Azzurra visione del profondo perso in altezza, mescidarsi di mare e cielo in luminosa foschìa. Il giorno è di primavera, l'ora del mattino.
Solo cielo e mare: enormità d'azzurro... Dinanzi, le increspature ghermiscono un'argentea luce, turbinano serti di spuma. Ma poco più oltre non si coglie alcun moto, null'altro che non sia colore: pallido e tiepido azzurro d'acqua che si dilata sino a fondersi nell'azzurro dell'aria. Non c'è orizzonte: solo distanza che si libra nello spazio, concavità infinita che ti si scava innanzi e immensa ti sovrasta ad arco, mentre l'altezza fa più intenso il colore. Ma lontano, a metà via dell'azzurro, è sospesa una vaga, vaga visione di turrita sede dagli alti tetti ricurvi come corni di luna: velati alcuni d'antico e strano splendore, schiariti da un sole carezzevole come la memoria.
Quel che ho cercato di descrivere è un kakemono - voglio dire una pittura giapponese su seta - appeso alla parete della mia alcova; ha come titolo SHINKIRO, che vuol dire "Miraggio". Ma le sagome del miraggio sono inconfondibili. Quelli sono i portali scintillanti di Horai, la citta beata; e quelli sono i tetti lunati del palazzo del Re Drago; e da come sono dipinti (seppur miniati da un pennello giapponese d'oggi) s'indovina la maniera cinese, duemila e cento anni fa...
Nei libri cinesi dell'epoca si parla molto di questo luogo: né morte né dolore albergano in Horai, e neppure inverno. I fiori non vi appassiscono, né vi cadono i pomi; e se l'uomo assaggia quei frutti anche solo una volta, non sentirà più fame o sete. A Horai crescono le piante magiche di So-rin-ski, e Ban-kon-to, che hanno il potere di guarire da ogni male; e vi cresce l'erba magica di Yo-shin-shi, che ridesta i morti; e a irrorare quell'erba sgorga un'acqua fatata di cui basta un sorso a conferire giovinezza eterna. La gente di Horai mangia il riso in minuscole ciotole; ma il riso non vi scema mai - per quanto se ne mangi - finché chi mangia non si senta sazio. E la gente di Horai beve vino da minuscole coppe; ma nessuno riesce a vuotarle - per quanto beva come un otre - finché non lo sovrasti torpida ebrezza.
Questa e altre leggende risalgono al tempo della dinastia Shin. Ma non si deve credere che la gente che ha scritto tali leggende abbia visto Horai, seppure in un miraggio. Perché non esistono frutti che diano sazietà perenne a chi li morda; né magiche erbe che richiamino in vita i morti; né sorgenti d'acqua fatata; né ciotole che non manchino di riso; né coppe che non manchino di vino. Non è vero che triboli e morte non abbiano accesso a Horai; né che mai vi spiri inverno. L'inverno di Horai è gelido e i suoi venti vi addentano la canna dell'osso; e la neve si accumula immensa sui tetti del Re Drago.
Eppure ci sono cose meravigliose a Horai; e la più splendida di tutte non trova menzione negli scrittori cinesi. Voglio dire l'atmosfera di Horai. E' un'atmosfera inconfondibile del luogo; e grazie ad essa la luce solare di Horai è più bianca che altrove - una luce lattiginosa che non abbacina - meravigliosamente tersa, eppure pastosa. Tale atmosfera non appartiene ad umana stagione: è di una antichità remota, ma così remota che mi sento spaurire appena cerco di divinarla; e non è mescolanza di azoto e di ossigeno. Non è composta d'aria affatto, ma di fantasmi: la sostanza di miliardi di miliardi di generazioni di anime, circonfuse in immane trasaprenza; anime di gente che pensava in modo del tutto differente dal nostro. Ogni qual volta un essere mortale aspira quell'atmosfera, irrora il proprio sangue del fremito di quegli spiriti; e costoro gli mutano nell'intimo i sensi - riplasmandone le nozioni di Spazio e di Tempo - così che costui altrimenti non veda che come quelli erano usi vedere, e senta come quelli sentivano, e pensi come quelli pensavano. Dolce come sonno è questo mutar dei sensi; e così tramite loro può venir descritto Horai: poiché a Horai non ha ricetto il Male, non invecchiano i cuori della gente. E per questa fanciullezza del cuore, gli abitanti di Horai sorridono dalla nascita sino alla morte - eccetto quando gli dèi mandano fra di loro il dolore: allora un velo copre i loro volti sinché il dolore s'allontana. La gente di Hoari si ama, e pone fede l'uno nell'altro, come se appartenessero a un'unica famiglia; e il discorrere delle donne è simile al canto degli uccelli, perché come le anime degli uccelli sono leggeri i loro cuori; e le maniche ondeggianti delle fanciulle intente ai giuochi sembrano il battito di ali soffici e ampie. A Horai non viene nascosto nulla se non l'affanno, perché non c'è ragione alcuna di vergogna; e nulla è posto sotto chiave, perché non può esserci furto; e notte e giorno non c'è chiavistello alle porte, perché non c'è da temer niente. E poiché gli abitanti di Horai sono fatati - ancorché mortali - tutte le cose a Horai, eccetto il palazzo del Re Drago, sono minute e strane e bizzarre; e questa gente fatata mangia davvero il riso in minuscole ciotole e beve il vino in minuscole coppe...
Molto di questa visione sembrerebbe dovuto all'inalare l'atmosfera di spiriti - ma non tutto. Perché l'incantesimo a cui i morti dan forma non è altro che il fascino di un Ideale, la malìa d'una antica speranza, e qualcosa di quella speranza ha trovato esaudimento in molti cuori - nell'umile bellezza d'animi a cui la vanità è ignota - nella dolcezza della donna.
I venti perfidi dell'occaso soffiano su Horai, e la magica atmosfera, ahimé! recede loro innanzi. Indugia ormai in pochi banchi, in strisce - quelle lunghe lucenti strisce di nubi che striano i paesaggi dei pittori giapponesi. Dietro a quei lembi di bruma elfica ti sarà dato di trovare Horai - ma non altrove... Ricorda che Horai si chiama anche Shinkiro, che vuol dire Miraggio - la visione dell'Intangibile. E la visione si dissolve - e non riapparirà mai più se non nei dipinti, nelle poesie, nei sogni.
(Lafcadio Hearn, Kwaidan. Storie di spettri giapponesi. Il Saggiatore, 1983)
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