l'altra che esalta le virtù della tabula rasa, della freddezza efficiente della grande sistemazione, si finisce sempre per cercare di mettere ordine tra i propri libri: è un'operazione defatigante, deprimente, eppure suscettibile di riservare piacevoli sorprese, per esempio quella di ritrovare un libro dimenticato a forza di non vederlo più e che, rinviando all'indomani ciò che non si farà oggi, uno divora di nuovo piazzandosi ben comodo sul letto.

   2.1 Modi di sistemare i libri

   ordine alfabetico
   ordine per continenti o paesi
   ordine per colore
   ordine in base alla data d'acquisto
   ordine secondo la data di pubblicazione
   ordine per formati
   ordine per generi
   ordine seguendo i grandi generi letterari
   ordine per lingua
   ordine per priorità di lettura
   ordine per rilegature
   ordine per collane

Nessuno di questi ordini è in sé e per sé soddisfacente. In pratica, ogni biblioteca trova la propria sistemazione a partire dalla combinazione di tutti questi modi di classificazìone: ponderazione, resistenza ai cambiamenti, desuetudine, stabilità, conferiscono a ogni biblioteca una personalità unica.
Innanzi tutto conviene distinguere le classificazioni stabili da quelle provvisorie; le classificazioni stabili sono quelle che in linea di principio si continuerà a rispettare; le classificazioni provvisorie sono destinate a durare appena qualche giorno, ossia il tempo che il libro trovi, o ritrovi, il suo posto definitivo: può trattarsi di un'opera acquistata di recente e non ancora letta, o di un'opera letta da poco, che non si sa bene dove collocare e alla quale ci siamo ripromessi di trovare un posto in occasione di una prossima "grande sistemazione"; o, ancora, è un'opera di cui abbiamo interrotto la lettura e che non vogliamo classificare prima di averla ripresa e conclusa, oppure un libro che abbiamo molto consultato durante un determinato periodo, o un volume che è stato preso per cercare un'informazione o una citazione e che non è ancora stato rimesso al suo posto, o un libro che non si può inserire dove si dovrebbe perché non è nostro e più volte abbiamo deciso di restituirlo, ecc.
Per quanto mi riguarda, circa tre quarti dei miei libri non hanno mai avuto una vera classificazione. Quelli che non sono sistemati in maniera definitivamente provvisoria lo sono in maniera provvisoriamente definitiva, come all'OuLiPo. Aspettando l'ordine, li trasporto da una stanza all'altra, da uno scaffale all'altro, da un mucchio all'altro, e mi capita così di passare tre ore a cercare un libro senza trovarlo, ma con la soddisfazione, a volte, di scoprirne altri sei o sette che mi vanno bene lo stesso.

   2.2. Libri molto facili da sistemare

I grandi Jules Verne con la rilegatura rossa (siano essi dei veri Hetzel o riedizioni Hachette), i volumi molto grandi e quelli piccolissimi, i Baedeker, i libri rari o ritenuti tali, i libri rilegati, i volumi della Pléiade, i Présence du Futur, i romanzi pubblicati dalle Editions de Minuit, le collane (Change, Textes, Les Lettres nouvelles, Le Chemin, ecc.), le riviste, quando ce ne siano almeno tre numeri, ecc.

   2.3. Libri non troppo difficili da sistemare

I libri sul cinema, siano saggi su registi, album su dive o su sceneggiature di film; i romanzi sudamericani, l'etnologia, la psicanalisi, i libri di cucina (vedi più sopra), le guide del telefono (a fianco dell'apparecchio), i romantici tedeschi, i volumetti della collana Que sais-je? (il problema, infatti, è se metterli tutti assieme o suddividerli secondo la disciplina che trattano), ecc.

   2.4. Libri quasi impossibili da sistemare

Tutti gli altri libri, per esempio riviste di cui si possiede un solo numero, o La Campagne de 1812 en Russie di Clausewitz, tradotto dal tedesco da M. Bégouen, Capitano del 31° Dragoni, ufficiale diplomato di Stato Maggiore, con una carta, Paris, Librairie militaire R. Chapelot et Cie, 1900, o ancora il fascicolo 6 del volume 91 (novembre 1976) delle Publications of the modern Language Association of America (PMLA) che contiene il programma delle 666 riunioni di lavoro del congresso annuale della predetta associazione.

2.5. Come i borgesiani bibliotecari di Babele alla ricerca del libro che darà loro la chiave di tutti gli altri, anche noi oscilliamo fra l'illusione della compiutezza e la vertigine dell'inafferrabile. In nome della compiutezza, vogliamo credere che esista un unico ordine che ci permetterebbe di accedere di colpo al sapere; in nome dell'inafferrabile, vogliamo pensare che l'ordine e il disordine siano due termini che si equivalgono nel designare il caso.
Può anche darsi che entrambi siano solo delle illusioni e delle apparenze destinate a dissimulare l'usura dei libri e dei sistemi.
Tra i due, in ogni caso, non è poi tanto male che di tanto in tanto le nostre biblioteche servano anche per appendervi dei promemoria, da cuccia per il gatto e da ripostiglio.


1 - Definisco biblioteca un insieme di libri raccolto da un lettore non di professione per il proprio piacere e uso quotidiano. La definizione esclude le collezioni dei bibliofili e le rilegature a metraggio, ma anche la maggior parte delle biblioteche specializzate (quelle dei professori, per esempio), poiché i loro problemi particolari sono affini a quelli delle biblioteche pubbliche.


(Georges Perec, Pensare/Classificare. Rizzoli, 1989)








martedì 28 giugno 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Il sorprendente caso della vista di Davidson

La transitoria aberrazione mentale di cui soffrì Sidney Davidson, già sorprendente in sé e per sé, lo diventa ancor più se vogliamo dar credito alla spiegazione che ne fornisce Wade. Questa induce a fantasticare a curiosissime forme future di comunicazione, a interpolazioni di cinque minuti da trascorrere sull'altra faccia del mondo, all'intrusione di sguardi assolutamente insospettati nelle nostre faccende più segrete. Poiché si dà il caso ch'io sia stato diretto testimone dell'attacco sofferto da Davidson, spetta a me, per naturale ordine di cose, consegnare la storia alla carta.
Fui diretto testimone della crisi, nel senso che fui il primo ad arrivare sul posto. Accadde all'istituto tecnico di Harlow, precisamente dietro l'arcata dell'ingresso principale. Quando accadde l'incidente, egli si trovava da solo, nel laboratorio grande. In un ambiente più piccolo, quello delle bilance, io stavo scrivendo certi appunti. Il temporale aveva scombussolato il mio lavoro, naturalmente. Proprio un attimo dopo uno degli scoppi di tuono più forti, udii, nell'altra stanza, rumore di vetri infranti. M'interruppi dallo scrivere e mi voltai, rimanendo in ascolto. Per un po', non sentii niente; la grandine sonava una stamburata del diavolo sul tetto in lamiera ondulata. Poi venne un altro rumore, uno schianto, e questa volta non c'era da dubitarne. Era stato fatto cadere dal banco un oggetto pesante. Saltai subito in piedi e, raggiungendo la porta che dà nel laboratorio grande, l'aprii.
Rimasi sorpreso nell'udire uno strano riso, e vidi Davidson ritto in mezzo alla stanza, malfermo, con un'aria di stordimento in viso. Come prima impressione, mi parve ubriaco. Non si accorse di me. Stava cercando di acchiappare qualcosa di invisibile, a un metro circa dal volto. Protendeva la mano adagio, in modo piuttosto esitante, e poi non acchiappava niente. "Be', che cosa succede?" chiesi.
Egli si portò le mani al viso, a dita allargate, "Grande Scott!" disse. Il fatto accadeva tre o quattr'anni fa, quando si usava imprecare in nome di quel personaggio. Egli si mise a sollevare goffamente i piedi, quasi ritenendoli incollati al pavimento.
"Davidson!" esclamai. "Che cosa ti prende?" Girò su se stesso, volgendosi nella mia direzione, e mi cercò con gli occhi. Guardò oltre, addosso  e accanto a me, dall'una e dall'altra parte, senza dare il minimo cenno di vedermi. "Ondate," disse "e una gran bella goletta. Avrei giurato ch'era la voce di Bellows. Ehi!" gridò, con quanto fiato aveva in gola.
Sospettai che volesse fare il buffone. Poi vidi i cocci del nostro migliore elettrometro, sparsi intorno ai suoi piedi. "Che cosa ti ha preso, vecchio mio?" dissi. "Hai rotto l'elettrometro!"
"Ancora Bellows!" diss'egli. "Gli amici non mi abbandonano come l'equipaggio! Che cosa c'entrano gli elettrometri... Da che parte sei Bellows?" Improvvisamente, barcollando, mi venne incontro. "Questa dannata roba non taglia più del burro," disse. Andò a sbattere in pieno nel banco di laboratorio, e indietreggiò. "Questa era meno burrosa!" fece, e rimase dov'era, vacillando. 
Io m'impaurii. "Davidson," dissi, "che cosa mai ti è capitato?"
Si guardò intorno, in tutte le direzioni. "Giuro ch'era la voce di Bellows. Perché non vieni fuori, da uomo, Bellows?"
Mi venne in mente che fosse rimasto improvvisamente accecato. Feci il giro della tavola e gli posai una mano sul braccio. In vita mia, non ho mai veduto uomo più sbigottito di lui. Si allontanò da me d'un balzo, e mi fronteggiò, in atteggiamento di difesa, con la faccia stravolta dal terrore. "Gran Dio!" gridò. "Che cosa è stato?"
"Sono io, sono Bellows. Piantala, Davidson!"
Sussultò, udendomi rispondere, e, ad occhi sbarrati fissò lo sguardo... come potrei dire... dritto attraverso di me. Disse (non a me, a se stesso): "Qua, in piena luce, sulla nuda spiaggia, e non un solo posto per nascondersi..." Si guardò attorno, disperatamente. "E allora, via!" Di botto si girò e corse a capofitto nel grosso elettromagnete, con tanta violenza che, come poi constatammo, si produsse una dolorosa contusione alla spalla e alla mascella. Di fronte a ciò, fece un passo indietro ed esclamò, quasi piangendo: "In nome di Dio! Che cosa mi è capitato?" Rimase ritto, sbiancato dal terrore, scosso da un violento tremito, tenendosi con la destra il braccio sinistro, dove si era fatto male.
Ormai ero agitato e parecchio spaventato, ma dissi: "Davidson, non avere paura."
Sussultò, nell'udirmi, ma non come prima. Ripetei le parole, facendo del mio meglio per parlare con voce chiara e ferma. "Bellows," disse egli, "sei tu?"
"Non lo vedi, che sono io?"
Rise: "Non vedo neanche me stesso. Dove siamo?"
"Qua," dissi "nel laboratorio."
"Laboratorio!" ribatté, con voce perplessa, toccandosi la fronte. "Io ero in laboratorio... fino al momento del lampo, ma adesso... Che m'impicchino se sono là. Che nave è, quella?"
"Nessuna nave," dissi. "Da bravo, vecchio mio, sii ragionevole."
"Nessuna nave!" ripeté, e parve scordare lì per lì il mio diniego. "Immagino," fece, lentamente "che siamo morti, tutti e due; ma la cosa strana è che mi sembra proprio di avere ancora il corpo. Forse non ci si abitua di colpo. La mia povera nave è stata colpita dal fulmine, probabilmente. Però così, in un batter d'occhio... Bellows, eh?"
"Non dire scempiaggini. Siamo vivi, vivissimi, tutti e due. Ti trovi nel laboratorio, e stai brancolando. Un attimo fa hai fracassato un elettrometro nuovo. Sentirai Boyce, quando viene! Non t'invidio."
Girò lo sguardo altrove e parve fissare i diagrammi dei crioidrati. "Debbo essere sordo," fece. "Hanno sparato una cannonata, poiché ecco là una nuvola di fumo, e non ho sentito alcun rumore."
Tornai a posargli la mano sul braccio e, questa volta, si spaventò meno. "A quanto pare, abbiamo una specie di corpo invisibile," disse egli. "Per Giove! Ecco un'imbarcazione, che doppia la punta di terra. E' tutto molto simile all'altra vita... in clima diverso."
Gli scossi il braccio. "Davidson," gridai, "svegliati!"
Proprio allora entrò Boyce e, appena questi aprì bocca, Davidson ruppe in una esclamazione: "Il vecchio Boyce! Morto anche lui! Che scherzo!"
Spiegai in fretta che Davidson era in una specie di stato di sonnambulismo. Boyce capì subito. Facemmo entrambi tutto il possibile per riscuotere il nostro compagno dalla sua straordinaria condizione. Egli rispondeva alle nostre domande, ne faceva anche alcune per conto suo; ma pareva avere la mente presa da un'allucinazione, in cui c'erano una nave e una spiaggia. Non smetteva di inserire frasi a proposito di una imbarcazione, e delle gru delle imbarcazioni, e delle vele che prendevano il vento. Nel sentirlo parlare così, nella penombra del laboratorio, ci si sentiva scombussolati.
Era come cieco, impotente a muoversi da solo. Dovemmo tenerlo, uno per parte, per fargli percorrere il disimpegno, fino all'ufficio privato di Boyce, e mentre questi lo intratteneva, senza contraddirlo su quella sua idea della nave, io passai per il corridoio e andai a chiedere al vecchio Wade di venire a dargli un'occhiata. La voce del nostro preside lo acquetò un poco. Chiese dove fossero le sue mani e perché dovesse andare in giro affondato sino alla cintola nel terreno. Wade, standogli accanto, rifletté a lungo (con quel suo modo di corrugare la fronte), poi gli fece tastare il divanetto, guidandogli le mani. "Questo è un divanetto," disse Wade. "Il divanetto nell'ufficio privato del professor Boyce. Imbottitura di crine."
Davidson palpò qua e là, tutto meravigliato e perplesso, e non tardò a rispondere che effettivamente lo sentiva, ma non lo vedeva.
"E che cosa vede?" gli domandò Wade. Davidson rispose di non veder altro che una quantità di sabbia e frammenti di conchiglie. Wade gli diede da tastare vari altri oggetti, dicendogli ciò che erano e osservandolo intensamente.
"Lo scafo della nave è stato quasi mangiati dall'orizzonte," disse Davidson a un tratto, senza alcun rapporto con il discorso.
"Lasci perdere la nave," disse Wade. "Senta, Davidson. Lei ha presente che cos'è un'allucinazione?"
"Altroché," rispose Davidson.
"Ebbene, tutto ciò che lei vede ha carattere di allucinazione."
"Storie," disse Davidson.
"Non mi fraintenda," disse Wade. "Lei è vivo ed è in questa stanza, che è la stanza di Boyce. Ma i suoi occhi non funzionano. Lei ha il tatto, ha l'udito. Regolarmente. Ma non la vista. Riesce a seguirmi?"
"A me sembra di vedere sin troppo." Davidson si sfregò gli occhi con le nocche. "E allora?" disse.
"Tutto qui. Non si lasci turbare. Il nostro Bellows, qui presente, ed io stesso, l'accompagnamo a casa."
"Un momento." Davidson rifletté. "Mi faccia sedere," disse poi. "E adesso... Mi spiace di darle questo fastidio ma... Vuol ripetermi tutto quanto, per favore?"
Con grande pazienza, Wade ripeté. Davidson stava ad occhi chiusi, premendosi la fronte con le mani. "Sì," disse alla fine. "Esatto. Adesso che ho gli occhi chiusi, so che lei ha ragione. Sei tu, Belloes, seduto qua, accanto a me, sul divanetto. Sono di nuovo in Inghilterra. E siamo al buio."
Poi aprì gli occhi. "E qua," disse, "il sole si sta levando in questo istante, ci sono in lontananza i pennoni della nave, il mare mosso, una coppia di uccelli in volo. Non ho mai veduto nulla di più reale. E sono seduto su una spiaggia, con la sabbia fino al collo."
Si piegò in avanti e si coprì il volto con le mani. Poi riaprì gli occhi. "Mare agitato. Alba. Eppure sono seduto sul sofà nella stanza del vecchio Boyce...! Dio m'aiuti!"
Questo fu il principio. Per tre settimane, questo strano scompenso visivo di Davidson proseguì senza alcun miglioramento. Molto peggio che essere cieco. Era del tutto incapace, bisognava imboccarlo, condurlo in giro per mano, spogliarlo. Se appena si attentava a muoversi da solo, capitombolava sugli oggetti o andava a sbattere nei muri o nelle porte. In capo a un giorno, o giù di lì, si abituò ad udire le nostre voci senza vederci, e ammise di buon grado ch'era a casa, e che Wade aveva ragione. Mia sorella , che era la sua fidanzata, volle assolutamente venire a trovarlo, e rimase ad assisterlo, ascoltando per ore, ogni giorno, i suoi discorsi a proposito di quella tale spiaggia. Tenendole la mano tra le sue, pareva enormemente sollevato. Spiegò che quando lo avevamo riportato a casa in carrozza, dall'istituto fino ad Hampstead dove abitava, gli era sembrato come se passassimo, con tutta la carrozza, dentro una duna (in un nero totale, finché non era tornato fuori dall'altra parte), nonché attraverso rocce ed alberi ed altri corpi solidi. E quando l'avevamo portato nella sua camera gli erano venute le vertigini, ed era diventato quasi frenetico per il timore di cadere, perché il fatto di condurlo su per le scale al primo piano gli aveva dato l'impressione di innalzarsi a dieci o dodici metri sopra le rocce della sua isola immaginaria. Continuava a dire che avrebbe schiacciato tutte le uova. In conclusione, lo si era dovuto riportare a pianterreno, nell'ambulatorio del padre, e coricarlo su un divano che c'era lì.
Descrivendo l'isola, disse che, nell'insieme, era un luogo squallido, con pochissima vegetazione, solo un po' di sterpaglia da torba e rocce nude, in quantità. C'erano branchi numerosi di pinguini, che coprivano le rocce di materia bianca, disgustosa a vedersi. Spesso c'era mare grosso, ed una volta scoppiò un temporale ed egli, sdraiato, gridava per i fulmini silenziosi. Una o due volte, qualche foca venne a far sosta sulla spiaggia; ma ciò accadde solo i primi due o tre giorni. Disse di trovare molto curioso che i pinguini, dondolandosi, gli passassero tranquillamente attraverso il corpo e che, sdraiato in mezzo a loro, non sembrasse disturbarli.
Una cosa bizzarra, quand'ebbe una voglia matta di fumare, fu che gli mettemmo in mano la pipa (quasi se la ficcò in un occhio) e gliela accendemmo; ma non sentì nessun sapore. In seguito ho scoperto che lo stesso accade a me, a tutti, può darsi: il tabacco non mi dà nessun piacere se non vedo il fumo.
Ma l'episodio più bislacco delle sue visioni si produsse nella sedia a ruote con la quale, su consiglio di Wade, andava a prendere un po' d'aria. I Davidson ne avevano preso una a nolo e incaricarono quel loro domestico sordo e cocciuto, Widgery, di spingerla. Widgery aveva idee particolari in fatto di gite salubri. Mia sorella, ch'era andata alla Dogs' Home, li incontrò in Camden Town, verso King's Cross, con Widgery che trotterellava soddisfatto, e Davidson, evidentemente angosciatissimo, che in quel suo debole modo di cieco, cercava di richiamare l'attenzione di Widgery.
Quando mia sorella gli rivolse la parola, egli si mise proprio a piangere. "Oh! Fammi uscire da questa orribile tenebra!," le disse, cercando a tentoni la sua mano. "Ne debbo uscire, o muoio." Non era assolutamente in grado di spiegare che cosa gli accadesse, ma mia sorella volle senz'altro farlo tornare a casa, e in breve, facendo la salita verso Hampstead, egli sembrò liberarsi dell'orrore. Disse che era bello rivedere le stelle: ma era circa mezzogiorno, con un cielo abbagliante.
"Pareva," mi disse poi "che venissi irresistibilmente trascinato verso l'acqua. Non ne fui troppo allarmato, dapprima. Naturalmente, là era notte, una notte bellissima."
"Naturalmente?" chiesi, colpito.
"Naturalmente," ripeté. "Là è sempre notte quando qua è giorno... Ebbene, entrammo dritto nell'acqua, ch'era calma e lucente nel chiar di luna, c'era solo un mare lungo che sembrò ancora più lungo e piatto allorché vi entrai. La superficie brillante era come una pelle: sotto poteva anche esserci il nulla, per quel che ne potevo dire io, pro o contro. Molto adagio, poiché venivo immerso là dentro di sbieco, l'acqua mi salì pian piano fino agli occhi. Poi andai sotto e quella pelle parve infrangersi e cicatrizzarsi nuovamente intorno ai miei occhi. La luna fece un salto, su, nel cielo, diventando verde e poco luminosa, e pesci mi sfrecciarono intorno, con debole bagliore. Anche altre cose, che sembravano fatte di vetro luminescente. Passai attraverso un groviglio di alghe che brillavano di una lucentezza oleosa. E così scesi dentro il mare, le stelle sparirono ad una ad una, la luna si fece più verde e scura, e la vegetazione sottomarina assunse un colore rosso purpureo. Tutto era appena intravisto, misterioso, e come in un brivido. Intanto, non cessavo un solo istante di sentire il cigolio delle ruote della seggiola, i passi della gente, uno strillone che, lontano, vendeva il Pall Mall.
"Colavo sempre più a fondo. Intorno a me si fece buio, nero come l'inchiostro. Dall'alto neanche un raggio penetrava in quelle tenebre, e le fosforescenze diventavano sempre più brillanti. Gli steli serpentini delle alghe, più in fondo, tremolavano come la fiamma di un fornello ad alcool, ma, dopo un po', non ci furono più alghe. I pesci con gli occhi fissi, le bocche spalancate, si avvicinavano, mi penetravano, passavano dall'altra parte. Pesci come non me li ero mai immaginati. Con righe ignee sui fianchi, come se fossero stati sottolineati con una matita luminosa. Ci fu anche un animale orrendo che nuotava all'indietro, con una quantità di braccia flessibili. E infine vidi venirmi incontro, molto lentamente attraverso il buio, una massa confusa di luce che, nell'avvicinarsi, si risolse in moltitudini di pesci, che lottavano e sfrecciavano intorno a un oggetto fluttuante. Venivo portato dritto contro a quello, e ben presto, nel mezzo del tumulto, al lume dei pesci, vidi un pezzo d'albero di nave, spezzato, che si alzava sopra di me, ed uno scafo scuro, tutto sbandato, e alcune forme fosforescenti, rilucenti, che ai morsi dei pesci oscillavano e si contorcevano. Fu allora che tentai di richiamare l'attenzione di Widgery. Fui colto dall'orrore. Oh! Sarei stato portato direttamente attraverso quel... quelle cose per metà divorate. Se non fosse sopraggiunta tua sorella... Avevano nel corpo grandi buchi, Bellows, e... Non fa niente. Ma era orribile!"
Per tre settimane Davidson restò in quello stato singolare, vedendo ciò che allora ritenemmo fosse un mondo di fantasmi, puro e semplice, e rimanendo completamente cieco al mondo che lo circondava. Poi, un martedì, nell'andare a fargli visita, incontrai il vecchio Davidson nell'andito. "Riesce a vedere il proprio pollice!" disse il vecchio signore, con autentico trasporto. Stava faticosamente infilandosi il cappotto. "Riesce a vedere il proprio pollice, Bellows!" disse, con le lacrime agli occhi. "Il ragazzo si rimetterà."
Mi precipitai dentro, da Davidson. Si reggeva un libriccino davanti al volto, e lo guardava, e debolmente rideva.
"Stupefacente," disse. "Si è prodotta una specie di chiazza, qui," e additò il punto. "Io sono sulle rocce come al solito, i pinguini barcollano e starnazzano in giro come al solito, e si è fatta vedere, a tratti, una balena, ma adesso è già troppo scuro.
Tuttavia, mettiamo una cosa qua, ed io la vedo, la vedo proprio. In una semioscurità, e con qualche frammentarietà, ma ciò non toglie che la vedo, come un pallido spettro di se stessa. Me ne sono accorto stamane, mentre stavano vestendomi. E' come una breccia in questo infernale mondo di fantasmi. Metti un po' la tua mano accanto alla mia. No... non là. Ah! Sì, la vedo! La base del tuo pollice e un pezzo del polsino. E' simile allo spettro di un pezzo della tua mano che sporgesse dal cielo che annotta. Proprio accanto sta apparendo un gruppo di stelle, che forma come una croce."
Da quel momento, Davidson cominciò a riprendersi. Il suo resoconto del mutamento risultava assai convincente, come quello delle sue visioni. Su certi tratti del suo campo visivo, il mondo spettrale si fece più pallido, trasparente, si può dire; e attraverso quelle aperture traslucide egli cominciò a vedere l'ombra del mondo reale che lo circondava. Le chiazze si allargarono, crebbero di numero, finché per ultimo rimasero soltanto alcuni punti ciechi nella sua vista. Egli fu in grado di alzarsi, di orientarsi, di rimettersi a mangiare da solo, leggere, fumare e comportarsi come qualsiasi cittadino che si rispetti. In un primo momento rimaneva molto confuso, per quelle due viste che smarginavano l'una sull'altra come i mutamenti di quadro di una lanterna magica, ma egli non tardò a distinguere quella reale dall'illusoria.
Dapprima egli apparve sinceramente felice e più che desideroso di completare la cura, facendo del moto e prendendo tonici. Ma quando quella sua strana isola cominciò a svanire, cominciò a provare per essa una bizzarra curiosità. Desiderava specialmente di scendere un'altra volta nelle profondità del mare, e trascorse metà del suo tempo a vagare per le parti più basse di Londra, cercando di trovare il relitto pieno di acqua ch'egli aveva visto fluttuare. La luce diurna reale, come il suo splendore, non tardò a produrre impressioni tanto vivide da cancellare completamente il suo mondo di ombre; ma, nottetempo, in una stanza, a luci spente, ancora vedeva le rocce dell'isola maculate di bianco, e i goffi pinguini che girellavano barcollando avanti e indietro. Anche questi, però, si fecero sempre più deboli e alla fine, poco dopo il suo matrimonio con mia sorella, li vide per l'ultima volta.
Resta ora da riferire la cosa più bizzarra. Circa due anni dopo la sua guarigione, avevo cenato dai Davidson e, dopo cena, venne in visita un certo Atkins. E' tenente di marina, simpatico, e conversa volentieri. Era in rapporti molto cordiali con mio cognato, e non tardò ad esserlo con me. Seppi che era fidanzato con la cugina di Davidson, e, quando si venne a parlarne, egli tirò fuori una specie di custodia tascabile per fotografie, allo scopo di mostrarci una recente immagine della sua fiancée. "E, già che ci siamo," disse, "ecco qua quella vecchia carcassa del mio Fulmar."
Davidson guardò distrattamente la fotografia. Di colpo il suo viso si illuminò. "Santo cielo!" fece. "Potrei quasi giurare..."
"Che cosa?" domandò Atkins.
"Di avere già visto quella nave."
"Non so come potresti. Non ha lasciato i Mari del Sud, da sei anni a questa parte, e prima..."
"Tuttavia..." prese a dire Davidson. E poi: "Sì, è proprio la nave che ho visto in sogno. Sono certo che è quella. Era in panne, al largo di un'isola che brulicava di pinguini, e ha sparato una cannonata."
"Buon Dio!" disse Atkins, che intanto era stato informato dei particolari della crisi. "Come diavolo hai potuto sognartelo?"
E poi, a pezzi e bocconi, saltò fuori che, proprio il giorno in cui Davidson era stato colto dalla sua crisi, la nave da guerra Fulmar si trovava effettivamente al largo di una scogliera, a sud dell'isola degli Antipodi. Un'imbarcazione era andata a terra di notte, a raccogliere uova di pinguino, aveva subito un ritardo, e, poiché avanzava un temporale, aveva aspettato l'alba per tornare a bordo. Atkins, ch'era tra quelli andati a terra,confermò parola per parola le descrizioni dell'isola e dell'imbarcazione fornite a suo tempo da Davidson. Non rimane alcun dubbio, nella mente di nessuno di noi, che Davidson avesse realmente veduto quel luogo. In modo inspiegabile, mentre si muoveva qua e là, a Londra, la sua vita si muoveva qua e là, in corrispondenza, sulla lontana isola. Il come rimane un completo mistero.
Ciò conclude la sorprendente storia della vista di Davidson. Si tratta, probabilmente, del miglior caso, controllato ed autentico, di reale vista a distanza. Non si offre alcuna spiegazione, eccetto quella avanzata dal professor Wade. Ma la sua spiegazione implica la "quarta dimensione" e comporterebbe una dissertazione sui concetti teorici di spazio. A me sembra assurdo sentir parlare di un "cappio spaziale": forse perché non sono un matematico. Quando gli obiettai che nulla poteva alterare il fatto che quel luogo si trovava a una distanza di tredicimila chilometri, egli ribatté che due punti possono essere lontani un metro su un foglio di carta, ma congiungersi se il foglio viene piegato in tondo. Forse il lettore afferra questa tesi: io, certamente no. A quanto pare Wade pensa che Davidson, chino tra i poli del grande elettromagnete, abbia subito una torsione straordinaria agli elementi della sua retina, a causa del repentino cambiamento provocato, nel campo delle forze, dal fulmine.
Egli ne deduce anche che possa risultare possibile di vivere, visualmente, in una parte del mondo, mentre, con il corpo, si vive in un'altra. Ha condotto persino alcuni esperimenti a sostegno della sua ipotesi; ma, fino a questo momento, è riuscito soltanto a rendere ciechi alcuni cani. Ritengo che il provento netto del suo lavoro si riduca a questo; però non lo vedo da alcune settimane. Ultimamente sono stato così preso dal lavoro, per gli impianti di Saint Pancras, che ho avuto poco modo di andare a trovarlo e a fargli una visitina. Ma la sua teoria mi sembra del tutto fantastica. Su tutt'altro piano stanno i fatti riguardanti Davidson, e posso personalmente testimoniare dell'esattezza di ogni particolare che ho riferito.

(Herbert George Wells, Racconti. Garzanti, 1976)










giovedì 19 maggio 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Le mie invisibilissime pagine

Ognuno lavora come crede. Uno dei lavori più graditi, per me, dei più appassionanti, il lavoro dei lavori è... non scrivere. Ci passerei tutta la vita. Che gioia non annegare nel calamaio, non torturare nel buio e nella materia dell'inchiostro le idee, i sogni così felici di essere abbandonati liberi a se stessi! seguire le fantasie come vengono e dove trascinano! Si lavora d'immaginazione, e non è lavoro da tutti. Quanto a me, la mia fatica di inveterato non scrittore - non volgare fatica! - è di condurre, in pensiero, invisibili penne all'assalto di invisibili fogli di carta alla conquista ideale di volumi e volumi che non saranno mai, altro che nella mia mente, e n'ho ogni soddisfazione. Mi sono composto, così, dentro, un'intera biblioteca, tutta opera mia, e di cui io solo ho la chiave, e dove, modestamente, ci si può trovar di tutto. Filosofia? eccone: tre volumi: 1° Dio esiste. 2° L'uomo è cacciatore. 3° La fregatura è ammessa. E' la trascrizione dei dogmi di una vecchia scuola romana, già presieduta da Gandolin (che tempi!) ma in tema di filosofia nulla si è mai trovato di così sano ed in pari tempo di così trascendentale, e ne ho fatto senz'altro e comodamente la mia dottrina. Politica? servitevi: Bon appétit, messieurs! Naturalmente questi non sono che gli enunciati, i frontespizi dei miei ponderosi trattati ma le ipotetiche pagine che seguono la ipotetica copertina non si contano, ed è una più sensata dell'altra. 
La mia teoria, aiutata da una ben nota indolenza la quale mi è stata fin qui di gran conforto nella vita, è che le idee son fatte per rimanere idee. Sono cose di lusso o pericolose che a portarle sul mercato ci perdono o creano guai. Quante idee - diventate fisse - hanno condotto al manicomio, quante hanno trascinato gente a massacrarsi. Il meglio è servirsene per esclusivo uso interno. Lasciatele al loro stato di puro spirito: è il solo modo per gioirne liberamente, il solo che permetta di averne la mente di continuo ventilata. Fermarsi a tradurne in atto, sia pure su semplice carta, una, vuol dire farsene tiranneggiare; vuol dire escludere tutte le altre possibili; soffocare, forse per educare una rapa, i mille e mille germi odorosi di un giardino incantato.
Corteggiatele tutte, le idee, non sposatene nessuna. La tradirete o vi tradirà!
E' grazie a questi sodi principii che di continuo riesco a regalarmi alla fantasia invisibili pagine meravigliose che scritte sarebbero sciupate. 
E questo sia detto a certi amici i quali si sono presa e si prendono - chissà perché - grandissima cura della mia salute letteraria e non sanno darsi pace - poveretti! - perché io non fabbrichi romanzi, non affacci alle vetrine dei librai volumi di novelle, non illustri il mio nome sui cartelloni teatrali, non scriva - e ci sarebbe tanto da guadagnare! - film cinematografiche ed altrettali e molte bellissime corbellerie consimili. Sciagurati!
Non ci ho io meglio, ed incontaminato, tutto questo, in ciò che i teosofi chiamano il piano astrale, vale a dire il mondo astratto e superiore dov'è lo spirituale stampo delle forme tangibili e concrete?
Signori, favoriscano.
Scelgo, caso, tra le ultime mie creazioni... rimaste al loro stato increato. E' un romanzo e s'intitola l'Insalata Russa. E' un titolo profondo.
Non pare, ma lo è: vuol significare la società dove, come nell'insalata russa, c'è di tutto, dal tartufo alla patata; la patata in prevalenza. E', come già avete immaginato, un romanzo sociale, vale a dire un racconto di calamità oscure, affatto simili - le calamità - a tutte le altre non meno oscure relegate negli altri angoli e la cui somma dà appunto questo splendido totale: la vita dell'umanità. I personaggi li riconoscete e riconoscete anche le comparse. C'è tra loro qualche canaglia, me ne spiace, ma come escludere le canaglie? La gente per bene, riposata e riposante, fa un gran piacere averci a che fare, personalmente, ma per una storia - e diciamo pure la Storia - ci vuol altro! Senza anime birbe e senza matti provati la sua trama sarebbe insulsa. Il mondo savio, che ha la coscienza tranquilla, si addormenterebbe volentieri, e stagnerebbe, ma per fortuna ci sono i perturbatori della pubblica quiete e si va innanzi. Che volete, ogni potente elemento di progresso è brutale ed il bene, che per se stesso è passivo, non diventa una forza che in quanto si mette a cimento contro il male.
Siccome questa consolante conclusione è quella stessa a cui viene, tra i più vari episodi, colti dal vero, la mia Insalata romantico-sociale, voi già di qui ne sentite l'aroma.
E tiriamo via.
Pervinca - andiamo vanti - Pervinca è una semplice istoria, inquadrata in una dolorosa pittura della vita campagnuola, di una brava figliuola della terra la quale, fin dalla più tenera infanzia, si sentiva la vocazione di fare la balia.
Un cuore sotto una zuppiera racconta le vicissitudini commoventi di una cuoca innamorata di un poeta futurista e spiantato che lo sfama all'insaputa dei suoi padroni e come qualmente la disgraziata, presa ella pure, per contagio, dal delirio immaginativo, credendosi perseguitata dagli sguardi degli occhi... del brodo si avveleni col prezzemolo che si figura cicuta.
Le sventure del professor Pipa - Il pomodoro azzurro - L'ultimo giorno di un Palombaro - L'uomo dal naso di velluto - sono, come già l'avrete capito, romanzi d'avventure. Per esempio, Il Dottor Felicissimo Zero ed il suo Cimpanzé, uno di questa serie, contiene le vicende del prefato dottore, scienziato e filantropo, il quale per ritrovare i genitori e la famiglia di uno cimpanzé (di nome Bartolomeo) ereditato da un munifico benefattore, intraprende un pericoloso viaggio di esplorazione intorno al Sotto Nilo verdognolo, nel centro più buio del Continente Nero, in paesi dove il cannibalismo costituisce la sola industria nazionale e dove solo può sfuggire alla sorte di essere mangiato vivo sposando una cannibalessa che si era innamorata di lui. Non vi starò a riassumere e nemmeno ad enumerare le peripezie del fortunosissimo viaggio. Mi limiterò per darvi un saggio dello stile, a citarvi un brano:
"Tolto dal taccuino del Dottore - 31 febbraio (calendario makkarakka) - Avanziamo lentamente e con prudenza di serpenti, allo scopo precisamente di evitare questi ultimi (com'è naturale, a sonagli). Li sentiamo intorno suonare a tutte le ore, alla mezz'ora, ai quarti. Il mio cronometro ritarda 65 minuti sull'ora dei serpenti. Bartolomeo è inquieto ed ha voluto che gli facessi una puntura di morfina. L'erba è così alta e così fitta che per scrivere queste note sono costretto di tener levato il mio taccuino al di sopra della testa. Domani...". Ma questo saggio basterà.
Signori, favoriscano, - avanti! Ci ho altro, qualcosa nel genere giudiziario e nel terribile. Si usano tanto oggi e così bene si adattano a film! Ecco qui, roba all'ultima moda e fabbricata secondo le ricette più reputate. Ci avete, cosa essenziale, il vostro bravo detective, tenuto in iscacco fino alla fine dallo scellerato regolamentare e che la farebbe sempre franca se non si dovesse venire all'ultimo capitolo: ci avete la povera ragazza orfanella a pagina 5 e contesa, a pagina 420, da tre padri, di cui uno in galera, ci avete il documento cifrato che nessuno sa più dove sia e da cui dipendono la vita di due duchesse, l'onore di una famiglia, la sicurezza di uno Stato, ed un'eredità di cento milioni; ci avete il laboratorio misterioso dove si prepara quella sostanza spaventosa capace di far  saltare in aria l'intero globo terracqueo; e via discorrendo; i dodici tocchi della mezzanotte, il pugnale macchiato di sangue entro lo scrigno damaschinato, l'impronta della mano sconosciuta, il messaggio invisibile, l'incognita dal profumo... cilestrino, il compagno di viaggio scomparso, il diamante che porta sventura, il testamento involato dal tutore, la camera parata a nero, l'esumazione della bara... senza cadavere, l'uomo che è... un altro, contate, nulla ci manca. E come è giusto, secondo i canoni fondamentali di questo gradevole genere letterario, fino all'ultima riga siete tenuti nel dubbio se metà dei personaggi siano birbe o galantuomini e l'altra metà siano vivi oppure morti; e non vi parlo dell'atmosfera di mistero e di terrore in cui, come di dovere, vi rinchiudo e v'imprigiono.
I titoli, scelti con cura, bastano da soli a mettere i brividi. Volete? Eccovi: Il teschio che morde, Lo stagno dai miasmi di stricnina, Il delitto della principessa tatuata, I fabbricanti di colera, I divoratori di dinamite, Il cadavere sott'aceto, Il francobollo maledetto, Il Sherlock Holmes automatico... Ancora? Il complotto dei beccamorti gialli, La bettola dei Giuda, L'eco avvelenata, Il lucignolo che latra, La lagrima del balbuziente, Il boa vendicatore, Il ghigliottinato nel boccale di malachite... Ancora?
C'è già quanto basta da far venire la pelle d'oca ai due emisferi. Io stesso sento rizzarmisi sul capo, con un sinistro scricchiolio di foglie secche, i capelli. Mi immagino così irte tutte le teste; si troverà tanta pomata per ricomporre e risigillare sulle tempie, educatamente, le capigliature scomposte e sollevate dal terrore?
Coi Cercatori di X, Le storielle per scombussolare Archimede, entriamo in un altro genere: il genere scientifico.
Si prendono i raggi ultra violetti, la quarta dimensione, la telepatia, l'estrinsecazione del moto e della sensibilità, si fa il calore freddo, la luce buia, il suono che non si sente, e si mescola il tutto.
Che ne pensereste, tanto per dirne una, di un naturalista (e un naturalista, un ingegnere o un medico sono indispensabili in questo genere di novelle) il quale si metta in mente di capovolgere le proporzioni delle cose?
E' il caso del professor Sophus, o per dire intero il titolo del mio racconto: La trovata del professor Sophus della Università di Upernawick.
Il professore ha trovato la maniera di ingrandire smisuratamente quello che è infinitamente piccolo e di impicciolire quello che è immensamente grande. Le cose sono sempre le stesse, salvo che sono mutate le proporzioni. Voi vedete che cosa succede quando il professor Sophus (della Università di Upernawick) applica la sua invenzione: tappeti di quercie minuscole si stendono vellutate all'ombra di prezzemoli giganteschi; bacilli della mole degli iguanodonti paventano le insidie di una umanità diventata microbica, veicolo di tutte le pestilenze... E non sono più i leoni che si grattano le pulci, ma le pulci che si grattano i leoni!
E' una delle mie invisibili pagine a cui più tengo.
Un'altra novella ed ancora uno scienziato; si possono rintracciare negli specchi i riflessi perduti delle persone che vi si sono mirate? E "sempre più difficile", come si dice al complicarsi degli esercizi nei circhi equestri, una sensitiva (mimosa pudica) è da un botanico resa ad arte così sensitiva, che un giorno si mette dirottamente a piangere.. alla presenza di un notaio e di due testimoni; certo portentoso gas, immaginato da un chimico, ha il dono di rivelare, grazie a date fosforescenze, le donne infedeli... il che fa pel mondo una bella illuminazione; l'intestino cieco, per virtù d'un oculista, riacquista la vista perduta da tempo immemorabile; il Niagara viene operato della cataratta.
I signori favoriscano nella mia biblioteca invisibile e vedranno ben altro...
Ma divago, è evidente. Ebbene, mettete che io sia come chi, una domenica nostalgica d'autunno, solo, in qualche remota casa in qualche vecchia città di torri e di chiostri, lasci errare le mani a capriccio sulla tastiera, ed improvvisi e suoni per sé, così per suonare, senza pensare che forse, sotto le persiane socchiuse, nella strada morta - è l'ora dei vespri - un passante si è fermato ad ascoltare. [21 giugno 1919]

(Ernesto Ragazzoni, Le mie invisibilissime pagine. Sellerio, 1993)








giovedì 31 marzo 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Olio di cane

Mi chiamo Boffer Bings. Sono nato da onesti genitori appartenenti alle più umili condizioni, essendo mio padre produttore di olio di cane e avendo mia madre un piccolo laboratorio all'ombra della chiesa del villaggio, dove svolgeva le operazioni necessarie all'eliminazione di quei neonati ritenuti poco desiderabili. Fin da ragazzo mi avevano insegnato a sapermi ingegnare: non soltanto aiutavo mio padre a procacciarsi i cani per le sue tinozze, ma spesso prestavo servizio anche per mia madre provvedendo all'asporto di quei residui del suo lavoro che rimanevano nello studio. Adempiendo a quest'incarico ogni tanto mi trovavo costretto a sfruttare ogni oncia della mia naturale intelligenza in vista del fatto che tutti i locali agenti della legge erano contrari all'attività di mia madre. Essi non venivano eletti in seguito a votazione popolare, e la faccenda quindi non aveva mai costituito un problema politico; si faceva così e basta. 
L'attività di mio padre, la produzione dell'olio, suscitava naturalmente meno risentimento, quantunque i proprietari dei cani che scomparivano lo guardassero a volte con sospetto, il quale sospetto veniva riflesso, in certa misura, su di me. Mio padre aveva, quali taciti soci nei suoi affari, tutti i medici della città, e questi di rado scrivevano una ricetta che non prescrivesse ciò che si compiacevano di designare Ol.can. E' veramente la medicina più preziosa che sia mai stata scoperta. La maggioranze dalle persone, però, non è disposta a sacrificarsi personalmente per gli afflitti, ed era evidente che a molti dei cani più grassi della città fosse stato proibito di giocare con me - un fatto che feriva la mia giovane sensibilità e che, a un determinato momento, poco ci mancò non mi spingesse alla pirateria.
Ripensando a quei giorni non posso che rammaricarmi, a volte, che nel condurre involontariamente i miei genitori alla morte io fui anche il fautore di sventure che ebbero profonda ripercussione sul mio futuro.
Una sera, passando davanti alla fabbrica d'olio di mio padre con in braccio il corpicino di un trovatello prelevato dallo studio di mia madre, scorsi una guardia che sembrava osservare con grande attenzione i miei movimenti. Ragazzetto com'ero, avevo ugualmente imparato che gli atti di una guardia. qualunque sia la loro apparente natura, sono sempre suggeriti da motivi reprensibili, e quindi la elusi sgattaiolando dentro la fabbrica attraverso una porta laterale che era rimasta semiaperta. La richiusi immediatamente e mi trovai solo col mio morto. Mio padre a quell'ora ormai se n'era andato. L'unica luce veniva dalla fornace che risplendeva di un cremisi vivo, profondo, sotto una delle marmitte, riverberando foschi riflessi sulle pareti. Dentro il calderone l'olio continuava a rimuginarsi in indolente ebollizione e ogni tanto portava alla superficie un pezzo di cane. Essendomi seduto ad aspettare che la guardia se ne andasse, tenevo sulle ginocchia il corpicino nudo del trovatello e gli carezzavo dolcemente i capellucci, corti, di seta. Ah com'era bello! Persino a quella tenera età avevo una gran passione per i bambini, e mentre guardavo quel cherubino, in fondo al cuore sentivo quasi il desiderio che quella piccola ferita rotonda sul suo petto - opera di mia madre - non fosse stata mortale.
Fin allora era stata mia abitudine buttare i piccini nel fiume che la natura, appunto, aveva giudiziosamente fornito a tale scopo, ma quella sera non osai abbandonare la fabbrica per timore del poliziotto. "Dopo tutto," mi dissi, "che importanza può avere se lo metto in questo calderone? Mio padre non distinguerà mai le ossa sue da quelle di un cucciolo, e i due o tre decessi che si potrebbero verificare a causa della somministrazione di un altro genere di olio al posto dell'incomparabile Ol.can. non contano molto in una popolazione che aumenta con tanta rapidità." In breve, fu allora che mossi il primo passo verso il crimine e, col gettare il piccino nel calderone, mi attirai addosso indescrivibile dolore.
Il giorno dopo, con qualche meraviglia da parte mia, il babbo, fregandosi le mani con soddisfazione, comunicò alla mamma e a me che era riuscito a produrre la migliore qualità di olio che fosse mai esistita; che i medici stessi a cui ne aveva sottoposto alcuni esemplari l'avevano pronunciata tale. Aggiunse che non aveva assolutamente idea di come avesse raggiunto quel risultato; i cani erano stati trattati come al solito sotto tutti i riguardi, e appartenevano a razze comuni. Ritenni fosse mio dovere spiegare com'erano andate le cose - e quindi lo feci senz'altro, benché, se avessi potuto prevederne le conseguenze, la mia lingua si sarebbe paralizzata. Deplorando la loro precedente ignoranza circa i vantaggi insiti nella possibilità di combinare le loro rispettive industrie, i miei genitori presero immediatamente le misure necessarie per riparare a quell'errore. Mia madre trasferì il suo studio in un'ala della fabbrica, e le mie mansioni relative alla sua attività cessarono; non dovevo più eliminare i corpi dei piccoli superflui, e non c'era alcun bisogno di adescare i cani verso il proprio destino dato che mio padre li scartò completamente, anche se le bestiole mantenevano ancora un onorevole posto nel nome dell'Olio. Di conseguenza, gettato così improvvisamente nell'ozio, avrei potuto naturalmente diventare un ragazzo vizioso e dissoluto; invece no. La santa influenza di mia madre mi era sempre accanto per proteggermi dalle tentazioni che assalgono la gioventù; mio padre, poi, era decano in una delle chiese della città. Ohimè, perché mai due persone così stimabili, per colpa mia, son dovute finire così miseramente!
Vedendo che ora i suoi affari le fruttavano il doppio, mia madre ci si dedicò con novella assiduità. Non soltanto eliminava i piccini poco graditi e superflui su ordinazione, ma andava anche per le strade, di qua e di là, a raccogliere bambini più grandi, e addirittura gli adulti, quelli almeno che riusciva ad attirare nella fabbrica d'olio. Anche mio padre, innamorato della qualità superiore di olio che riusciva a produrre, faceva provvigioni per le sue latte con zelo e diligenza. La conversione del prossimo loro in olio di cane divenne, insomma, l'unica passione della loro vita - un'avidità travolgente ed entusiasmante s'impossessò delle loro anime e sostituì, per loro, la speranza nel Paradiso - da cui, anche, essi erano ispirati.
Erano diventati così intraprendenti che si tenne una riunione pubblica in cui vennero prese alcune risoluzioni che li censuravano severamente. Il presidente fece loro capire che qualsiasi altra incursione sulla popolazione locale sarebbe stata giudicata con spirito di ostilità. I miei poveri genitori abbandonarono l'aula della riunione affranti, disperati e, penso, leggermente squilibrati. In tutti i modi io, quella sera, stimai prudente non entrare con loro in fabbrica, e dormii perciò fuori, in una stalla.
Intorno a mezzanotte un qualche misterioso impulso mi spinse ad alzarmi e ad andare a curiosare attraverso una finestra nella stanza della fornace dove sapevo che ora dormiva mio padre. Il fuoco bruciava con una tale alacrità che faceva prevedere un raccolto abbondante per il giorno seguente. Uno dei calderoni più grandi stava "borbottando" lentamente con un'aria misteriosa di riserbo, come se segnasse il tempo in attesa di esibire tutta la sua energia. Mio padre non era a letto; s'era alzato e, in camicia da notte, stava preparando un cappio all'estremità di una grossa corda. Dagli sguardi che lanciava verso la porta della camera da letto di mia madre capivo anche troppo bene cosa aveva in mente di fare. Muto e immobile dal terrore non potevo far nulla né per prevenire né per impedire. Improvvisamente la porta dell'appartamento di mia madre si aprì pian piano, e i due si trovarono una di fronte all'altro, entrambi sorpresi, a quanto pareva. Anche la signora era in camicia da notte e, nella mano destra, brandiva l'arnese del suo mestiere, un lungo stiletto dalla lama sottile.
Anche lei era stata incapace di rinunciare all'ultima occasione di profitto che l'azione ostile dei cittadini e la mia assenza le avevano lasciato. Per un istante si guardarono negli occhi fiammeggianti, quindi balzarono l'uno sull'altra con indescrivibile furia. Lottarono e lottarono girando la stanza tutto attorno, lui imprecando, lei urlando, tutti e due combattendo come demoni - lei nel tentativo di colpirlo con lo stiletto, lui in quello di strangolarla con le sue manone nude. Non so per quanto tempo ebbi la sventura di assistere a questo sgradevole esempio di infelicità domestica, infine però, dopo uno sforzo più accanito degli altri, i due combattenti improvvisamente si divisero.
Il torace di mio padre e l'arma di mia madre rivelavano segni evidenti di contatto. Per un altro istante i due si fissarono nel modo meno amabile possibile; poi il mio povero babbo, ferito, sentendosi la mano della morte addosso, balzò in avanti, e, incurante della resistenza di lei, agguantò la mia cara mamma, la trascinò accanto al calderone in ebollizione, raccolse tutte le forze che stavano ormai per abbandonarlo, e saltò dentro con lei! Dopo un attimo erano entrambi scomparsi e aggiungevano il proprio olio a quello del comitato di cittadini presentatosi il giorno avanti per portar loro l'invito a comparire di fronte alla pubblica assemblea.
Convinto che tali infelici eventi mi precludessero qualunque strada verso una carriera rispettabile in quella città, mi trasferii nella famosa città di Otumwee, dove scrivo queste memorie con il cuore colmo di rimorso per un'azione sventata che culminò in un così desolante disastro commerciale.

(Ambrose Bierce, Racconti neri. Garzanti, 1974)