Visualizzazione post con etichetta Current 93. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Current 93. Mostra tutti i post

martedì 1 dicembre 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: Una manciata d'argento

Era la notte della vigilia di Natale e nevicava forte quando entrai nel bar-tavola calda di Joe dopo la chiusura del giornale, e riuscii a trovare uno sgabello al banco. Joe, calvo e con il suo solito sorriso dai denti d'oro, mi fece un cenno col capo.
"Sera, Mary. Il solito bicchierino di porto?".
"No, facciamo un rum caldo stasera, Joe. Oh, gente, che tempo!".
Risposi al suo sorriso, rabbrividendo e battendo insieme le mani gelate. I miei pacchi, ammucchiati a torre sul pavimento accanto a me, si inclinarono improvvisamente e franarono contro la gamba del cliente che occupava lo sgabello vicino.
"Scusi".
Li raddrizzai con un sorriso di scusa diretto all'uomo ingobbito al mio fianco, male in arnese, barbuto, scarno, e squassato dalla tosse. Si chinò per recuperare un pacco che mi era sfuggito di mano, e colsi un'impressione di penetranti occhi neri incavati in orbite scure. La bocca seminascosta nella barba nera era contemporaneamente severa e sensuale. Il sottile naso arcuato attrasse la mia attenzione, insieme al suo accento marcato. Italiano? Libanese? Non riuscivo a situarlo.
Ma qualcosa nelle spalle curve, la disperazione atona nella voce dello sconosciuto, mi spinse ad aggiungere, impulsivamente: "Buon Natale!".
Si girò verso di me con stupefacente rapidità, arretrando come se l'avessi colpito. In quegli occhi scuri bruciava una infelicità tale, che trattenni il respiro, come si potrebbe fare alla vista di una ferita aperta. Non rispose al mio augurio, ma mi guardò fisso per un momento, poi tornò al suo bicchiere mezzo vuoto. Finendo di bere con un solo sorso, si spostò a un tavolino vicino, appena lasciato libero, con un'aria meno di rifiuto che di umiltà.
Si sedette stancamente, ordinò un altro bicchiere con un gesto, e tirò fuori un piccolo sacchetto di cuoio sporco chiuso da un laccio. Apertolo, ne versò il contenuto, una manciata di piccole monete d'argento, sul tavolo e cominciò a contarle. Nell'improvviso silenzio dopo che il jukebox finì Silver Bells, lo udii mormorare.
"Shanee, sh'leeshee, rve'e, chameeshee..."
Ebraico, notai pigramente. Qualche miserabile proprietario di bottega dei pegni che conta gli incassi del giorno. Senza troppa curiosità, lanciai un'occhiata al mucchietto, e il mio interesse aumentò.
Non ero un'appassionata di numismatica per nulla, ma sapevo riconoscere una moneta rara quando ne vedevo una. E queste, sedici o diciassette, erano sia rare che estremamente antiche. Erano tutte simili. La loro forma era grossolanamente ovale, e l'argento lucido era deturpato da una macchia rosso scuro, forse un'impurità nel metallo. Scrutandole con più attenzione, riconobbi su una la forma di un calice; su un'altra, il rovescio, un giglio in fiore. Erano shekel, coniati forse durante il regno di Erode.
Occhi ardenti si rialzarono dal mucchietto e incontrarono i miei. Distolsi lo sguardo, imbarazzata. Poi, ancora con un impulso amichevole nato dalla stagione natalizia, mi volsi di nuovo verso di lui.
"Lei è un collezionista di monete?", gli chiesi. "E' un bell'hobby. Anch'io ho una buona collezione, soprattutto di cinque centesimi e nichelini Liberty. Se vuole vederla qualche volta... voglio dire", indicai con un cenno Joe, che ci guardava senza parlare, pulendo un bicchierino da cicchetti. "Lei è un cliente regolare? Io passo di qui ogni sera. Vive da queste parti?".
"No. No. Io... viaggio", mormorò nervosamente l'uomo barbuto. Con una mano scheletrica spazzò le monete nel sacchetto, senza accennare a mostrarle.
Una però rotolò sul tavolo e si fermò ai miei piedi. La raccolsi e la restituii. Mentre le nostre dita si toccavano notai che la mano dello sconosciuto era più fredda della mia, un freddo duro, come l'acciaio, o come la mano di un cadavere. Involontariamente ritirai la mia, e vidi, dall'espressione di quegli occhi scuri scavati, che non gli era sfuggita la mia reazione. Le labbra sottili, innaturalmente rosse, si piegarono leggermente in un sorriso stanco, come se si fosse aspettata la mia repulsione.
Poi gli occhi gli si addolcirono. Si spostarono dalla mia mano sinistra senza anelli alla mia vita di donna palesemente incinta. Gentilmente, senza imbarazzo, mormorò: "Lei non ha guai? Non ha problemi?".
"Io?", un sorriso sfiorò le mie labbra.
Joe, con meno delicatezza, scoppiò a ridere. "Mary una ragazza madre? Questa è buona!". Sghignazzò. "Aspetti che lo dica a Johnny!".
"Joe, piantala!". Sorrisi all'uomo barbuto. "No, sono solo una delle tante mogli che lavorano. Giornalista. Lavoro finché posso, cioè, per pagare la macchina e la televisione, prima del varo! Mio marito è cronista sportivo per lo stesso giornale. Siamo sposati solo da un anno. I miei anelli", aggiunsi, "sono impegnati per poter acquistare una culla d'antiquariato!". Mi girai verso Joe. "Il mio signore e padrone è stato qui stasera? E lei si è ricordato di dirgli di prendere il tacchino che abbiamo vinto alla lotteria?".
Joe annuì. "Certo, Mary. L'ha preso e l'ha portato a casa. Probabilmente l'ha già messo in forno  se... Ehi, tu!". S'interruppe, mentre il sorriso svaniva. "Hai dimenticato di pagare l'ultimo bicchiere!".
L'umo barbuto si era avviato verso la strada innevata, con la testa di nuovo abbassata, le spalle rilasciate in una posa di sconfitta disperata. Visto da dietro, il suo collo rivelava una strana cicatrice rossa. Joe, notandola anche lui, mi diede una gomitata.
"Guarda quella!", sussurrò. "Si direbbe che il nostro amico sia stato ospite d'onore a un linciaggio!".
"Sì", esclamai senza fiato. "Segno di corda".
"Spiacente, mi sono dimenticato". L'uomo tornò indietro per far tintinnare una moneta da cinquanta centesimi sul banco. Poi, con un sorriso di sbieco, amichevole, se non fosse stato così amaramente ironico, si diresse di nuovo verso la strada.
La porta si spalancò prima che potesse raggiungere la maniglia, e un mendicante "cieco" entrò assieme a una raffica di vento nevoso. Le matite e la tazzina di latta erano strette da una mano rivestita di un guanto costoso, e gli occhi visibili dietro gli occhiali scuri saggiarono con un'occhiata esperta l'atmosfera sentimentale del posto.
"Aiutate un povero cieco! Aiutate un povero cieco!", intonò meccanicamente.
Il barbuto si fermò. Con una strana fretta ansiosa tirò fuori il sacchetto di cuoio e lasciò cadere parecchie di quelle monete rare, certamente di valore, nella tazza del mendicante con un tintinnio musicale di metallo su metallo. Uno sguardo di speranza bruciante brillò negli occhi neri, per spegnersi quasi subito mentre il mendicante tirava fuori le monete, le tastava, le mordeva, e infine le scagliava con disprezzo a terra.
"Furbone, eh?", piagnucolò. "Cerca di rifilare delle monete straniere prive di valore a un povero handicappato. Non ha vergogna?".
La luce scomparve dagli occhi dell'uomo barbuto. Con stanchezza infinita si chinò per raccogliere il suo dono rifiutato. Una moneta era mezza nascosta sotto il tavolino di un separé, brillando nelle luci di Natale verdi e rosse come un occhio maligno. Forse era solo un gioco di luce, ma la macchia scura sembrava essersi allargata sulla superficie lucida. Le rimise tutte in tasca prima di alzarsi pesantemente in piedi e dirigersi di nuovo alla porta.
Mi impietosii per quelli che erano stati ovviamente dei goffi tentativi di gentilezza, prima verso di me, poi verso l'ingrato mendicante.
"Ehi, mister, aspetti un istante!", lo chiamai. Poi, mentre guardava dietro di sé, sorpreso, aggiunsi: "Chissà se mi può vendere una di quelle monete. Se non  i sbaglio, sono pezzi da museo, shekel del primo secolo. Probabilmente coniati a Gerusalemme, forse duemila anni fa o anche prima".
Gli occhi penetranti incontrarono i miei con una forza che era quella dello shock fisico. La tremenda avidità divorante nelle loro profondità mi fece arretrare di un passo, involontariamente, quasi impaurita da quell'ansia bruciante. Rimpiansi il mio impulso, ma continuai.
"Sia mio marito che io siamo collezionisti di monete. Se non è troppo costoso, potrei acquistarne una per lui. Una specie di regalo extra, da appendere all'albero...".
A quelle parole lo scarno straniero trasalì visibilmente. Una tale smorfia di dolore gli contrasse la bocca e le folte sopracciglia, che mi ritrassi. Emise un debole gemito, così debole che fu appena udibile. Le labbra si compressero in una linea sottile. Con gli occhi chiusi, lo sconosciuto sembrava lottare per l'autocontrollo. Quando parlò, tuttavia, la sua voce era ferma, anche se senza fiato per uno strano tono d'ansia.
"Non posso vendere queste monete. Ma gliene regalerò una! Volentieri, per favore! La prenda, La... la macchia scomparirà...".
Con fretta disperata, tirò fuori la sacchetta di cuoio estraendone uno dei pezzi d'argento. Me lo porse con la mano tremante.
"Mi spiace no". Risi. "Regalare a mio marito un pezzo antico e costoso che mi è stato dato da uno sconosciuto? Lei non conosce il mio Johnny!". Poi, mentre la mano che mi porgeva la moneta ricadeva stancamente: "Ma sarebbe un favore se me la lasciasse acquistare. So quello che un negozio di monete o un museo farebbe pagare per un pezzo così raro. Dieci dollari?".  Annaspai sulla chiusura della borsetta: "So che vale molto di più, ma è tutto ciò che posso permettermi".
Lo sguardo di speranza era svanito dagli occhi neri. Scosse cupamente la testa. "Lei non capisce. Queste monete devono venir spese, usate, date come regalo, accettate con gratitudine e senza sospetto. Una gentilezza senza compenso...".
"Capisco". Scuotendo le spalle, tornai al mio punch al rum.
Joe ed io ci scambiammo una smorfia. Era un seguace di qualche culto o un maniaco religioso? La città ne è piena, anche se il loro movente nascosto di solito un guadagno finanziario. Attesi cinicamente che lo sconosciuto alzasse il prezzo. Invece, con un sospiro pesante, si diresse di nuovo verso la porta.
Entrò un ragazzino di forse nove anni, spazzandosi la neve da una giacca troppo sottile per la temperatura esterna. La faccia era rossa per il freddo, ma sorrise a Joe nello spingere una banconota attraverso il banco, rivelando lividi simili a impronte di dita sul polso sottile. 
"Bourbon?", grugnì Joe, ripetendo una vecchia routine.
Il ragazzino annuì. Joe infilò la bottiglia in un sacchetto di carta, batté la vendita sul registratore di cassa, e tornò a pulire i bicchieri. Il ragazzino stava guardando con ammirazione le luci di Natale lampeggianti e il piccolo albero riflesso nello specchio del bar.
"Ehi, com'è bello qui! Davvero!".
Joe sorrise di sbieco. "Riceverai quella macchina fotografica per Natale, quest'anno, Danny? Quella che desideri, che sta nella vetrina dell'usuraio?".
"Ma, non lo so". Il ragazzino rise, stringendosi allegramente nelle spalle. "Lei conosce il mio vecchio. Specialmente verso Natale e Capodanno. Per la maggior parte del tempo, però, è un tipo a posto.", aggiunse lealmente. "Forse sente solo la mancanza della mamma".
"Certo", annuì Joe.
"Potrebbe anche ricordarsi della macchina fotografica, però. Potrebbe".
Il ragazzino si accinse a uscire, tirandosi su il bavero della giacca prima di affrontare la tormenta che stava aumentando fuori. La neve si appiccicava contro le vetrine, creando uno specchio scuro per il locale. Rifletté il viso dell'uomo barbuto che esitava alla porta. La speranza lampeggiava ancora una volta negli occhi disperati.
"Piccolo?". Frugò affrettatamente nella sacchetta di cuoio e tirò fuori qualcuna delle monete ovali. "Ti piacerebbe avere un po' di soldi per te? O per un regalo per tuo papà".
Il monello si fermò, occhieggiando l'argento con diffidenza. "Per fare che?", domandò, sospettoso dell'espressione troppo ansiosa del barbuto. "Senta, non faccio commissioni per nessun spacciatore! Non ho voglia di passare il Natale in un tribunale per minorenni!".
Sfiorò il vecchio, quasi rudemente, e sfrecciò nella strada innevata, stringendo il pacchetto per suo padre. Ancora una volta uno sguardo di amaro dolore tornò a galla negli occhi del vecchio.
Si appoggiò stancamente alla porta; una lacrima scintillò nella barba scura. Poi si scosse mentre qualcuno all'esterno spingeva la porta bloccata dal suo peso. La porta venne spalancata irosamente, ed una bionda di mezz'età un po' bevuta svolazzò dentro.
"Che idea è questa? Un gentiluomo avrebbe tenuto  aperta la porta per una signora". Guardò male il barbuto, poi cambiò l'espressione con un fascino da gatta per rivolgersi a Joe. "Buon Natale, vecchio avvelenatore! Non potevo passare di qui senza fare un salto dentro".
Joe la guardò senza cordialità. "Non venire più ad adescare qui, Mae! Ti ho avvertito l'ultima volta. Fuori!". Indicò col pollice la porta attraverso cui era entrata. "Vuoi che mi chiudano il locale?".
"Ma bene, non sono mai stata così insultata!". La bionda si rizzò offesa, poi strizzò un occhio. "Voglio solo un bicchierino. Offerto dalla casa, eh? Uno piccolo piccolo? E' Natale! Guarda, ti ho portato un regalo!". Con un gesto grandioso, depose un piccolo asciugamano sul banco; portava stampato a grandi caratteri Central Hotel.
"Vabbene", acconsentì Joe. "Uno. E fai in fretta!".
"Sei pieno di cuore, Joe. Alla tua".
La bionda arretrò verso la porta. Il barbuto, con un gesto privo di scherno, le tenne aperta la porta. Ma appena lei rabbrividì nel vento che penetrava dall'esterno, gli occhi gli brillarono ancora di speranza.
Tirando fuori la sacchetta, ne prese due monete e gliele offrì.
"Posso offrirle una bottiglia? O la cena, se ha fame?". La voce gli tremava come la mano ossuta che porgeva le monete.
Qualcosa nei suoi occhi brillanti ispirò repulsione alla bionda. Il sorriso da gatta svanì. Guardò torva dall'argento agli occhi incavati. Di scatto si tirò indietro, scuotendo la testa.
"Hai la TBC o qualcosa del genere? Non pretenderai di pagarti del tempo con me con una birra e magari un hamburger. Lasciami uscire di qui! Ho un appuntamento importante".
A testa alta, uscì nella notte nevosa.
L'uomo barbuto, con la mano ancora tesa, si afflosciò contro la porta che si chiudeva. Nel silenzio, rotto solo dai sommessi rumori del traffico e dal tintinnio monotono della campanella di un Babbo Natale, mi sembrò di sentirlo singhiozzare forte. Il vecchio guardò le monete ovali che aveva in pugno con negli occhi una disperazione immensa. Le monete erano quasi completamente marroni ora, l'argento non si vedeva quasi. Le dita scheletriche si chiusero intorno alle monete, e la testa gli cadde all'indietro, contro la porta, rivelando di nuovo la rossa cicatrice infiammata che aveva intorno al collo. Le sue labbra si mossero; sentii delle parole...
"Eloi, Eloi, lama sabachthani...".
Con una chiarezza sconvolgente, ricordai l'origine di queste parole. Le aveva pronunciate un altro uomo in agonia; una preghiera, un ultimo grido di agonia, da parte di un morente, inchiodato a una croce di legno su una collina chiamata Golgota.
Con inaspettata gentilezza, Joe lo chiamò improvvisamente: "Ehi, vuole un altro bicchiere? Offerto dalla casa. Non ha un bell'aspetto".
Il vecchio sembrò non aver sentito. Cogli occhi allucinati, versò di nuovo le monete respinte nella sacchetta, contandole silenziosamente. Poi, con un sospiro simile ad un vento gelido attraverso i rami di un albero spoglio, spalancò la porta e si tuffò nella notte.
"Be', che ne dici?", ringhiò Joe. "Che tipo! Un minuto cerca di regalare quelle monete straniere, e il minuto dopo rifiuta di venderne una! E ne aveva un sacchetto pieno! Di quante ne avrebbe avuto bisogno, per sé?".
Rimasi silenziosa per un istante, mandando giù l'ultimo sorso del punch caldo. Un freddo molto più penetrante del vento gelido all'esterno mi faceva rabbrividire; avevo disperatamente bisogno della confortante familiarità del piccolo appartamento che dividevo con mio marito.
"Di quante? Oh, circa trenta, direi, per acquistare ciò di cui ha bisogno". Pensai ai versetti biblici che ricordavo dall'infanzia. "... Si pentì e riportò i trenta pezzi d'argento ai preti e agli anziani, dicendo: ho peccato perché ho tradito un innocente. Ed essi risposero: la cosa non ci riguarda".
Joe girò intorno al banco, preoccupato. "Di cosa stai parlando, Mary?".
"E gettò al suolo i pezzi d'argento, e... andò e si impiccò...! Anche la tomba l'ha respinto, Joe. Ora sta cercando di ricomprare la sua anima! Joe, abbiamo appena incontrato l'ebreo errante!".

(Psycho. N. 1. Armenia editore, 1978)





lunedì 2 novembre 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: Tamlin

In un tempo così antico che nessuno lo ricorda, la Regina delle Fate era solita riunire la sua corte notturna a Carterhaugh, vicino a Selkirk, nel punto dove le acque del fiume Ettrick curvano per unirsi allo Yarrow, ed entrare insieme a lui nel Tweed.

Lungo e crudele era l'inverno nelle alte e solitarie vallate della Terra di Confine, quando il vento del nord fischiava e ululava attraverso gli alberi spogli e soffiava la neve più in alto delle mura dei granai e delle case. Le ragazze dei villaggi di Ettrickdale e di Yarrow, sedute nelle loro stanze a cucire la seta, lasciavano cadere il lavoro sulle ginocchia e sospiravano pensando alla primavera, quando avrebbero potuto di nuovo incontrarsi nella pianura di Carterhaugh.
Pensavano:
"In nessun posto della Terra di Confine l'erba è verde come quella di Carterhaugh! In nessun posto le rose di campo hanno un colore così delicato, e le campanule un colore così puro, la ginestra è di un oro tanto splendente! Come è bello quando ci andiamo a raccogliere i fiori, a giocare a palla e ridere, ballare e cantare, prima di tornare a casa al tramonto, perché, noi lo sappiamo, quando è buio la pianura appartiene al Piccolo Popolo!"
Fra tutte le ragazze che giocavano, parlavano, ridevano e danzavano sull'erba verde a primavera, la più bella e coraggiosa era Lady Janet: i suoi genitori l'amavano moltissimo, e suo padre le aveva regalato la terra di Carterhaugh.
Era una luminosa mattina di maggio, e Janet giocava con altre ventiquattro ragazze, lanciando in alto una palla colorata, e ridevano sollevando le vesti di seta per correre con i piedi scalzi a riprenderla. All'improvviso, apparve in mezzo a loro la Regina delle Fate e disse con voce fredda:
- Questa è l'ultima volta che potete giocare in questo posto. Vi proibisco di rimettere i piedi sull'erba di Carterhaugh sia di giorno che di notte, perché ora appartiene al giovane Tamlin.
E in un attimo la fata scomparve.
Le ragazze, spaventate, andarono di corsa a infilarsi le pantofole, e a raccogliersi i capelli, pronte ad obbedire a quell'ordine. Solo Janet rimase ferma, e gridò con furia:
- Che diritto ha di dire che non possiamo più giocare in questo posto? Questa terra è mia, me l'ha donata mio padre. Di notte ci viene il Piccolo Popolo, ed è benvenuto, ma durante il giorno mi appartiene, e io ci verrò ogni volta che vorrò. E anche voi verrete a giocare!
- No, Janet, non verremo! - rispose una delle amiche.
- Non possiamo fare arrabbiare la Regina delle Fate! - disse un'altra.
- Ci dispiace, addio! - disse una terza.
E le ventiquattro compagne corsero alle loro case lungo lo Yarrow e l'Ettrick.
Janet, rimasta sola nella distesa verde, sospirò profondamente e se ne andò: ma quando arrivò a casa sua, a Bowhill, non raccontò niente di quello che era accaduto ai suoi genitori.
Il mattino seguente, appena sveglia, stirò le braccia verso il cielo, prese in faccia il primo raggio di sole e pensò:
"Cosa farò di bello quest'oggi? Ecco cosa farò: raccoglierò fiori per mia madre, che mi ama tanto. Raccoglierò per lei le rose di campo, che hanno quella tinta leggera così bella, e crescono sul cespuglio di rovi accanto al pozzo di Carterhaugh, la mia terra..."
Allora indossò il vestito di seta, verde come l'erba, e le pantofole, che erano rosse come bacche di sorbo, si pettinò i lunghi capelli biondi, fece una treccia, l'avvolse attorno alla testae la fissò con due pettini d'oro ornati di smeraldi, verdi come il vestito e come l'erba di Carterhaugh. Poi raccolse la lunga gonna fra le mani e corse sul prato, fino al cespuglio di rovi che cresceva accanto al pozzo.
Aveva appena raccolto il primo bocciolo di rosa, così delicatamente colorato, quando sentì una voce arrabbiata alle sue spalle che gridava:
- Chi sei? Che ci fai, tu, qui a Carterhaugh?
Janet si voltò, e si trovò davanti un cavaliere su un cavallo bianco come il latte, che aveva agli zoccoli due ferri d'argento e due d'oro. Anche il cavaliere era vestito di bianco dalla testa ai piedi, e sui capelli bruni e ricciuti portava un bel cappello dalla piuma rosa.
- Chi sei? E cosa fai qui a Carterhaugh? - domandò di nuovo il cavaliere.
- Sono Lady Janet, - rispose con orgoglio la ragazza. - Sto raccogliendo rose di campo per mia madre, perché tutta questa terra mi fu donata da mio padre, e mi appartiene.
Il cavaliere la guardò con occhi freddi e grigi come le acque dell'Ettrick in un giorno di febbraio.
- La Regina delle Fate ha dato questa terra a me, Tamlin! - gridò. - Se tu vieni in questa terra, rischi molto!
- Questa terra è tua dal tramonto all'alba, - disse lei. - Non ne hai abbastanza?
Tamlin scosse la testa, corrucciato, e il cavallo bianco nitrì, colpendo violentemente il suolo con uno zoccolo.
- Ieri ho giocato qui con ventiquattro compagne, - disse Janet. - C'era abbastanza spazio per tutte, e anche di più: oggi ci dovrebbe essere abbastanza spazio per me e per te!
Poi si voltò, e cominciò a raccogliere i bianchi boccioli spruzzati di un rosa delicato.
La rabbia allora scomparve dalla faccia di Tamlin, e il suo sguardo divenne strano e triste.
- Resta pure, per oggi, e raccogli le rose per tua madre, - disse. - Ma poi Carterhaugh sarà solo mia.
Janet non disse niente: raccolse l'ultima rosa di campo, poi guardò il cielo blu, ascoltò il trillo armonioso dell'allodola che volava sopra di lei. Anche il cavaliere bianco guardò in alto con il suo sguardo triste, e disse sospirando:
- Quanto tempo è passato, da quando ho sentito il canto dell'allodola... Era un mattino di maggio, e non ricordavo più come fosse meraviglioso!
Poi diede uno strattone alle redini, e il cavallo bianco come il latte galoppò via, mentre Janet raccoglieva la gonna di seta con la mano sinistra, e tornava lentamente verso casa.
Il mattino seguente, quando si svegliò, si stirò a lungo, e sorrise al sole appena levato, e si chiese cosa avrebbe fatto in quella giornata.
"Raccoglierò fiori per mia madre, che mi ama tanto, - pensò. - Raccoglierò anche ramoscelli di ginestra verde pieni di fiori dorati, quelli del cespuglio che cresce vicino al pozzo di Carterhaugh, che mi appartiene."
Così indossò il vestito di seta verde come l'erba e le pantofole rosse come le bacche di sorbo selvatico, pettinò i lunghi capelli biondi, fece una treccia, se l'avvolse alla testa e la fissò con due pettini d'oro ornati da smeraldi verdi come il vestito e come l'erba di Carterhaugh. Poi raccolse la gonna e corse nel prato, fino alla ginestra che cresceva accanto al pozzo. Aveva appena spezzato il primo rametto, quando sentì dietro di sé una voce arrabbiata:
- Chi sei? Cosa fai qui a Carterhaugh?
Janet si voltò: ecco il cavaliere sul cavallo bianco come il latte, con due ferri d'oro e due ferri d'argento sugli zoccoli: ma questa volta la piuma sul cappello del cavaliere era dorata come il fiore di ginestra.
- Io sono Lady Janet, - rispose tranquilla la ragazza, - e sto raccogliendo ginestra dorata per mia madre, poiché tutta questa terra mi appartiene.
- Appartiene a me! - gridò Tamlin con furia, e i suoi occhi grigi erano crudeli come il fiume Yarrow quando si scioglie la neve sulle colline, e l'acqua precipita giù a caccia di pecore affaticate o viandanti dispersi.
- Non ricordi? - disse la ragazza a bassa voce. - Ieri ho raccolto un mazzo di rose per mia madre, e abbiamo ascoltato l'allodola che cantava. C'era abbastanza spazio per tutti e due: perché non dovrebbe essercene anche oggi?
Poi si voltò, e ricominciò a raccogliere i rami verdi dai fiori dorati.
Sul volto di Tamlin la rabbia si spense, e i suoi occhi grigi si riempirono di uno sguardo triste.
- Poiché sei qui a raccogliere ginestre per tua madre, rimani pure, - disse. - Ma dopo, Carterhaugh sarà soltanto mia.
Senza parlare, la bella Janet raccolse l'ultimo rametto di ginestra dorata, e poi sedette sull'erba a guardare, oltre lo Yarrow, le lontane brughiere, ascoltando il canto lamentoso del chiurlo: e Tamlin la guardava con i suoi occhi tristi e sospirava.
- E' passato tanto tempo dall'ultima volta che ho ascoltato il chiurlo, in una mattina di maggio, che quasi avevo dimenticato come è meraviglioso, - disse, poi diede uno strattone alle redini e il cavallo bianco come latte galoppò via.
Janet si alzò, raccolse con la sinistra la gonna di seta e tornò a casa lentamente.
Il mattino dopo, al risveglio, la ragazza decise di raccogliere un mazzo di giacinti di campo per sua madre, e siccome i giacinti più belli crescevano vicino al pozzo di Carterhaugh, si vestì, si pettinò, raccolse la gonna e corse al prato.
Quando fu al pozzo, c'era Tamlin che l'aspettava sul suo cavallo bianco come il latte, e la piuma sul cappello era blu come il giacinto.
Questa volta, però, il cavaliere non fece domande, e rimase in silenzio a guardarla mentre lei raccoglieva i lunghi steli delle campanule, e quando il mazzo fu completo lui scese da cavallo e camminarono insieme fino alla sponda dello Yarrow, e là sedettero, ascoltando il grido malinconico di una pavoncella.
- Quanto tempo è passato da quando ho sentito la pavoncella gridare! - disse Tamlin guardando gli occhi di Janet. - Quasi avevo dimenticato com'è meraviglioso...
La ragazza inclinò il capo, e domandò:
- Non ci sono forse uccelli nella Terra delle Fate? Perché sospiri quando senti il canto dell'allodola, del chiurlo o della pavoncella?
- No. - lui rispose abbassando gli occhi sull'acqua del fiume. - Le Fate hanno la loro musica per danzare, e non hanno bisogno del canto degli uccelli. Ma io li ricordo ancora, perché sono nato mortale.
Lei aspettò in silenzio, guardando l'acqua come lui, finché il cavaliere riprese a raccontare:
- Mio padre era Randolph, Conte di Murray, e mia madre era la donna più dolce del mondo. Ma un giorno, mentre ero a caccia sulle colline, la Regina delle Fate mi vide, e mi volle come suo cortigiano. Chiamò dal Nord un vento freddo che mi gelò fino al midollo delle ossa, e io caddi da cavallo e restai per terra svenuto. Poi la Regina delle Fate mi fece portare su quella collina verde, laggiù, dove mi bagnò con erbe magiche e fece strani incantesimi, e mi diede da bere il latte delle capre invisibili di Nettygan... E ora sono Tamlin, il suo cavaliere prediletto, e ogni giorno che passa la mia memoria delle cose della vita scompare, come scompare un sogno lungo una giornata...
- Non sei felice di vivere nella Terra delle Fate, dove nessuno ha dolore e malattia? - chiese la bella Janet.
- Una volta lo ero, - lui rispose. - Ma adesso che ti ho incontrato, vorrei che l'incantesimo finisse per poterti sposare.
E lei rispose:
- Quello che la Regina delle Fate fa, io lo posso disfare, perché nemmeno io sarò felice finché tu non tornerai a essere mortale e io ti potrò sposare. Dimmi cosa bisogna fare, e lo farò.
Lui la guardò negli occhi e disse:
- L'incantesimo è potente, e per vincerlo dovrai essere più coraggiosa di tutte le ragazze della Terra di Confine: dovrai tornare a casa, e fare la tua vita per tutta l'estate e l'autunno, senza mai pensare a Tamlin, e senza venire mai, né di giorno né di notte, nella verde piana di Carterhaugh. Quando arriverà l'ultima notte di ottobre, la vigilia di Ognissanti, se avrai ancora il coraggio di rompere l'incantesimo, dovrai andare a Miles Cross e aspettare là, perché a mezzanotte la Regine delle Fate passerà a cavallo con tutti i suoi cavalieri, per andare a danzare sulla verde erba di Carterhaugh.
- E come potrò riconoscerti fra tanti cavalieri? - disse la bella Janet.
- Ascolta attentamente, - disse Tamlin, sfiorandole con le dita fredde il dorso della mano. - Ascolta bene, e fa esattamente quello che ti sto per dire, perché da questo dipenderà il mio destino: e per quanto la Terra delle Fate sia un incanto, io desidero solo ritornare mortale e vivere insieme a te.
Dunque, quando sarai là a Miles Cross la notte della vigilia di Ognissanti, tu sentirai per prima cosa il suono dei flauti fatati, suonati dai Folletti di Grastacombe, e poi i colpi dei tamburi fatati, suonati da quelli di Norsival, e poi verrà un portabandiera vestito di foglie d'argento, con una bandiera rossa, e guiderà la prima compagnia, chiamata degli Uomini Leggeri: ma tu non badare a loro, e non ti muovere, perché io non sarò fra quelli.
Poi arriverà un portabandiera vestito di foglie d'oro, e porterà una bandiera verde, alla testa della seconda compagnia di cavalieri, detti i Fratelli Senza Tristezza: ma tu non agitarti, non muovere un dito, perché io non sarò fra quelli.
Alla fine vedrai un portabandiera vestito di foglie rosse, che porterà una bandiera bianca, davanti alla terza compagnia, detta dei Cavalieri Del Lungo Grido, e allora cercami attentamente con gli occhi. Il primo cavaliere avrà un'armatura nera, e cavalcherà una bestia nera come la notte: non sarà Tamlin. Il secondo avrà un'armatura marrone come una castagna, e anche il suo cavallo: ma non sarà Tamlin. Il terzo cavaliere sarà bianco, con il cavallo bianco come latte: e sarò io. Porterò una stella d'oro in fronte, e avrò un guanto bianco sulla destra, ma la sinistra nuda, e in quella terrò la mano della Regina delle Fate. Appena mi vedrai, mia bella Janet, salta fuori come una volpe, afferra le redini, e tirami giù da cavallo, e tienimi stretto qualunque cosa accada, perché la Regina delle Fate si arrabbierà molto, e userà molti trucchi per fare in modo che tu mi lasci andare: e se tu mi lascerai andare, sarà per sempre.
- Farò come hai detto, Tamlin, o che io abbia un dolore per ogni capello della mia testa, - promise la bella Janet.
Così se ne andò, e per tutta l'estate e tutto l'autunno non ritornò più nel verde prato di Carterhaugh, e si teneva la mente occupata tessendo e filando, per non pensare al cavaliere bianco.
Quando arrivò l'ultima notte di ottobre, vigilia di Ognissanti, Janet si avvolse nel mantello verde erba, e si mise in cammino alla luce della luna verso Miles Cross.
C'era un silenzio terribile, e nel cuore della ragazza c'era il gelo della paura, perché molte cose terribili erano avvenute in quel tratto di campagna, o almeno si raccontava che fossero avvenute.
Era nel piccolo cimitero della chiesetta di Saint George, per esempio, che Mary Gull la lavandaia, cento anni prima, era stata trascinata in una tomba da magre e bianche mani.
Era sul muretto del ponte di Castlefrog, si diceva, che i diavoli più cattivi dell'inferno venivano ad arrotare i loro denti neri.
Era dai rami della quercia di Pendritt Place che, si raccontava, si allungavano nella notte corde viscide, alla ricerca di colli viventi.
Ma nonostante quel nocciolo di terrore nel cuore, e nonostante sentisse la radice di ogni capello tirarle sulla testa, Janet camminava, perché doveva essere la più coraggiosa, per liberare il cavaliere bianco.
Finalmente arrivò a Miles Cross, e si mise ad aspettare. C'era ancora silenzio, ma la paura del cuore se n'era andata, e i capelli non tiravano più, e si muovevano appena a un leggero vento notturno.
Ed ecco, sentì un lontano rumore di flauti, e poi di tamburi fatati, e capì che stava arrivando la processione della Regina delle Fate, per andare a danzare sul verde di Carterhaugh.
Per primo arrivò il portabandiera con la bandiera rossa, ma la ragazza restò ferma e nascosta, e lasciò passare quella compagnia, perché non era quella di Tamlin.
Poi passò il portabandiera con la bandiera verde, e di nuovo la bella Janet non si mosse, perché non era quella la compagnia del suo amico.
Ma quando arrivò il portabandiera con la bandiera bianca, con il cuore che le batteva forte, lasciò passare il cavaliere dall'armatura nera, sul suo cavallo colore della notte, e lasciò passare il cavaliere marrone: ma quando vide il cavaliere bianco, con la stella d'oro in fronte, sul suo cavallo colore del latte, e il guanto sulla destra, e la sinistra nuda, che reggeva la mano della Regina delle Fate che cavalcava accanto a lui, Janet prese un fondo respiro, corse avanti, afferrò le redini bianche, prese la mano guantata di Tamlin e lo tirò giù dalla sella, stringendolo forte tra le braccia.
Le fate che seguivano la Regina cominciarono a strillare, e la Regina fermò il cavallo, e guardò la ragazza con la furia negli occhi. Le Fate sono belle, ma quando si infuriano possono fare più paura delle streghe.
- Pensi di poter scappare, Tamlin? - gridò, e alzò un dito della mano destra. Subito il cavaliere bianco si trasformò in una grande lucertola verde che tremava e si agitava per liberarsi: ma Janet guardò negli occhi dolci della creatura, e la tenne stretta contro di sé.
La Regina delle Fate era ancora più furiosa. Alzò la mano destra, e Tamlin si trasformò in un serpente verde che si contorceva e si dimenava per liberarsi: ma Janet lo guardava negli occhi tristi e lo tenne stretto.
- Dunque vuoi sfidare la Regina delle Fate! - gridò la Regina, e alzò il braccio destro: subito Tamlin divenne un cervo selvaggio che scalciava e combatteva per liberarsi, ma Janet guardava i suoi occhi grigi, e lo teneva.
Allora la Regina delle Fate capì che l'incantesimo era rotto, e che non poteva fare più niente per tenere Tamlin al suo servizio. Lentamente sollevò la mano sinistra e ridiede al giovane l'aspetto umano. Subito Janet lo coprì con il suo mantello verde, e rimasero insieme accanto alla strada mentre la processione proseguiva verso la piana di Carterhaugh.
Il giorno dopo, a Ognissanti, Janet e Tamlin si fecero la promessa di matrimonio, e il primo giorno dell'anno nuovo le campane della chiesa di Selkirk suonarono a festa, annunciando a tutta la gente che viveva fra lo Yarrow e l'Ettrick che Tamlin, figlio del Conte di Murray, aveva sposato la bella Lady Janet, che con il suo amore e il suo coraggio lo aveva liberato.

(Storie di meraviglia. Scelte da Berlie Doherty. Edizioni EL, 2000)







domenica 29 giugno 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Il sogno di Duncan Parrenness

Come il mister Bunyan dei tempi antichi, io, Duncan Parrenness, scrivano presso l'onorevolissima East India Company, in questa città di Calcutta dimenticata da Dio, ho fatto un sogno e mai, dacché la mia giumenta Kitty si azzoppò, sono stato così turbato. E, allora, per tema di dimenticarlo, mi sono deciso a metterlo per iscritto. Per quanto lo sa il cielo se la cosa mi sia ostica, più avvezzo come ero a maneggiar la spada che la penna quando un paio di anni fa ho lasciato Londra. 
Non appena terminato il gran ballo dato come ogni anno verso la fine di novembre dal governatore generale, mi ero ritirato nel mio alloggio che guardava su quel tetro corso d'acqua, così poco inglese, che è l'Hoogly, in uno stato non certo sobrio come avrei dovuto. Ora, ubriaco fradicio in Occidente significa un po' brillo in Oriente, e io ero ubriaco in modo nord-nord-orientale, come si esprimerebbe mister Shakespeare. Eppure, nonostante la mia sbornia, i gelidi venti notturni (benché abbia inteso dire che causino non poche infreddature e flussioni) smaltirono i miei fumi, almeno in parte; ricordai così d'essere uscito solo un po' depresso e deperito dai malanni degli ultimi quattro mesi, mentre i giovanotti giunti in Oriente sulla mia stessa nave da un mese erano tutti sepolti per l'eternità nell'impuro suolo a nord degli alloggi degli scrivani. Ringraziai perciò il Signore in modo vago (benché, per mia vergogna, nel farlo non m'inginocchiassi) per avermi concesso di vivere, sperando se non altro di arrivare al marzo prossimo. In effetti quella sera, noi  che eravamo vivi (e il nostro numero era di gran lunga inferiore a quello di coloro che avevano intrapreso l'ultimo viaggio, nella passata stagione calda) avevamo fatto baldoria sui bastioni del forte per questo favore della Provvidenza, sebbene i nostri scherzi non fossero né spiritosi né degni delle orecchie di mia madre. 
Quando mi fui coricato (o piuttosto buttato sul letto) e i fumi dell'alcool si furono un poco diradati, mi trovai a non poter dormire, tornando col pensiero a mille cose che sarebbe stato meglio non rivangare. Per prima cosa, ed era ormai da un pezzo che non mi capitava, il dolce viso di Kitty Somerset, come fosse riprodotto in un dipinto, si muoveva ai piedi del letto, così chiaramente da farmi quasi credere che fosse presente di persona. Allora ricordai come mi avesse spinto a venire in questo maledetto paese per diventare ricco e affrettare così le nostre nozze, col consenso dei rispettivi genitori; e poi come avesse per il meglio (o forse per il peggio) ritirato la promessa e sposato Tom Sanderson appena tre mesi dopo la mia partenza. Da Kitty il pensiero mi cadde sulla signora Vansuythen, una donna alta e pallida, gli occhi viola, giunta a Calcutta dalla fabbrica olandese di Chinsura, che aveva seminato zizzania fra tutti i giovanotti e non pochi intendenti. Qualcuna delle nostre signore, è vero, affermava che non aveva un marito, né un certificato di matrimonio se è per questo, ma le donne, e specialmente quelle che hanno avuto una vita facile e banale, non sono certo tenere con il proprio sesso. Per di più la signora Vansuythen era molto più bella di tutte loro. Con me era stata gentilissima, alla serata del governatore generale, e anzi mi consideravano tutti come il suo preux chevalier, che è francese per una parola ben peggiore. Ora, se di questa tal signora Vansuythen me ne importasse quanto di un fico secco (benché le avessi giurato eterno amore tre giorni dopo averla incontrata), non avrei saputo dirlo, allora, e non lo seppi che più tardi; ma grazie all'orgoglio e all'abilità di spadaccino senza rivali a Calcutta rimanevo nelle sue grazie. Sicché ero convinto di adorarla. 
Una volta banditi dalla mente i suoi occhi viola, la ragione mi rimproverò per averle anche solo dato retta per un attimo; e mi resi conto di quanto l'anno vissuto in questa terra mi avesse consumato e inaridito l'animo al fuoco di mille passioni e mille desideri negativi, tanto che a questa scuola del demonio per ogni mese ero invecchiato di dieci. Corsi allora col pensiero a mia madre e, tutto contrito, giurai di ravvedermi, facendo nello stato peccaminoso di ubriachezza in cui versavo mille voti... da allora, temo proprio, tutti infranti, non so più quante volte. Da domani, mi dicevo, vivrò onestamente, per sempre. E sorridevo, ancora un po' stordito dagli effetti dell'alcool, al pensiero dei pericoli scampati, mettendomi a fare ogni sorta di castelli in aria, dei quali una chimerica Kitty Somerset, con gli occhi viola e la dolce parlata lenta della signora Vansuythen, era sempre regina.
Da ultimo un bellissimo e magnifico coraggio (che senza dubbio nasceva dal Madera di mister Hastings) sorse in me e con esso la sensazione che, se solo avessi voluto, avrei potuto diventare governatore generale, nababbo, principe, che dico, il gran mogol in persona. Per cui, muovendo i primi passi, un po' a casaccio e vacillando alquanto, verso il mio nuovo regno, presi a calci i miei domestici che dormivano fuori, finché quelli urlando non corsero via, e chiamavo a testimoni cielo e Terra che io, Duncan Parrenness, ero scrivano al servizio della compagnia e non avevo paura di nessuno. Poi, visto che né la luna né l'Orsa Maggiore erano disposte ad accettare la mia sfida, tornavo a coricarmi e a questo punto devo essermi addormentato.
Ben presto fui svegliato dalle mie stesse parole ripetute due o tre volte e mi avvidi che era entrato nella stanza un ubriaco reduce, pensai, dalla riunione in casa Hastings. Si sedette ai piedi del letto proprio come fosse il suo e io notai, come potevo, che il suo viso era alquanto simile al mio, solo invecchiato, fuorché quando si trasformava in quello del governatore generale o di mio padre, morto sei mesi prima. Tutto ciò comunque mi sembrava assolutamente normale, conseguenza inevitabile del troppo vino bevuto, ed ero così adirato per la sua intrusione, quanto mai imprevista, che gli intimai, ben poco civilmente, di andarsene. A tutte le mie parole non si degnò nemmeno di rispondere; soltanto veniva biascicando lentamente, quasi che si trattasse di una leccornia: "Scrivano al servizio della compagnia e senza paura di nessuno". Poi eccolo arrestarsi di botto e girandosi bruscamente verso di me dire che una persona del mio stampo non ha da temere uomini né diavoli, che ero un giovanotto coraggioso e che, con tutta probabilità, sarei vissuto abbastanza da diventare governatore generale. Ma per tutte queste cose (e qui supposi che si riferisse ai mutamenti e alle vicissitudini dell'incerta vita che conducevamo da queste parti) dovevo pagare il prezzo. A questo punto ero tornato abbastanza lucido e, del tutto risvegliato dal primo sonno, ero incline a ritenere tutta la faccenda come lo scherzo di un ubriaco. Perciò gli dico allegramente: "E che prezzo dovrei pagare per questo mio palazzo, che è meno di quattro metri quadri, e per le mie cinque misere pagode al mese? Il diavolo ti porti, te e i tuoi scherzi: ho già pagato solo in malattie il doppio del prezzo". In quel mentre il mio uomo si gira completamente verso di me, sicché al chiaro di luna potevo vedere ogni piega e ogni ruga del suo viso. Allora, come ho veduto sparire in una notte le acque dei nostri grandi fiumi, la mia allegria da ebrezza sparì; ed io, Duncan Parrenness, che non avevo paura di nessuno, fui preso dal terrore più mortale ch'io credo essere umano abbia mai avuto in sorte di conoscere. Vidi infatti che il suo era il mio stesso volto, ma segnato, solcato, sfregiato dalle tracce del male e di una vita dissoluta, come l'avevo già visto una volta quand'ero (assistimi, Signore) ubriaco fradicio: un viso tutto pallido, tirato e invecchiato in uno specchio. Sono convinto che al mio posto altri si sarebbe spaventato anche più di me, che in fondo non manco certo di coraggio.
Dopo essere rimasto immobile per un po', sudando in preda all'angoscia e aspettando di risvegliarmi dal terribile sogno (perché sapevo bene che era un sogno), quello torna a ripetermi che devo pagare il prezzo; e poco dopo, come se dovesse esser saldato con pagode e rupie sicca chide: "Che prezzo pagherai?". E io sommessamente: "Per amor di Dio, lasciatemi in pace, chiunque voi siate, e da stanotte mi correggerò". Ed egli, ridacchiando alle mie parole, ma senza dare altrimenti segno di averle sentite, fa: "No, vorrei soltanto liberare un baldo giovane come te da quanto ti sarebbe d'intralcio nel corso della tua vita in India, poiché credimi", e qui torna a guardarmi intensamente, "non c'è compenso". Tutta quella tirata, che allora non potevo capire, mi prendeva piuttosto alla sprovvista e attesi il seguito. E lui tranquillamente riattaccò: "Dammi la tua fiducia nell'uomo". Al che mi resi conto di quanto pesante sarebbe stato il prezzo da pagare, giacché non mi illusi un istante che non potesse esigere da me tutto ciò che chiedeva; ormai il terrore e l'attenzione spasmodica mi avevano del tutto sgombrato la testa dai fumi dell'alcool trangugiato. Perciò lo interruppi bruscamente, lamentando che non ero poi così malvagio come lui pretendeva e che la mia fiducia nei miei simili era per lo meno pari ai loro meriti. "Non è certo colpa mia", dissi "se una metà di loro è composta di bugiardi e l'altra metà meriterebbe d'essere bruciata", e gli chiesi di nuovo di piantarla con le sue richieste. A quel punto m'interruppi, per il timore, debbo riconoscerlo, di essermi lasciato trasportare dalle parole, ma lui non vi badò e premette leggermente la sua mano sul lato sinistro del mio petto dove, per un istante, scese il gelo. Poi, ridendo più forte, mi disse: "Dammi la tua fiducia nelle donne". A tanto, sobbalzai sul letto come se mi avessero punto, perché pensai alla mia cara madre in Inghilterra e per un istante m'illusi che la mia fiducia nelle creature più belle di Dio non potesse essere scossa né sottratta. Ma poi, sotto lo sguardo duro di Me stesso, tornai per la seconda volta quella notte con il pensiero a Kitty (lei che mi aveva piantato in asso per sposare Tom Sanderson) e alla signora Vansuythen, cui solo il diabolico mio orgoglio mi legava, a come quest'ultima fosse anche peggiore di Kitty, e io il peggiore di tutti, visto che, di fronte al mio avvenire ancora in forse, mi permettevo di seguire con leggerezza estrema il cammino lastricato per l'inferno solo perché là in fondo brillava, non è vero?, il sorriso di una donna. Così pensai che tutte le donne del mondo fossero come Kitty o la signora Vansuythen (come infatti per me da allora sono sempre state) e questo mi gettò in un tale parossismo di rabbia e di dolore che fui lieto oltre ogni dire quando la mano di Me stesso tornò a posarsi sul lato sinistro del mio petto e io non fui più turbato da quelle follie.
Dopo di che egli tacque per un poco, per cui io m'aspettavo o che se ne andasse, oppure che non tardassi a risvegliarmi; ma ecco che riprende (e molto soavemente) a dirmi che ero uno sciocco a preoccuparmi di follie come quelle da cui mi aveva liberato e che prima di andarsene mi avrebbe solo chiesto poche altre bagatelle che nessun uomo, come del resto nessun ragazzo, avrebbe tenuto a conservare in questo paese. E così avvenne che egli estrasse dal profondo del mio cuore, per così dire, guardandomi fisso in volto tutto il tempo con i miei stessi occhi, quel che ancora mi restava della mia anima e della coscienza di fanciullo. Fu una perdita, questa, ben più grave e dolorosa delle due subite in precedenza. Infatti, assistimi Signore, anche se mi ero allontanato parecchio dai sentieri della dignità e della devozione, restava ancora in me, benché sia io a scriverlo, una certa bontà di cuore che, quand'ero sobrio (o sofferente), mi faceva pentire per tutto ciò che avevo potuto compiere prima della crisi. E la persi irrimediabilmente: al suo posto era un altro strato di gelo mortale. Io non sono, come ho già detto prima, molto abile con la penna; temo perciò che quanto ho appena scritto non sia compreso appieno. Ma il fatto è che ci sono dei momenti nella vita di un giovane nei quali, per mano di un dolore o di una colpa molto grandi, del ragazzo che c'è in lui non resta traccia, cosicché, cauterizzato in qualche modo, si trova sbalzato d'un sol colpo nella più penosa condizione virile: un po' come il nostro abbacinante giorno indiano, che si muta in notte fonda senza mai un'ombra grigia di crepuscolo a sfumarne gli estremi. A far meglio comprendere il mio stato, basterà forse ricordare che il mio tormento era dieci volte superiore a quello che ogni uomo incontra nel corso naturale della vita. Sul momento non osavo pensare al mutamento da me subito, e in una sola notte, benché da allora vi sia tornato sopra molto spesso. "Il prezzo l'ho pagato", dissi battendo i denti in preda a un gelo mortale, "il compenso qual è?". Ormai era quasi l'alba e quel Me stesso aveva cominciato a farsi pallido e sottile contro il lucore bianco sorto a oriente, come hanno sempre fatto - stando a quanto era solita ripetere mia madre - fantasmi, diavoli e simili. Fece per andarsene ma le mie parole lo fermarono e - ricordo - rise, come lo scorso agosto ho riso io quando ho ferito in duello a un braccio Angus Macalister, perché aveva osato mettere in dubbio la virtù della signora Vansuythen. "Qual è il compenso?", fece lui, riallacciandosi alle mie ultime parole. "Ebbene, la forza di vivere per quanto piaccia al diavolo o a Dio ed ecco, finché vivrai, il mio dono". Così dicendo mi mette in mano qualcosa che nell'oscurità non ancora del tutto svanita non riuscivo a distinguere; quando rialzai lo sguardo era sparito.
Non appena ebbi modo di esaminare il dono in piena luce, mi avvidi che era un tozzo di pane secco.

(Rudyard Kipling, Racconti anglo-indiani del mistero e dell'orrore. Theoria, 1985)




sabato 12 aprile 2014

Medieval Mistery Tour

Gli Young Tradition nascono nel 1965 per iniziativa di Peter Bellamy, Royston Wood e Heather Wood. Sul modello della Copper Family costruiscono un repertorio di canzoni tradizionali eseguite senza accompagnamento musicale. Messi sotto contratto dalla Transatlantic pubblicano quattro album, l'ultimo dei quali vede la partecipazione di Shirley Collins: The Holly Bears the Crown vedrà però la luce solo nel 1995 grazie alla Fledg'ling, a causa dello scioglimento del gruppo. Poco prima la Transatlantic aveva dato alle stampe un'antologia e l'ultimo atto ufficiale della band, Galleries, arricchito dalla presenza di Dolly Collins, Dave Swarbick e dell'Early Music Consort diretto da David Munrow. Galleries si differenzia dai lavori precedenti per il suo spostamento verso la musica antica e si chiude con una versione della celebre Agincourt Carol, la canzone che celebra la sconfitta dell'esercito francese di Carlo VI da parte delle truppe inglesi di Enrico V in netta inferiorità numerica. La battaglia di Agincourt si collega alla leggenda degli Angeli di Mons, nata quasi cinque secoli dopo per spiegare come l'esercito tedesco, in schiacciante superiorità, non fu in grado di prevalere sul corpo di spedizione britannico sul continente. Come ben sanno gli appassionati di letteratura fantastica, la leggenda nacque da un articolo di Arthur Machen pubblicato sull'Evening News del 29 settembre 1914, poco più di un mese dopo l'evento bellico. Vi si sosteneva che a soccorrere i soldati inglesi furono gli spettri degli arcieri che nel 1415 ebbero ragione delle truppe francesi. Tre anni dopo Machen pubblicò The Terror, un racconto sugli effetti che la condizione bellica può generare su un piano soprannaturale; un piccolo capolavoro che anticipa Daphne du Maurier e Stephen King.
Altri tradizionali degni di nota contenuti in Galleries sono John Barleycorn, The Banks of the Nile - ripresa due anni dopo anche dai Fotheringay - e Idumea, l'inno metodista scritto nel 1763 da Charles Wesley le cui nove versioni costituiscono l'asse portante di Black Ships ate the Sky dei Current 93.
Dopo lo scioglimento del gruppo Peter Bellamy intraprende una carriera solista durata vent'anni mentre Royston Wood e Heather Wood continuano a esibirsi come duo pur approdando alla loro unica produzione discografica solo nel 1977. No Relation, titolo che allude all'assenza di parentela tra i due musicisti, si avvale di ospiti come Ashley Hutchings e Simon Nicol. Lo stesso anno Heather si trasferisce negli Stati Uniti mentre Royston si aggrega per un breve periodo agli Swan Arcade
Il disco che presentiamo compendia Galleries, No Relation e l'EP Chicken on a Raft del 1967.




The Young Tradition, Galleries (1968)

Introductia
The Barley Straw
What If A Day
The Loyal Lover
Entracte: Stones In My Passway
Idumea
The Husbandman And The Servingman
The Rolling Of The Stones
The Bitter Withy
The Banks Of The Nile
Wondrous Love
Medieval Mistery Tour
Divertissement: Upon The Bough
Ratcliff Highway
The Brisk Young Widow
Interlude: The Pembroke Unique Ensemble
John Barleycorn
The Agincourt Carol




The Young Tradition, Chicken On A Raft (1967)

Chicken On A Raft
Randy Dandy-O
Shanties: Five Maringo / Hanging Johnny / Bring 'em Down / Haul On The Bowline





Royston Wood & Heather Wood, No Relation (1977)

A Shepherd Of The Downs
Come Ye That Fear The Lord
Foolish, Incredibly Foolish
Bold Benjamin-O
The Bold Astrologer
St. Patrick's Breastplate
The Cutty Wren
Will You Miss Me
Gloria Laus





[...] E, finalmente, giunse l'inevitabile "perché". Perché gli animali, che erano stati umili e pazienti sudditi dell'uomo, che avevano sempre avuto paura di lui, avevano dichiarato guerra all'antico padrone? Come avevan potuto prendere coscienza della loro forza e imparare a far lega tra loro?
E' una domanda difficile. Fornisco la mia spiegazione con molte riserve, pronto a modificarla se altri ne troverà di migliori.
Alcuni amici per i quali nutro grande rispetto pensano che sia avvenuto un "contagio dell'odio": la furia del mondo in guerra, la brama di morte che ha guidato l'umanità sull'orlo della distruzione ha contagiato infine queste più basse creature, e al posto della loro innata docilità ha fatto nascere collera, furia e istinti sanguinari.
Può essere una spiegazione, non lo nego: non pretendo di capire come funziona l'universo. Ma confesso che mi sembra una teoria fantastica: l'odio si diffonderebbe dunque come il vaiolo? Non so, mi pare difficile crederci.
La mia opinione - ed è solo un'opinione - è che la rivolta degli animali vada ricercata in un ordine di ragioni più sottile. Credo che i sudditi si siano ribellati perché il re ha abdicato. L'uomo ha dominato sulle bestie, e nei secoli lo spirituale ha regnato sul razionale attraverso la particolare grazia di spirito che ci è propria, che fa dell'uomo quel che egli è. E finché ha mantenuto questo potere e questa grazia fra lui e gli animali si è instaurato un patto d'alleanza. C'era supremazia da una parte, sottomissione dall'altra: ma al tempo stesso c'era quella cordialità che esiste fra sudditi e signori nello stato ben organizzato. Conosco un socialista secondo il quale i Racconti di Canterbury di Chaucer sono un ritratto della vera democrazia. Non so se sia vero, ma una cosa è certa: il cavaliere e il mugnaio andavano perfettamente d'accordo perché l'uno sapeva di essere un cavaliere, l'altro sapeva di essere un mugnaio. Se il cavaliere avesse dubitato del proprio grado, e il mugnaio avesse deciso che non c'erano ostacoli al suo trasformarsi in cavaliere, l'intesa fra i due sarebbe finita e il corso degli eventi avrebbe preso una piega difficile, sgradevole, sfociando forse nell'assassinio.
Lo stesso vale per l'uomo come specie. Io credo nella forza e nella verità della tradizione. Un uomo colto mi ha detto qualche settimana fa: "Se devo decidere fra le prove che mi fornisce la tradizione e quelle che mi fornisce un documento qualsiasi, ripongo sempre la mia fiducia nella tradizione. I documenti si possono falsificare, e spesso son falsi; ma non si può falsificare la tradizione". E' vero: si può quindi aver fiducia nel vasto corpus folclorico che parla dell'alleanza fra uomini e bestie. La favola popolare di Dick Whittington e del suo gatto rappresenta senz'altro l'adattamento di un'antica leggenda a un personaggio moderno, ma per quanto ci spingiamo nel passato sempre la tradizione popolare ha rappresentato gli animali come i sudditi e gli amici dell'uomo.
Tutto ciò in virtù di quell'elemento spirituale che è presente nell'uomo, e che gli animali, esseri razionali, non possiedono. "Spirituale" non vuol dire "rispettabile", non vuol dire "morale", e nemmeno "buono" nell'accezione ordinaria del termine. Significa piuttosto la prerogativa regale dell'uomo, la quale lo differenzia dalle bestie.
Ma da secoli l'uomo ha smesso la tunica reale, da secoli tiene lontano dal suo petto il balsamo del sacramento. Egli proclama di non essere spirituale, ma razionale, cioè uguale agli animali di cui fu sovrano. E giura di non essere Orfeo, ma Calibano.
Ora, negli animali vi è qualcosa che corrisponde allo spirito nell'uomo: è quel che ci contentiamo di chiamare istinto. Essi capirono che il trono era vacante, che non era più possibile amicizia col monarca deposto. Se non era un re era un impostore, un essere che doveva essere distrutto.
Fu questa, io credo, l'origine del terrore. E come si sono ribellati una volta, potranno ribellarsi ancora.

(Arthur Machen, Il terrore

mercoledì 20 novembre 2013

La Buona Annata's Literary Supplement: Lucifer Over London

Lewis Spence (1874-1988) nacque in Scozia e dedicò la sua vita a due vocazioni, l'antropologia e il giornalismo. Oltre alla magia rituale, studiò la mitologia e le tradizioni dell'antico Messico, del Sud America, del Medio Oriente e dell'Inghilterra celtica, e scrisse su questi argomenti parecchie opere della massima importanza. Nel campo dell'Occulto, ciò che lo interessava particolarmente era la "magia imitativa": per molti anni, fu la più grande autorità sull'argomento. Fu inoltre uno dei primi e più decisi oppositore dei nazisti, fin da quando presero il potere in Germania negli Anni Trenta: nel credo e nel modo di vivere nazista (in particolare in quelli di Adolf Hitler) egli vedeva fortissimi legami con l'antico culto del Satanismo e il dominio del male sulla terra. Spence espose le sue teorie in un libro sorprendente, The Occult causes of the Present War (1940) che preannunciava il declino dei valori dell'umanità e il ritorno alle ère barbariche del paganesimo, se "il Diavolo Hitler ed i suoi satanici seguaci" non fossero stati ridotti all'impotenza. Era convinto che Hitler e quanti lo circondavano possedessero una conoscenza tutt'altro che superficiale del satanismo, e che i principali esponenti del Reich celebrassero, in templi segreti, riti legati alle arti nere. Con il senno del poi, sappiamo che i suoi timori circa i mali del nazismo erano perfettamente giustificati. Tuttavia, a parte il fatto che Hitler era un uomo molto superstizioso, e stipendiava un astrologo perché lo consigliasse, non esistono prove che praticasse veramente riti satanici nel senso occulto della parola. Nel seguente racconto, che è uno dei rarissimi esempi di narrativa di Spence, egli sfrutta in modo molto ingegnoso la sua teoria sui legami tra la Germania nazista e il Demonio.
Nel suo ultimo anno di vita, Spence scrisse queste parole, che vanno indubbiamente considerate come l'epitaffio del suo costante interesse per l'Occulto: "La mole enorme di materiale documentario che ho esaminato mi induce a concludere che fino ad ora abbiamo soltanto sforato l'ultraterreno, e che dobbiamo contare più sulla psicologia che sulle cosiddette prove materiali per conseguire una più vasta illuminazione". Nessuno può negare che questa affermazione sia valida ancora oggi.  (Peter Haining)




[...] "Il dottor Lehmann, il grande scienziato che ora giace infermo, ha scoperto un'essenza che accresce cento volte il potere di concentrazione della mente umana. Questa estensione temporanea dei poteri mentali umani permetterà a Lucifero di operare attraverso i suoi servitori. Fino ad ora ha potuto farlo soltanto per mezzo dell'umanità in massa, che è un veicolo imperfetto. Ma ora può agire attraverso una collaborazione spirituale con pochissimi eletti! Voi sarete l'arma mediante la quale Lucifero attaccherà l'Inghilterra, la Russia e l'America, e vendicherà la Germania imperiale, sua provincia prediletta, per farne ancora una volta la più grande potenza mondiale. Grazie al nostro divino padrone, lo spirito del fuoco celeste da lui solo generato discenderà sulla città di Londra e la distruggerà. Con la nostra concentrazione mentale, rivolgeremo la fiamma distruttrice del nostro signore dovunque vorremo: nulla potrà resistere alla sua potenza. Persino le pietre si fonderanno davanti alla forza delle folgori centuplicate del nostro padrone Lucifero, e il granito si sbriciolerà sotto il suo raggio divoratore. Sferreremo subito il primo colpo, e sarà un gesto simbolico. Demoliremo uno dei più importanti monumenti sacri allo spirito nazionale dell'Inghilterra. Domani a mezzogiorno, il monumento a Nelson, in Trafalgar Square, cadrà ridotto a un mucchio di cenere fumante".
Concluse il discorso con una risonante benedizione e congedò i fedeli. Quando fui certo che la cappella fosse ormai deserta, sgattaiolai via e raggiunsi la strada senza incidenti.
Faticavo a convincermi di non aver sognato. Mi sembrava troppo assurdo. Ma perché mai quel sacerdote infernale avrebbe dovuto dare quell'annuncio incredibile? Forse lui e gli altri congiurati avevano intenzione di far saltare in aria i monumenti più importanti di Londra, e quei pazzi dei loro seguaci avrebbero creduto che fosse opera di Lucifero.
Potevo andare a Scotland Yard a raccontare una storia di quel genere? Mentre guidavo la macchina, dirigendomi verso Londra, decisi di non ritornare presso il mio paziente, quella notte. Avrei pernottato in un albero e la mattina dopo avrei tenuto d'occhio il monumento a Nelson... anche se tutto sommato mi sembrava un'idea piuttosto sciocca. Se avessi visto qualcosa di sospetto, comunque, avrei chiamato la polizia.
Alle undici del mattino seguente avevo già fatto parecchie volte il giro di Trafalgar Square e avevo guardato con tanta insistenza il monumento che persino i piccioni, pensai, dovevano chiedersi che cosa avevo in mente di combinare. Non riuscii a scoprire nulla di nulla, e mi sentii più sciocco che mai. Ma, naturalmente, indugiai fino a mezzogiorno, e quando si avvicinò l'ora fatidica mi allontanai il più possibile dal monumento, pur senza perderlo di vista. Mi fermai ad un certo punto di Northumberland Avenue. Ciò che accadde poco dopo in Trafalgar Square è stato definito dagli scienziati "uno dei fenomeni meteorologici più straordinari mai verificatisi, e completamente inspiegabile". Era una tipica mattina di fine agosto, limpida e luminosa, con pochissime nuvole. Ma a mezzogiorno in punto vedemmo una massa di vapori che si avvicinava a Trafalgar Square: era uno spettacolo quale non avevo mai visto. Era una massa densa, scura, anzi quasi nera, di forma globulare e di mole considerevole, e avanzava a velocità impressionante. Ma nel cuore di questo globo nebuloso, che emetteva un frastuono squassante, d'intensità terribile, più forte di quello provocato da un aereo che vola a bassa quota, ardeva e lampeggiava un nucleo di fiamma vivida che lanciava scintille e bagliori corruschi, come una immensa girandola di fuochi d'artificio. A quanto pareva, stavamo per assistere ad un temporale di tipo assolutamente inedito.
In pochi istanti, tutto il cielo, sopra la grande piazza, fu coperto da quell'incredibile nube fiammeggiante. La gente correva a mettersi al riparo. Sentii qualcuno gridare che era un aereo in fiamme, e che stava per precipitare. Io restai lì, in mezzo alla strada, a guardare, come se fossi ipnotizzato. Nel momento preciso in cui il cuore ardente della nuvola giunse sopra il monumento, sembrò arrestare il suo corso, per un attimo brevissimo. Poi cominciò a retrocedere, a una velocità considerevolmente superiore a quella con cui era arrivata. Mentre indietreggiava continuò ad acquistare forza d'inerzia, e pochi secondi più tardi era ridotta ad un globo scintillante nel cielo, a parecchie miglia di distanza, in direzione sud-ovest. La gente, per la strada, stava cercando di spiegarsi quel fenomeno: era la più straordinaria stranezza meteorologica che si fosse mai vista, e anche la più spaventosa. Poco dopo, udii il rombo lontano di un'esplosione. Credetti di capire dove era esplosa quella nuvola terribile. Saltai in macchina e mi precipitai verso Kempton Park, verso la casa chiamata Marionville. Trovai, naturalmente, quello che mi aspettavo di trovare. La casa era stata colpita dal fulmine, e con un bagliore e un tuono così atroci da atterrire quanti si trovavano nelle vicinanze, Marionville era stata completamente distrutta. Quando arrivai, i vigili del fuoco si stavano accingendo ad andarsene. Seppi, dalla folla dei curiosi, che dalle macerie erano stati estratti dodici cadaveri, carbonizzati e irriconoscibili.
Quando arrivai a casa del dottor Lehmann seppi che era spirato serenamente durante la notte. Dissi addio alla sua figliastra. Non raccontai nulla né a lei né alla polizia. Non voglio che mi credano matto.

(Maghi e magia. A cura di Peter Haining. Edizioni Mediterranee, 1977)




venerdì 1 novembre 2013

La Buona Annata's Literary Supplement: Episodio musicale del colera

Immaginate un suono secco, acuto, discordante, prodotto apparentemente da un ferro che cade ritmicamente su un altro ferro; un suono che non produce vibrazioni né un'eco nitida e determinata, nel mezzo del silenzio di una notte in cui si addormenta triste una popolazione atterrita da una grande calamità.
Il colera abita nel nostro quartiere, e il quartiere intero lotta con lui sommerso dal silenzio e dall'oscurità. Sembra che il sonno eterno a cui in tanti si arrendono eserciti un contagio letale su quanti vegliano insonni la vita. Tutto tace nel quartiere: si soffre senza rumore, e si muore senza rumore: ci si cura in silenzio: ammutoliscono il dolore, il pianto, la disperazione; la preghiera è solo pensata, e la speranza non sale dal cuore alle labbra; non si domanda il rimedio, ormai è noto; non si studia il sintomo, ormai è previsto. Tutto, dalla loquace apprensione al ciarlatano che cura senza avere titoli, tace in quella notte. Di contro, però, tutto si muove: quando c'è silenzio è sempre molta l'attività. Il paziente si contrae nel suo letto; si acciambella come per piegarsi e finirla una volta per tutte: la natura desidera farsi a pezzi e si agita con movimenti convulsi; l'apprensivo corre di qua e di là, come se errando potesse evitare che il colera lo incontrasse; il fratello, la sposa, il figlio di chi è morto o sta per morire, entrano ed escono da una stanza all'altra, accumulando medicine opportune ed espedienti disperati; il prete non si ferma accanto al letto del defunto: dopo aver mormorato un'orazione, esce e ne raggiunge un altro, e poi un altro, e molto per tutta la notte; il medico entra, controlla il polso, osserva, scrive tre righe, e fa un gesto di speranza o di dubbio; scende e poi risale; e per tutta la notte entra, controlla il polso, scrive, spera e dubita infinite volte. Tutto il quartiere si muove, ma insieme tace. Mille emozioni si scontrano; mille dolori vengono soffocati; mille vincoli amorosi e familiari si spezzano; mille anime volano via; ma tutto questo accade in silenzio, nel mezzo di una calma orribile, nel mezzo di un movimento automatico e vertiginoso. Tutto il quartiere si muove, ma nello stesso tempo tace. Solo un essere (eccezione fatale!) riposa e russa in questa notte di morte: è la levatrice. In notti come questa non nasce nessuno.
Ebbene, in mezzo a questa taciturna agitazione si sente un suono secco, acuto, monotono, ritmato, prodotto da un ferro che batte su un altro ferro. Subito capireste che una mano diabolica è intenta a fissare le tavole di una tomba; è la mano di chi fabbrica casse da morto, che sfrutta laboriosamente un'industria che vive della morte; è il lavoro che cerca la ricchezza nel colera, e ogni vibrazione di quel ferro indica un pezzo d'oro conquistato a danno della miseria. Dal seno pestifero di un'epidemia nasce un'industria, e una folla di artigiani si guadagna da vivere.
Che industria fatale fiorisce al riparo della morte!
Mentre questa industria acquista uno sviluppo impressionante, il lugubre martellare che ne mostra l'attività ci inorridisce: ogni movimento di questo pendolo funebre segna un passo verso l'altra vita; ogni tomba fabbricata segna un respiro spezzato; ogni opera portata a termine è una morte.
Quei colpi portano alla nostra mente strane immagini, e fra tutte, la nostra stessa immagine il giorno in cui quel martello ci costruirà il mobile fatale: vediamo le tavole non ancora finite riunirsi e prendere la forma di un trapezio; le vediamo allungarsi secondo la nostra taglia, e stringersi a un estremo fino a presentare una forma ripugnante; vediamo una tela nera spiegarsi, ripiegarsi e avvolgerle. Vediamo dei galloni gialli adattarsi agli spigoli. Vediamo una giuntura, un coperchio che copre la parte interna, e una chiave pronta a rinchiuderci lì dentro per un'eternità. Vediamo la tomba in tutta la sua ripugnanza sotterranea; sentiamo il peso della terra. Ci fa rabbrividire l'attrito di quella fredda tela di raso che ci adorna all'interno, e il peso di una mano tremenda, di una lastra di marmo su cui un'iscrizione richiama il passante. Indoviniamo su tutto questo la corona di tristi fiori appassiti che ci fanno da ornamento; presentiamo la Messa e il Requiem. Presentiamo lo sguardo indifferente del revisore di epitaffi, e indoviniamo la natura intera sopra di noi senza poterla vedere: su di noi cade la rugiada, ma non ci rinfresca; sorge la luna, ma non ci illumina; sopra di noi qualcuno piange, ma non sappiamo chi è. Vediamo la morte, infine, rappresentata nelle sue parti: terra, decomposizione, lacrime, esequie; rappresentata in ciò che ha di questo mondo. La nostra immaginazione arriva a questo punto per la bara, e arriva alla bara attraverso quel suono spaventoso che la produce; da quel rumore metallico, acuto, penetrante, monotono che turba il silenzio del quartiere. Che orribili note! Ditemi, signori musicisti, signori Palestrina, Handel, Mendelssohn, quando avete portato la vostra immaginazione fino a questo punto. Nelle vostre cinque misere righe c'è qualcosa di paragonabile a questo dies irae cantato da un martello?

(Benito Pérez Galdos. Racconti fantastici. Donzelli, 2006)




mercoledì 9 ottobre 2013

La Buona Annata's Literary Supplement: Il vecchio contadino e lo spaventacchio

Arturo Loria, Il vecchio contadino e lo spaventacchio
Un vecchio contadino, trovandosi infermo, poteva guardar nel campo dal letto altissimo e posto in maniera che di là il suo sguardo mirasse diritto alla finestruola della camera. Esercitava così la propria sorveglianza sul fianco di un poggio a vigna e su tutto un gran seminato, nel mezzo del quale si ergeva da lungo tempo uno spaventacchio in brache penzolanti, giacchetta e cappelluccio a cono. Ma quei cenci ch'egli conosceva bene per averli, in più degno stato, portati addosso, anni addietro, ora andavano a pezzi senza che nessuno di famiglia, provvedendo a sostituirli, ripristinasse l'efficacia dell'arnese pauroso. Oggi ne faceva preghiera ai figli; domani ai generi, con l'insistenza dei vecchi quando hanno a cuore una faccenda o cercano, in modo querulo, la prova di essere ormai inascoltati. Gli uni e gli altri, dopo aver risposto di sì, trascuravano di contentarlo, presi dai lavori della stagione e poco curanti di un danno che ritenevano minimo, fuggiti altrove moltissimi uccelli per le sparatorie e le stragi fatte recentemente da cacciatori venuti di città. Ma in questo loro calcolo si sbagliavano. Non appena l'operosità del vento e delle piogge ebbe strappato via con gli ultimi brandelli di stoffa stinta anche il cappelluccio, e lì non rimasero che due magre pertiche in croce, gli uccelli riacquistarono baldanza, mentre il vecchio imprecava, cupo d'ira impotente, vedendoli calare in frotte gaie sul seminato. Perfino un colombaccio di passo si fermò, alla prima luce del sole, per riposare in vetta alla pertica ritta; né quella significativa impertinenza sfuggì all'infermo, dal suo giaciglio.
- Lo spaventacchio è proprio finito, - fece al più piccolo dei suoi nipoti, il quale di buon'ora gli portava una ciotola di latte caldo. - Parlane tu, a tavola; di' che va rivestito da capo a fondo, prendendo quei panni malandati che serbo nel cassettone. Dillo, mi raccomando. A te, forse, daranno ascolto. Se poi non sanno come si fa, potrò guidarli io da questo letto.
Ma rimasto di nuovo solo e con gli occhi fissi a guardar fuori della finestra, non ricordava più la ragione di così nuda struttura, da barca senza vela, in mezzo a un campo. Eppure, gli baluginava alla mente che servisse di appoggio alla stanchezza; e via via, cadendo in una specie di vertigine, gli pareva di esser lui quel colombaccio che dopo aver posato un poco sul sostegno, ripartiva a volo per chissà dove.

(La bottega dello stregone. A cura di E. Ghidetti e L. Lattarulo.
Editori Riuniti, 1985)



domenica 28 luglio 2013

Give Booze a Chance

Nel bel libro Lucifer over London, pubblicato nel 2010 da Aerostella, Antonello Cresti dedica un capitolo alla Tradizione eccentrica inglese, tratteggiata come chiave di lettura per comprendere alcune tra le più interessanti produzioni artistiche di quel paese. Citiamo letteralmente: "(...) questo tratto caratteriale svolge una funzione psicosociale importante, che va a determinare tante peculiarità dell'ispirazione artistica così com'è concepita nelle isole britanniche: esso è difatti, innanzitutto, una forma di ribellione contro il concetto di autorità e le convenzioni sociali e allo stesso tempo una fiera, ma non aggressiva, rivendicazione di indipendenza. Ancora una volta, dunque, nella cultura anglosassone si nota la presenza di una valvola di sfogo costante, utile per non soggiacere alle imposizioni di qualsiasi natura, senza per questo doversi impegnare in avventure aggressive o rivoluzionarie: l'eccentricità, paradossalmente, aiuta a sostenere quell'ordine che appare una burla, lavando via le tensioni che altrimenti potrebbero creare una reale minaccia nei confronti della stabilità sociale e del governo." Tra i gruppi citati, operanti a cavallo tra Sessanta e Settanta (e oltre) un posto preminente, e non potrebbe essere diversamente, viene occupato dalla Bonzo Dog Band guidata dai due Grandi Eccentrici Vivian Stanshall e Neil Innes. La storia dei Bonzos è fin troppo nota per essere ripercorsa in questa sede, così come le loro opere sono ampiamente disponibili in ristampe economiche e ben curate. Quella che proponiamo è una raccolta uscita nel 1995 di registrazioni effettuate nel corso delle trasmissioni Top Gear e Saturday Club, magari un po' superata da pubblicazioni successive, ma estremamente divertente e utile a combattere la calura di questi giorni. Give booze a chance!





1 - Do the Trouser Press
2 - Canyons of your Mind
3 - I'm the Urban Spaceman
4 - Hello Mabel
5 - Mr Apollo
6 - Tent
8 - Give Booze a Chance
9 - We Were Wrong
10 - Keynsham
11 - I Want to be with You
12 - Mickey's Son and Daughter
13 - The Craig Torso Show
14 - Can Blue Men Sing the Whites?
15 - Look at Me I'm Wonderful
16 - Quiet Talks and Summer Walks

Bonzalia:
Vivian Stanshall
Neil Innes
Roger Ruskin Spear
Rodney Slater
Vernon Dudley Bohay-Nowell
'Legs' Larry Smith
Sam Spoons
David Clague
Dennis Cowan

Sessionalia:
1,2,3 - Top Gear 29.4.68
4 - Saturday Club 29.10.68
5, 15, 16 - Top Gear 31.3.69
6, 7 - Top Gear 29.7.69
8, 9, 10, 11 - Top Gear 2.10.68
12, 13 - Top Gear 8.11.67
14 - Top Gear 8.7.68