lunedì 24 ottobre 2016

La Buona Annata's Literary Supplement: Uomini animali rampicanti

Nel cadere persi sicuramente i sensi. Ricordo soltanto due occhi che mi guardavano e l'ultimo dondolio dell'aereo, come se una enorme balia mi cullasse tra le sue braccia. Piacerà così a un bambino esser cullato. Serrai le palpebre, vagai per mondi sconosciuti. Poi un rumore assordante e quindi un colpo secco mi riportarono alla realtà: l'incontro duro con il suolo. Dopo, null'altro mi collegava con questa terra, eccetto la sensazione di un falò che si spegne e lascia cenere grigia simile al silenzio. Non comprendo in che modo avvenne l'incidente: che io stia qui solo in questa selva con i viveri e che tutt'intorno non resti alcuna traccia dell'apparecchio sul quale viaggiavo, mi sgomenta. Qualcuno verrà a cercarmi, confido nella capacità degli aviatori che, più che cercare me e tutti gli altri di bordo, cercheranno l'aereo. Mi ritroveranno per caso: il caso esiste e talvolta risolve. Queste provviste, razionate, basteranno per una ventina di giorni. Il mio calcolo potrebbe essere inesatto. Per di più qualche roditore, qualche uccello o una bestia qualsiasi potrebbe divorare i viveri che non sono adeguatamente  protetti; allora la mia razione si ridurrebbe notevolmente. Mi resterebbero, comunque, le marmellate e le gallette in scatola dal sapore di cartone, la ventresca affumicata, le linguette, i datteri, le prugne, le disgustose castagne di Cajù, le arachidi.
Però, quegli occhi, dove saranno?
Venti giorni è molto, è quasi un mese. Viveri per venti giorni, che posso chiedere di più? Dosarli, mi sarà data questa felicità? Non so dove ho letto che certi monaci si nutrivano per lunghi periodi con due o tre datteri al giorno. Anche le bottiglie di vino mi aiuteranno a mantenermi sano e forte.
Però quegli occhi che mi guardavano, cosa berranno?
A nessun animale interessa bere vino, chissà perché?
E a proposito di animali, penso alla probabile esistenza di belve. Sento a volte scricchiolare i rami e mi sembra che ci sia odore di fiera, però capisco che se do retta alle mie elucubrazioni diventerò pazzo, e allora mi butto con la faccia a terra, la bacio e cerco di immaginare un mondo di agnelli, come nei santini della prima comunione, e di farfalle, come nei libri di lettura infantili. Il mio letto è così comodo che dopo aver dormito otto ore mi sveglio placidamente credendo di essere a casa. Allungo il braccio e con mano sicura cerco di accendere il lume sul mio comodino: mi soffermo un po' su questa illusione. Se la notte è molto scura, mi afferra una grande angoscia, però se c'è la luna contemplo la luce che brilla sulle foglie degli alberi e sui tronchi coperti di musco e immagino di stare in un giardino ben curato. Mi tranquillizza questa immagine, così sciocca in verità, giacché ho sempre preferito la selva a un giardino civilizzato. Proprio per questo andavo sempre spettinato, mi lasciavo crescere la barba, e a volte la proprietà del mio vestiario non era impeccabile. Ora che sono circondato da una vegetazione che si estende a casaccio, preferirei essere attorniato da piante più disciplinate? No, assolutamente. Tutti i miei pensieri vanno alla città che odiai; ai dintorni della città che disprezzai. Ricordo con rabbia il suo odore di nafta, di naftalina, di farmacia, di sudore, di vomito, di piedi, di cantina, di vecchio, di insetticida, di orinatoio, di neonato, di sputacchiera, di escrementi, di cucina. Non cado nell'equivoco di riscattare l'immagine della città con quella delle persone amate. Cerco di non rimpiangere né il gabinetto né il lavandino. Mi abituo a questa vita. Ci si abitua a tutto, mi diceva mammà, e aveva ragione.
Non conosco il clima di questo posto; questo sì, mi secca un po' la mia ignoranza. Sarebbe difficile conoscerlo senza nulla che possa orientarmi: né barometro, né indicazione geografica, né studi botanici né climatici. Per colpa di una tormenta l'aereo dovette cambiare direzione, cosicché non so neppure approssimativamente dove è caduto. Potrei consultare il cielo, però non mi intendo neppure di stelle. Temo si sbagliarmi. Credo che questo posto sia umido perché ci sono delle liane e certe varietà di madreselva che crescono in luoghi umidi. Non so se il caldo che sento è tropicale, o semplicemente estivo. Ci sono sotto gli alberi certe felci che si ammassano tra il musco.
Di che colore erano quegli occhi? Del colore delle palline di vetro che io sceglievo nei negozi di giocattoli quando ero piccolo.
Di notte ci sono lucciole e grilli assordanti. Un profumo dolce e penetrante mi afferra, da dove proviene? Ancora non lo so. Credo mi faccia bene. Esala da fiori o da alberi o da erbe o da radici o da tutto insieme (non sarà da un fantasma?); è un profumo che non ho aspirato in nessun'altra parte del mondo, un profumo inebriante e al tempo stesso rilassante. Annusando come un cane, diventerò un cane? Pesto le foglie, le erbe, i fiori selvatici che incontro. Studio le foglie per accertare se questo profumo emani da esse. Strappo e assaporo la corteccia degli alberi. Finalmente ho scoperto cos'è che profuma l'aria con tanta forza: è un rampicante, dai fiori piuttosto insignificanti. Niente del suo aspetto lo distingue dagli altri, salvo il suo rigoglioso fogliame. Mentre lo guardo mi sembra che cresca. Mi nutro metodicamente secondo il calcolo della razioni giornaliere che mi sono proposto di mangiare perché gli alimenti mi bastino fino all'arrivo dell'aereo o dell'elicottero che aspetto dagli uomini e da Dio. Mangio varie volte al giorno piccole dosi di cibo. Ci sono certi frutti selvatici che arricchiscono la mia dieta. Mi faccio schifo. Perché mi affanno tanto? Non più di un mese fa pensavo di suicidarmi; ora mi nutro meticolosamente, cerco di riposare, come se accudissi un bambino. Ci sono persone che ci mettono parecchio a sapere chi sono. Il canto degli uccelli a mezzogiorno (quello che io calcolo sia mezzogiorno) diventa frenetico. Avrei potuto fabbricarmi una fionda con degli elastici che ho alla cinta del mio anorak e due rami che ho tagliato. Perché colpire un uccello?, mi domando. La cosa più naturale sarebbe ucciderlo e mangiarlo. Non potrei. La mia volontà si affievolisce, forse. Dormo molto. Quando mi sveglio faccio fotografie agli alberi, alla mia mano, al mio piede, al fogliame, e del resto che altre fotografie potrei scattare? Non ho l'autoscatto per fotografarmi. D'altronde non so se la mia macchina fotografica funziona, perché ha ricevuto un colpo. In certi momenti pronuncio il mio nome svariate volte, dando alla mia voce tonalità differenti. Avrò paura di dimenticarlo? Scopro che c'è un'eco nel bosco. Niente mi fa tanta paura. A volte odo, o credo di udire, il rumore di un aereo: allora guardo il cielo disperatamente.
Dove saranno quegli occhi che mi guardavano tanto? Di che parleranno? Saranno caduti in mare attratti dal proprio colore? Se arrivassero all'improvviso?
A poco a poco mi abituo a questa vita. Preferisco dormire, è quel che faccio meglio, forse troppo. Se una belva mi attaccasse durante il sonno non potrei difendermi, e commetto tutti i giorni l'imprudenza di dormire profondamente all'ora della siesta: è chiaro che non so con precisione quando sia l'ora della siesta, perché il mio orologio si è fermato e per prima cosa ho perduto la nozione del tempo. Attraverso tanti alberi, la luce del sole mi giunge indirettamente. Dopo aver perso il filo dell'ora, se così si può dire, difficile mi sarebbe orientarmi rispetto a quella luce. Non so se è autunno, inverno, primavera o estate. Come potrei saperlo se non so in quale posto mi trovo? Credo che gli alberi che mi circondano siano dei sempreverdi. Non mi azzardo ad avventurarmi nel bosco: potrei perdere le mie provviste. Questa è ormai la mia casa. I rami sono i miei attaccapanni. Non uso molto il sapone e lo specchio, le forbici e il pettine. Comincia a preoccuparmi la faccenda del sonno, mi sembra che dormo per quasi tutto il tempo e credo che la colpa sia di questi fiori che profumano tanto l'aria. L'aspetto anodino che hanno, inganna: formano un chiosco che a ben guardarlo è diabolico. Invano li strappo dal terreo; tornano a crescere con più vigore. Ho cercato di distruggerne alcuni sotterrandoli, ma non ho attrezzi per scavare la terra e mi sono servito di un pezzo di legno piatto, il cui uso è stato malagevole. Povero Robinson Crosuè, o meglio felice Robinson Crosuè che sapeva cavarsela nelle difficoltà che la solitudine impone. Io non sono adatto per una situazione come questa. Invano ho cercato di distruggere fiori, come stavo dicendo, poiché molti si avvinghiano agli alberi e si perdono in alto chiudendomi il cielo. Non potrei distruggere in alcun modo il loro profumo, perché questo luogo è come una stanza chiusa. A volte mi sono addormentato guardando un ramo con due o tre fiori; al risveglio mi sono accorto che lo stesso ramo aveva già nove fiori in più. Quanto tempo avrò dormito? Non lo so. Non so mai la durata del mio sonno, però suppongo di dormire come nei giorni in cui svolgo una vita normale. Com'è che in un tempo così breve hanno potuto sbocciare tanti fiori? Se penso a queste cose diventerò pazzo. Osservo il fiore colpevole del mio sonno: è come una campanula ed è dolce (l'ho assaggiato). I rami sui quali sboccia vanno ordendo strani canestrelli. Non ho mai osservato un rampicante tanto da vicino. Si avvolge a tronchi e rami con un tessuto tanto fitto che a volte è impossibile strapparlo. E' come una fascia, come una cascata, come un serpente. Assetato di acqua, cerca i miei occhi, si accosta. Ora ho paura di dormire. Ho degli incubi. Sono già diverse notti che sogno la stessa cosa: madreselva mi confonde con un albero e comincia a tessere intorno alle mie gambe una rete che mi imprigiona. Non credo di star male in salute. Credo, al contrario, di stare assolutamente bene. Eppure, questo stato di sonnolenza non sembra tanto normale. A volte mi chiedo: non avrò perduto completamente la nozione del tempo? Dormo di più di quanto sia abituale per un essere umano, o credo di dormire di più? E' il profumo che mi dà sonnolenza? Nell'ora in cui più si espande, comincio a battere le palpebre, mi si chiudono gli occhi, e cado in un letargo che al risveglio mi preoccupa. Il cammino di un rampicante su un albero fu per alcuni giorni il mio orologio. Come una ricamatrice, andava tessendo i suoi punti intorno a ciascun ramo. Al risveglio, dai nodi che aveva fatto, io potevo calcolare il tempo del mio sonno, però ora, da poco, fa più in fretta. Sono io o il tempo? Passare da un'dea all'altra senza ordine alcuno, è una delle mie caratteristiche attuali, però la verità è che mai ho disposto di tanto tempo né di tanta inattività fisica. Mai ho pensato di potermi trovare in una situazione simile. L'astinenza, oltretutto, mi ha sempre causato orrore. Ieri, sarà stato ieri?. ho bevuto due bottiglie di vino per riprendermi, e dopo aver vagato per il bosco, ubriaco, sono caduto addormentato per non so quanto tempo.
Ho sognato che dicevo: Dove staranno quegli occhi che mi guardavano tanto? Che berranno? Ci sono persone che sono mani, altre bocche, altre capigliature, altre petto dove uno giace, altre collo, altre occhi, nient'altro che occhi. Come lei. Cercavo di spiegarglielo quando stavamo sull'aereo, però lei non capiva. Capiva solo con gli occhi e domandava: "Come? Come dice?"
Mi svegliai lontano dai viveri credendo che non li avrei più ritrovati. Mi redarguii aspramente. Ebbi discussioni con me stesso. Tornai guidato da una grazia divina, senza dubbio, al luogo di salvezza: i miei alimenti. Che ironia della sorte! Dipendere dai cibi quando mi vantavo tra gli uomini di poter trascorrere venti giorni a digiuno, e me la ridevo dello sciopero della fame! Ora, per un dattero o per una disgustosa castagna di Cajù, avrei venduto l'anima. Sicuramente tutti gli uomini sono uguali e reagirebbero allo stesso modo. Non mi muovo, sto chiuso come in una cella. Non avrei mai supposto che cella e selva si somigliassero tanto, che società e solitudine avessero tanti punti di contatto. Dentro il mio orecchio un milione di persone discutono, si scontrano, si ingegnano per distruggermi. Tra ra ra ra ra sono stufo.
Dio mio, che mi sia concesso di non dimenticarmi di quegli occhi. Che l'iride viva nel mio cuore come se il mio cuore fosse di terra e l'iride una pianta.
Queste voci contraddittorie (tornando alle voci che sento dentro il mio orecchio), si ingegnano per distruggermi.
Amatevi gli uni con gli altri. Mai fu tanto difficile seguire questo precetto. Ugualmente non c'è bisogno di disprezzare la solitudine. Un giorno il mondo si popolerà tanto che la mia tana non sarà più solitaria. Pensare a trasformazioni mi dà il capogiro. Con gli occhi chiusi penso a tutte queste scemenze, ed è una imprudenza; il rampicante approfitta della mia distrazione per avvinghiarsi alla mia gamba destra, tesse una rete minuziosa su ciascun dito del mio piede. Il dito più piccolo mi fa ridere. Con quale stratagemma gli si avvolge intorno. Non parliamo dell'alluce che pare un issopo. Il rampicante avanza rapidamente nel suo lavoro con metodi distinti: per i diti piccoli del mio piede utilizza semplicemente un punto che assomiglia molto alle spalliere di sedie di vimini moderne, per superfici grandi utilizza uno strano intreccio di arabeschi che imitano le foderine di plastica delle automobili. Strappo dal mio piede la treccia con una certa difficoltà. Ricordo un rampicante della mia casa chiamato amante del muro, e che ha zampette con degli artigli che aderiscono alle pareti. Ricordo di averne strappato da bambino alcuni rami, e di aver sentito la resistenza della pianta in ciascuna foglia, come gattini che non vogliono mollare la presa. Questo rampicante non ha zampette come l'amante del muro. Maggiore è il suo merito. Infaticabilmente va tessendo e tessendo lacci. Poveri alberi, povere piante che cadono sotto i suoi artigli! Felice l'albero poco sensitivo. Glielo dicevo a qualcuna (per la quale ormai non sento più amore) per commuoverla. Mi è rimasto il verso, ma non sono tanto sicuro di codesto poco sensitivo. Di notte mi pare di aver udito gli alberi lamentarsi, abbracciarsi, respingersi o sospirare, inginocchiarsi davanti a quelli della propria famiglia e ad altri già sopraffatti dal rampicante. Sono entrato in questo mondo vegetale ignorandolo completamente. L'unico albero che conoscevo, fuori del salice, s'intende, era la tipa. Una volta la mamma disse attraversando piazza San Martin:
 - Che belle tipe! - passavano in quel momento due donne orrende e scoppiai a ridere.
- Di che cosa ridi? - protestò mamma guardando le fronde delle tipe, e aggiunse: - Per caso ora non si possono ammirare neppure gli alberi?
- Che alberi? - chiesi.
- Le tipe, ignorante. Non sai ancora cosa sono le tipe?
- Ah!, le tipe, - risposi con evidente stupore, - io credevo che parlavi di quell'altre tipe.
- Non sai neppure parlare. Staresti meglio nella foresta a chiacchierare con le scimmie.
Povera mamma, come si sarà pentita dell'insulto. A volte questo ricordo mi tiene desto, ma non posso farci niente. Guardo nell'oscurità le tipe. Avevano fiori gialli, il vestito di mamma sembrava più celeste. E io avrò sempre la mia faccia grigia di Buenos Aires?
Cosa guarderanno quegli occhi?
Faccia scipita, diceva la sarta che veniva a cucire in casa per le mie sorelle e pensava sempre che io avessi ancora dodici anni quando già ne avevo compiuto venti. Che strazio avere vent'anni! Non rimpiango la mia casa; questo no, però uno specchio è sempre una compagnia, cattiva o buona come tutte le compagnie, e lì avevo uno specchio rotondo come una luna. Stavolta ho dormito più di tutte le altre volte, più del giorno della sbronza: è chiaro che non posso essere sicuro di non sbagliarmi.
Dove saranno quegli occhi? Li starò dimenticando? Non ricordo molto bene la forma del loro angolo interno.
A volte uno dorme cinque minuti e sembrerebbe che ha dormito tutta la notte... Mi sono addormentato all'imbrunire, mi sono svegliato con una luce crepuscolare. Avrei dunque dormito solo cinque minuti? Però ho una prova schiacciante che non è stato così: il rampicante ha avuto tempo di tessere la sua treccia intorno alla mia gamba sinistra e di arrivare fino alla coscia; ce l'ha con la mia gamba sinistra! Come se non fosse sufficiente, ha fatto altrettanto con il mio braccio sinistro. Questa volta l'ho strappata con maggiore difficoltà però con meno fretta della volta precedente, dicendogli animale, come ad una delle mie amiche che mi punzecchiava sempre. Ho deciso di cambiare tana. Carico i miei viveri e mi sposto in cerca di un angolo senza rampicanti però non lo trovo e la camminata mi stanca. A volte penso che siano passati tanti anni e che sono vecchio; però se fosse così non mi resterebbero provviste. Ora mi sono fermato in un posto forse peggiore, ma non ho la forza di tornare sui miei passi. Tutta questa foresta è un rampicante. Perché preoccuparmi? C'è da preoccuparsi soltanto per le cose che hanno una soluzione. Il profumo continuerà ad ubriacarmi, a darmi sonnolenza. Il rampicante continuerà a fare le sue trecce. Adesso sono rare le volte che mi sveglio senza che non abbia tessuto qualche treccia intorno al mio braccio o alla mia gamba. Non più tardi di ieri si è arrampicato sul mio collo. Mi seccò un poco. Non che mi facesse paura, neppure quando si attorcigliò intorno alla lingua. Ricordo che nel sognare gridai e aprii imprudentemente la bocca. E' strano. Non avevo mai pensato che un rampicante potesse introdursi tanto facilmente in bocca.
- Anormale. Che ti sei creduto? Non ci si può fidare proprio di nessuno, - gli dissi.
Mi diverte perché penso alle risate che si faranno i miei amici a questo punto. Non mi crederanno. Neppure crederanno che non posso stare in ozio. Negli ultimi tempi cerco di tessere trecce come i rampicanti intorno ai rami: è un esperimento piuttosto interessante, ma difficile. Chi può competere con una pianta rampicante? Sono tanto occupato che mi dimentico di quegli occhi che mi guardavano; a maggior ragione dimentico persino di bere e di mangiare. Mutevole genere umano! Avvolsi l'astuccio della penna con i miei steli verdi, come i portapenne ricamati con lana e seta dei detenuti.

(Silvina Ocampo, I giorni della notte. Einaudi, 1976)