Al quadretto di certa famiglia da yesterpunk è utile inserire gli High Tide. Il gruppo, durato l'attimo di due dischi, dal '69 al '70, s'avvicina musicalmente al filone hard inglese, differenziandosi però da esso per la spessa coltre tecnica dei suoi partecipanti. Le influenze trascendono la musica: questa alta marea sembra voler sommergere un po' tutti gli stili con un manto soggettivo che addomestica ogni frammento musicale altrui in minuscole creature dotate di vita propria.
Gruppo inglesissimo, a tratti infatuato da climi di novelle gotiche, High Tide non conoscerà mai fama notevole. I suoi dischi, più che presenti su tutte le bancarelle, saranno oggetto di speculazioni per il commercio del disco. La formazione a quattro, con chitarra + violino elettrico a spartirsi gran parte del lavoro solistico, sembra stranamente tra il rock-jazz e il country: e gli interventi compositivi si dondolano da un capo all'altro del paragone, intromettendo pure elementi di disturbo come blues e musica improvvisata. C'è anche - e tanto - hard rock, ma tutto con autocritica, magari venato di flirts con la musica californiana: sulla batteria rock e l'acido basso di Peter Pavli, s'innestano trascrizioni degenerate del Cipollina quicksilveriano, con una inaspettata fermata al Conservatorio (The Blankman Cries Again), o parodie di Uto Ughi e Paganini cappelloni e riffs ante Mahavishnu Orchestra.
Dei due dischi (più quell'oscuro album che vede tutti gli High Tide presenti) rimane oggigiorno il ricordo di un tentativo inconcluso, della ricerca di una emancipazione musicale troppo veloce, osteggiata dagli affaristi della musica. Simon House - dopo Alchemy con la Third Ear Band - scapperà addirittura al castello d'oro di David Bowie, e questi pronto ad accettare i pentiti figlioli prodighi, malconci per l'appena passata esperienza underground. Cose trite, probabilmente, ma anche tristi: musicisti castrati nella loro espressione e costretti a servire obbligatoriamente volitive ispirazioni altrui.
Accanto al Lodger di House c'è l'esempio di Peter Pavli, con Michael Moorcock & Deep Fix (The New Worlds Fair) o di Tony Hill, con la Ronnie Paisley Band. La libertà di un momento, i voli di violino di una Saneonymus innamorata di Grateful Dead + jazz svaniscono nell'istante. La vita, come dicevano alcuni a Seveso, continua.
(Al Aprile e Luca Mayer, La musica rock-progressiva europea. Gammalibri, 1980)
Questo testo presentato all'83a riunione di lavoro dell'Opificio di letteratura potenziale (Oulipo) si ispira alle istruzioni destinate agli ordinatori oppure all'insegnamento programmato.
1. Volete conoscere la storia dei tre arzilli piselli?
Se sì, passate al n. 4.
Se no, passate al n. 2.
2. Preferite quella delle tre pertiche smilze?
Se sì, passate al n. 16.
Se no, passate al n. 3.
3. Preferite quella dei tre mediocri arbusti?
Se sì, passate al n. 17.
Se no, passate al n. 21.
4. C'erano una volta tre piselli vestiti di verde che dormivano educatamente nel loro baccello. Il loro viso rotondo respirava dai buchi delle narici e si sentiva il loro russare dolce e armonioso.
Se preferite un'altra descrizione, passate al n. 9.
Se vi va bene questa, passate al n. 5.
5. Non sognavano. In realtà queste creature non sognano mai.
Se preferite che sognino, passate al n. 6.
Se no, passate al n. 7.
6. Sognavano. In realtà queste creature sognano sempre e le loro notti secernono sogni affascinanti.
Se desiderate conoscere questi sogni, passate al n. 11.
Se non ci tenete, passate al n. 7.
7. I loro piedini affondavano in caldi calzerotti e portavano a letto guanti di velluto nero.
Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 8.
Se vi va bene questo colore, passate al n. 10.
8. Portavano a letto guanti di velluto azzurro.
Se preferite guanti di colore diverso, passate al n. 7.
Se questo colore vi va bene, passate al n. 10.
9. C'erano una volta tre piselli che giravano il mondo rotolando sulle strade maestre. Venuta la sera, stanchi morti, si addormentarono molto rapidamente.
Se volete conoscere la continuazione, passate al n. 5.
Se no, passate al n. 21.
10. Facevano tutti e tre lo stesso sogno; infatti si amavano teneramente e, da buoni e baldi trimelli, sognavano sempre allo stesso modo.
Se volete conoscere il loro sogno, passate al n. 11.
Se no, passate al n. 12.
11. Sognavano di andare a prendere la zuppa alla mensa popolare e di scoprire, aprendo la gavetta, che si trattava di zuppa di veccia. Inorriditi si svegliarono.
Se volete sapere perché si svegliano inorriditi, consultate il Larousse alla parola "ers" (= veccia) e non parliamone più.
Se giudicate inutile approfondire la questione, passate al n. 12.
12. Poffarbacco! esclamarono aprendo gli occhi. Poffarbacco! che sogno abbiamo partorito! Brutto presagio, dice il primo. Certo, dice il secondo, è proprio vero, eccomi triste, Non turbatevi così, dice il terzo che era il più furbo, non bisogna preoccuparsi, ma capire, insomma, ve lo analizzerò.
Se volete conoscere subito l'interpretazione di questo sogno, passate al n. 15.
Se invece desiderate conoscere le reazioni degli altri due, passate al n. 13.
13. Ce le spari grosse, dice il primo. Da quando in qua analizzi i sogni? Già, da quando? incalza il secondo.
Se volete sapere anche da quando, passate al n. 14.
Se no, passate ugualmente al n. 14, perché non lo saprete comunque.
14. Da quando? esclamò il terzo. E che ne so! Sta di fatto che ho esperienza in materia. State a vedere.
Se volete vedere anche voi, passate al n. 15.
Se no, passate ugualmente al n. 15, tanto non vedrete niente lo stesso.
15. Ebbene, vediamo! dissero i suoi fratelli. La vostra ironia non mi piace, replicò l'altro, e non saprete niente. D'altronde, durante questa conversazione piuttosto animata, il vostro senso d'orrore non si è attenuato? o non è addirittura svanito? A che pro allora smuovere il pantano del vostro inconscio di papilionacee? Andiamo piuttosto a lavarci alla fontana e a salutare questo gaio mattino nell'igiene e nella santa euforia! Detto fatto: eccoli che scivolano fuori del baccello, si lasciano dolcemente rotolare per terra e raggiungono allegramente al piccolo trotto il teatro delle loro abluzioni.
Se volete sapere che cosa succede nel teatro delle loro abluzioni, passate al n. 16.
Se non lo volete sapere, passate al n. 21.
16. Tre pertiche li stavano a guardare.
Se le tre pertiche non vi piacciono, passate al n. 21.
Se vi vanno bene, passate al n. 18.
17. Tre mediocri arbusti li stavano a guardare.
Se i tre mediocri arbusti non vi piacciono, passate al n. 21.
Se vi vanno bene, passate al n. 18.
18. Vedendosi così adocchiati, i tre arzilli piselli che erano molto pudichi se la svignarono.
Se volete sapere che cosa fecero dopo, passate al n. 19.
Se non lo volete sapere, passate al n. 21.
19. Corsero molto forte per raggiungere il loro baccello e, chiudendoselo alle spalle, vi si addormentarono di nuovo.
Se volete sapere il seguito, passate al n. 20.
Se non lo volete sapere, passate al n. 21.
20. Non c'è seguito, il racconto è finito.
21. Anche in questo caso, il racconto è finito.
(Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere. Einaudi, 1981)
J.B.S. Haldane raccontava che nel corso di una conversazione con George Bernard Shaw, questi gli aveva dichiarato che il Sole, con tutta probabilità, era distante dalla Terra poche centinaia di miglia. Shaw affermò anche con decisione che lo spazio interplanetario differisce dallo spazio ordinario per due importanti motivi: prima di tutto, il suono non vi viaggia attraverso; secondo, neppure gli uomini riescono a viaggiarvi. Ragion per cui, affermava Shaw, è improprio applicare allo spazio interplanetario le stesse unità di misura che si impiegano sulla Terra.
Ebbene, possiamo ben dire, oggi, che la seconda obiezione di Shaw è stata completamente smentita.
MITTENTE: Ufficiale comandante Base Luna 1.
DESTINATARIO: Ufficiale comandante Progetto Diana.
OGGETTO: Controllo sperimentale composizione superficie lunare.
In seguito al nostro riuscito tentativo di stabilire una base abitata sulla Luna, siamo già in grado di fornire una soluzione definitiva a un problema che da molto tempo preoccupa gli astronomi: la composizione della superficie lunare.
Prima del nostro allunaggio, erano state avanzate tre ipotesi. Due raccoglievano il favore degli specialisti: la prima affermava che la superficie lunare era formata d'una sostanza simile alla lava e alla cenere dei vulcani terrestri; l'altra sosteneva che la maggior parte della Luna era ricoperta d'una polvere sottilissima prodotta dal continuo bombardamento delle particelle meteoritiche, e quindi identica alla polvere dello spazio interplanetario.
Tuttavia, con viva sorpresa, fin dalle nostre prime ricerche abbiamo potuto confermare la terza ipotesi - di gran lunga la più diffusa.
Prima di passare ai dettagli, però, occorre sottolineare altri due punti. Innanzitutto, le più moderne teorie sulla formazione dei pianeti affermano che la Terra e la Luna non erano all'origine - come si pensava un tempo - due globi di gas incandescente. Erano invece due nuvole di gas freddo e di polvere in rapida rotazione. E con tutta probabilità, le molecole compresse da cui nacque la vita come noi la conosciamo, esistevano già prima che si formassero i pianeti.
Gli astronomi erano fermamente convinti, nonostante non avessero mai scoperto un essere vivente sulla Luna, che l'identica materia prima, dalla quale nacque la vita sulla Terra, si trovasse anche sul nostro satellite. Ricordiamo la cura con cui furono sterilizzati i razzi lanciati sulla Luna, nel timore che la presenza di microbi terrestri contaminasse, e forse anche catalizzasse questo patrimonio di molecole pre-organiche, distruggendo preziosi indizi sull'origine della vita.
Va ricordato, poi, che durante le ricognizioni anteriori al nostro sbarco, uno degli Orbiter che cercavano un'area adatta all'allunaggio uscì dall'orbita e si schiantò sulla Luna, proprio accanto al punto dove abbiamo impiantato, in seguito, la nostra Base. Fin dal giorno del nostro arrivo, abbiamo attentamente ispezionato i rottami del razzo. Gravi difficoltà ci hanno impedito, finora, di redigere un rapporto completo. Ma è quasi pronto.
Comunque, è stato assodato senza ombra di dubbio che l'Orbiter è precipitato a causa di un corpo estraneo nel sistema di guida automatica. Vi invitiamo a compiere immediatamente una rigorosa inchiesta tra i tecnici della base di lancio, per identificare il responsabile. Non sarà difficile. Cercate un tizio tanto affamato, tanto interessato al proprio stomaco, da non muoversi mai senza una scorta di sandwich: quando lavora, li appoggia da qualche parte, e li dimentica. Ecco cos'era il corpo estraneo che abbiamo scoperto nell'Orbiter fracassato: un enorme sandwich col segno d'un morso.
L'Orbiter, schiantandosi contro la Luna, si è fracassato in mille pezzi e il sandwich è stato proiettato a molti metri di distanza. Adesso si potrà discutere all'infinito se è stato sufficiente il contenuto del sandwich a scatenare la gigantesca reazione a catena; io, per conto mio, ne sono assolutamente certo.
Gli scienziati che temevano la contaminazione della Luna da parte dei microbi terrestri, meritano un monumento per l'esattezza delle loro ipotesi. Quanto al tizio che ha dimenticato il sandwich dentro l'Orbiter, esso merita di essere impiccato, spellato vivo e squartato; tocca a voi scegliere. Meriterebbe anche di essere incastrato fino al collo dentro un barile pieno del gorgonzola che gli piace tanto spalmare nei suoi sandwich, finché non gli verrà la nausea soltanto a pensarci.
Soltanto in questo modo potrà capire la nostra tragica situazione, immersi come siamo in questo orrendo fetore che i compressori dell'aria rovesciano implacabilmente in tutta la Base lunare.
D'altronde, vi sarete già accorti della puzza di questo rapporto.
In conclusione, sono in grado di affermare, oggi, nel modo più categorico, che, grazie a quel maledetto sandwich, la Luna è integralmente composta di formaggio fresco (*).
(*) To believe the moon is made of the green cheese: Prendere lucciole per lanterne (nell'originale).
Alla fine del 1988 avevo passato tanti anni dietro la scrivania quanti ne avevo passati dietro la macchina da presa prima di abbandonarla. Avevo un'offerta sempre valida da parte della Universal per dirigere un progetto intitolato Il Frankenstein di Roger Corman. Mi offrirono la cifra più alta che avessi mai guadagnato in una sola volta, più una percentuale sui profitti. Ci volle molto tempo per mettere insieme la sceneggiatura giusta, dopo numerose stesure preliminari. Ma alla metà del 1989 sembrò finalmente che fosse arrivato il momento del via per Frankenstein oltre le frontiere del tempo, prodotto da Thom Mount insieme a me. La Twentieth Century Fox lo avrebbe distribuito negli Stati Uniti e la Warner oltreoceano. Il budget fu stimato intorno ai nove milioni di dollari per due mesi di riprese nei dintorni di Milano. Sarebbe stato di gran lunga la produzione più grande di tutta la mia carriera.
Il soggetto e il tema furono trasformati in una versione gotica ad alta tecnologia di Frankenstein, ambientata nel XX secolo e riportata poi indietro nel tempo.
Di certo Frankenstein era ben lontano dall'essere il primo mostro che portavo sullo schermo. Fino a che punto ho rappresentato me stesso sullo schermo attraverso i miei personaggi? Un regista produttore è un vero autore? Io credo di sì, se è uno che si appassiona a una storia tanto da riuscire a portarla sullo schermo. I suoi film sono proiezioni della sua personalità, delle sue paure, dei suoi sogni, delle sue ossessioni? Io tendo a credere di sì, perché lavoriamo a entrambe i livelli, quello della coscienza e quello dell'inconscio. La stessa scelta dei temi e delle storie è un avvertimento in un certo senso; ci sono parti di me in tutti i miei film. Quali parti?
C'è la tetra pazzia di Roderick Usher; il tormentato Dottor X., che si acceca con le sue mani ma prima vede attraverso le cose fino al centro dell'universo in L'uomo dagli occhi a raggi X; c'è il contorto "ragazzino" di A Bucket of Blood che desidera ardentemente di essere conosciuto e accettato e poi diventa un celebre scultore ricoprendo di argilla le vittime dei suoi omicidi. C'è Seymour Krelboin, il "ragazzino" che lavora dal fiorista, incrocia due piante e inavvertitamente diventa una celebrità perché ha creato un mostro divoratore di uomini. C'è Paul Groves, il personaggio interpretato da Peter Fonda in Il serpente di fuoco che prende l'acido e abbandona la sua vita di regista. E ci sono i selvaggi Angels, motociclisti fuori legge che calpestano le convenzioni imposte dall'establishment e vivono liberi al margine della società.
Penso che il barone von Richthofen, l'orgoglioso aristocratico senza paura che vive il mometo di passaggio della guerra, e Roy Brown, il nervoso operaio dai riflessi e dall'abilità eccezionali che lo abbatte nei cieli della Prima Guerra Mondiale riflettano i due aspetti conflittuali del mio carattere: l'artista elitario e il randagio vagabondo destinato a sconfiggerlo.
Quei due personaggi, in un certo qual modo, riassumono la mia visione di Hollywood e della cultura del cinema: è un'arte di compromesso, metà arte e metà commercio. Forse è per questo che gli americani sono così bravi. In un'epoca in cui l'industria americana resta indietro rispetto a quella di altri paesi, l'industria cinematografica statunitense è di gran lunga la prima al mondo. In questo siamo bravi, un compromesso di arte e commercio.
E' stato detto che Creature from the Haunted Sea sia il mio film più personale. Non è affatto un'idea sbagliata, considerato che ha il finale che preferisco a tutti gli altri, una scena conclusiva che ho inventato in un momento di estro e che ho letteralmente dettato al telefono a Chuck Griffith da Portorico. Il film era la storia di un gruppo di generali di Batista che scappano da Cuba con uno scrigno d'oro. L'uomo che assoldano per capitanare la nave è un malfattore, uccide i generali e per coprire i suoi crimini inventa la storia di un mostro marino che divora la gente. ma il mostro marino c'è veramente.
"Abbiamo sempre ammazzato i mostri dei nostri film, con il fuoco, la corrente, le inondazioni, sempre e comunque - dissi a Chuck. - Questa volta, invece, vincerà il mostro. Nell'ultima scena - insistetti, - si dovrà vedere il mostro seduto sopra lo scrigno dell'oro sul fondo dell'oceano: si stuzzicherà i denti tranquillo, mentre tutt'intorno ci saranno, sparsi, gli scheletri dei personaggi del film. Perché è proprio così: vince il mostro".
(Roger Corman. Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro. Lindau, 1998)
Mariana aveva vissuto nella villa ed aveva odiato gli alti pini per quella che le era sembrata un'eternità, quando scoprì il pannello segreto nel pannello di controllo principale della casa.
Il pannello segreto era semplicemente una stretta striscia di alluminio... aveva pensato che ci sarebbe stato posto per altri interruttori, se mai ne avessero avuto bisogno, maledetto quel pensiero!... tra i controlli dell'aria condizionata e i controlli gravitazionali. Al di sopra degli interruttori per la televisione tridimensionale, ma sotto quelli per il cuoco e le cameriere robot.
Jonathan le aveva detto di non scherzare con il pannello principale di controllo mentre era in città, perché avrebbe fatto saltare tutto quanto c'era di elettrico, cosicché quando il pannello segreto comparve sotto le sue dita in continua ricerca e cadde sul solido pavimento di pietra del patio con un twing musicale, la sua prima reazione fu la paura.
Poi si accorse che era solo una piccola striscia oblunga di alluminio polito ad essere caduta, e che nello spazio che aveva coperto c'era una colonna di sei piccoli interruttori. Solo quello superiore era identificato. Piccole lettere luminescenti accanto dicevano ALBERI; ed era tutto.
Quando Jonathan tornò a casa dalla città, quella sera lei raccolse tutto il suo coraggio e gliene parlò. Lui non rimase particolarmente seccato né impressionato.
"Naturalmente c'è un interruttore per gli alberi", la informò impassibile, indicando al robot cameriere di tagliargli la bistecca. "Non sapevi che erano radio alberi? Non volevo certo aspettare venticinque anni che crescessero, e poi non avrebbero potuto in ogni modo crescere su questo terreno roccioso. Una stazione cittadina trasmette un albero di pino principale e noi ci sintonizziamo e li proiettiamo intorno a casa. E' una cosa volgare, ma conveniente".
Dopo un po' lei chiese timidamente: "Jonathan, i radio pini hanno una consistenza spettrale mentre ci passi vicino in auto?"
"Naturalmente! Sono solidi come questa casa, e come la roccia che ci sta sotto... all'occhio ed anche al tatto. Sarebbe anche possibile arrampicarcisi sopra. Se tu ti fossi mai spinta fuori, sapresti benissimo queste cose. La stazione cittadina trasmette impulsi di materia alternata a sessanta cicli il secondo. La struttura scientifica è sopra la tua testa".
Lei azzardò un'altra domanda: "Perché hanno coperto l'interruttore degli alberi?".
"Perché tu non andassi a giocherellarci... esattamente come i controlli di sintonia della televisione. E in modo che tu non ti mettessi in testa di cominciare a cambiare gli alberi. Non mi farebbe affatto un piacere particolare, lascia che te lo dica, tornare a casa e trovare un giorno querce e l'altro castagni. Mi piace la solidità e mi piacciono i pini". Guardò gli alberi fori dalla finestra del soggiorno e grugnì di soddisfazione.
Lei aveva avuto intenzione di dirgli quanto odiava i pini, ma il suo discorso l'aveva scoraggiata e così lasciò cadere l'argomento.
Intorno a mezzogiorno, il giorno seguente, però, andò al pannello segreto e cancellò gli alberi di pino, guardandosi poi rapidamente intorno per vedere che cosa succedeva. Sulle prime non successe nulla e stava cominciando a pensare che Jonathan avesse di nuovo torto, come gli capitava spessissimo, senza però mai ammetterlo, ma poi i pini cominciarono a tremolare e scintille di luce verde pallido iniziarono a crepitare e poi si dissolsero e scomparvero, lasciandosi dietro solo un singolo punto di luce intollerabilmente luminoso... come accade quando si spegne la televisione. Quella stella torreggiò immobile per quello che sembrò un lungo periodo, poi si allontanò puntando verso l'orizzonte.
Adesso che i pini erano scomparsi Mariana poteva vedere il vero panorama. Era costituito da roccia grigia e piatta, che si estendeva per miglia interminabili, esattamente identica alla roccia sulla quale era stabilita la casa, e che formava il pavimento del patio. Lo scenario era identico in tutte le direzioni. Una strada nera a due corsie lo attraversava dritta... e nient'altro.
La visione non le piacque quasi subito... era paurosamente solitaria e deprimente. Spostò la gravitazione sul normale lunare e danzò sognante per la stanza, fluttuando al di sopra delle librerie che arrivavano a mezza stanza ed al grande piano e facendo danzare con lei perfino le robot cameriere; ma la cosa non la rallegrò. Alle due, circa, andò a riaccendere gli alberi di pino, come aveva comunque intenzione di fare prima che Jonathan tornasse a casa e si infuriasse.
Però, scoprì che c'era stato un cambiamento nella colonna dei sei piccoli interruttori. L'interruttore ALBERI non portava più vicino la dicitura luminosa. Ricordava che era stato quello superiore, ma adesso quello superiore rifiutava di muoversi. Cercò di costringerlo a spostarsi da "off" a "on", ma senza riuscirci.
Per tutto il resto del pomeriggio rimase seduta sullo scalino di fronte alla porta di casa, fissando la strada nera a due corsie. Non comparve in vista mai un'auto né una persona fino a quando comparve il veicolo brunito di Jonathan; sulle prime sembrava sospeso immobile in lontananza, e poi sembrava muoversi come un insetto microscopico, anche se lei sapeva che stava guidando alla velocità massima... era uno dei motivi per cui non sarebbe mai salita in auto con lui.
Jonathan non era furioso come lei aveva temuto. "La tua maledetta mania di giocare con le cose serie", disse laconico. "Adesso dovremo chiamare un uomo qui. Maledizione, odio cenare senza avere davanti agli occhi altro che roccia! E' già abbastanza brutto doverci guidare in mezzo due volte al giorno".
Lei gli chiese esitando come mai vivessero in una zona così deserta, ed in assenza di vicini.
"Be', tu volevi vivere fuori mano", le disse lui: "Non l'avresti mai saputo se non avessi spento gli alberi".
"C'è un'altra cosa con la quale ti devo seccare, Jonathan", disse lei. "Adesso il secondo interruttore... quello appena sotto... ha accanto un nome luminoso. Dice solo CASA. E' acceso... non l'ho toccato! Pensi che...".
"Voglio dargli un'occhiata", disse, alzandosi dal divano e posando, con un gesto secco, il suo bicchiere di martini-on-the-rock con tanta forza da far tremolare il vassoio tenuto dal robot cameriere. "Ho comprato questa casa come solida, ma ci sono anche delle truffe in giro. Ordinariamente direi che il suo stile è unico, ma potrebbero avermi semplicemente rifilato un lavoro proveniente da qualche altro pianeta o sistema solare. Sarebbe un bello scherzo se io e gli altri cinquanta miei colleghi fossimo stati sparsi in giro in case identiche, ognuno convinto che la sua fosse unica!".
"Ma se la casa è costruita sulla roccia è...".
"La cosa renderebbe ancora più facile per loro ingannare l'acquirente, coniglietta ingenua!".
Raggiunsero il pannello di controllo principale. "Ecco". disse lei rassegnata, allungando un dito... e spense l'interruttore CASA.
Per un momento non successe nulla, poi una foschia bianca percorse il soffitto, le pareti e l'arredamento che cominciò a ondeggiare e ribollire come lava fredda, e poi si ritrovarono soli su un tavolo di roccia grosso come tre campi da tennis. Anche il pannello principale di controllo era scomparso. La sola cose che rimaneva era una striscia sottile che usciva dalla pietra grigia ai loro piedi e portava in cima, come una specie di frutto meccanico, una piastrina con sei interruttori... quello, ed una stella intollerabilmente luminosa che torreggiava in aria, dove c'era stata la camera da letto.
Mariana mosse freneticamente l'interruttore CASA, ma adesso la dicitura era scomparsa e si era incastrato sulla posizione "off", anche se lei cercava di smuoverlo con tutta la sua forza.
La stella sospesa accelerò come un proiettile incendiario, ma il suo bagliore le mostrò il volto di Jonathan contorto dalla furia. Sollevò le mani come clave.
"Tu, piccola idiota!" urlò, avvicinandosi a lei.
"No, Jonathan, no!" urlò lei, indietreggiando, ma lui continuava ad avvicinarsi.
Si rese conto che il blocco di interruttori si era staccato, finendole in mano. Il terzo interruttore aveva adesso un'etichetta luminosa: JONATHAN. Lo girò.
Mentre le dita di lui cominciavano ad affondarle sulle spalle nude sembrarono diventare gomma sciolta, poi aria. Il suo volto ed il vestito di flanella grigia diventarono iridescenti, come uno spettro multicolore, poi si fusero e scomparvero. La sua stella, più piccola di quella della casa ma molto più vicina, le passò accanto agli occhi. Quando lei li riaprì non rimaneva nulla della stella di Jonathan tranne un'immagine fantasma scura simile ad una pallina da tennis nera.
Era sola su una pianura infinita di roccia grigia sotto il cielo sereno, trapunto di stelle.
Il quarto interruttore portava la dicitura: STELLE.
Era quasi alba secondo il suo orologio da polso dal quadrante al radio e lei era sconvolta, quando infine decise di spegnere le stelle. Non voleva farlo... nel loro movimento lento attraverso il cielo erano l'ultimo segno di realtà ordinata... ma le sembrava l'unica mossa che le rimaneva.
Si chiese cosa avrebbe detto il quinto interruttore. ROCCE? ARIA? Oppure...?
Spense le stelle.
La Via Lattea, inarcata in tutta la sua gloria intollerabile, cominciò a dissolversi, le sue stelle componenti sembravano goccioline che evaporavano. Presto ne rimase una sola, ancora più luminosa di Sirio o Venere... fino a quando non si allontanò, dissolvendosi, e perdendosi nell'infinito.
Il quinto interruttore diceva DOTTORE e non era sull'"on" ma sull'"off".
Un terrore inesplicabile si impadronì di Mariana. Non voleva neanche toccare il quinto interruttore. Posò sulla roccia il blocco di interruttori e si allontanò.
Ma non osava avanzare troppo nell'oscurità senza stelle. Si accovacciò per terra ed aspettò l'alba. Di tanto in tanto guardava il quadrante dell'orologio ed il bagliore fioco del blocco di interruttori ad una dozzina di metri di distanza.
Il tempo sembrava diventare sempre più freddo.
Lesse l'ora indicata dal suo quadrante. L'alba era già passata da due ore. Ricordava che al liceo le era stato insegnato che il sole non era che una stella come le altre.
Tornò indietro, e si sedette accanto al blocco di interruttori e lo raccolse con un brivido, azionando il quinto interruttore.
La roccia divenne morbida ed accogliente sotto di lei e accolse le sue gambe diventando lentamente bianca.
Era seduta in un letto d'ospedale in una piccola stanzetta blu, con una tappezzeria a strisce bianche.
Una voce dolce e meccanica usciva dalla parete, dicendo: "Avete interrotto la terapia di soddisfazione dei desideri per vostra decisione. Se adesso riconoscete la vostra condizione di grave depressione e avete intenzione di accettare aiuto, il dottore verrà da voi. Altrimenti, siete libera di far ritorno alla terapia di soddisfazione dei desideri e portarla fino alla conclusione ultima".
Mariana abbassò gli occhi. Aveva ancora il blocco di interruttori in mano ed il quinto interruttore portava ancora l'etichetta DOTTORE.
La parete disse: "Deduco dal vostro silenzio che avete intenzione di accettare la cura. Il dottore verrà immediatamente da voi".
Il terrore inesplicabile ritornò in Mariana con un'intensità ossessionante.
Spense il dottore.
Si trovava di nuovo nell'oscurità priva di stelle. Le rocce erano diventate molto più fredde. Sentiva dei cristalli ghiacciati caderle sul volto... neve.
Alzò il blocco di interruttori e vide, con sollievo estremo, che accanto al sesto e ultimo interruttore c'era scritto, in piccole lettere splendenti: MARIANA.