martedì 31 dicembre 2013
domenica 29 dicembre 2013
La Buona Annata's Literary Supplement: Horai
Azzurra visione del profondo perso in altezza, mescidarsi di mare e cielo in luminosa foschìa. Il giorno è di primavera, l'ora del mattino.
Solo cielo e mare: enormità d'azzurro... Dinanzi, le increspature ghermiscono un'argentea luce, turbinano serti di spuma. Ma poco più oltre non si coglie alcun moto, null'altro che non sia colore: pallido e tiepido azzurro d'acqua che si dilata sino a fondersi nell'azzurro dell'aria. Non c'è orizzonte: solo distanza che si libra nello spazio, concavità infinita che ti si scava innanzi e immensa ti sovrasta ad arco, mentre l'altezza fa più intenso il colore. Ma lontano, a metà via dell'azzurro, è sospesa una vaga, vaga visione di turrita sede dagli alti tetti ricurvi come corni di luna: velati alcuni d'antico e strano splendore, schiariti da un sole carezzevole come la memoria.
Quel che ho cercato di descrivere è un kakemono - voglio dire una pittura giapponese su seta - appeso alla parete della mia alcova; ha come titolo SHINKIRO, che vuol dire "Miraggio". Ma le sagome del miraggio sono inconfondibili. Quelli sono i portali scintillanti di Horai, la citta beata; e quelli sono i tetti lunati del palazzo del Re Drago; e da come sono dipinti (seppur miniati da un pennello giapponese d'oggi) s'indovina la maniera cinese, duemila e cento anni fa...
Nei libri cinesi dell'epoca si parla molto di questo luogo: né morte né dolore albergano in Horai, e neppure inverno. I fiori non vi appassiscono, né vi cadono i pomi; e se l'uomo assaggia quei frutti anche solo una volta, non sentirà più fame o sete. A Horai crescono le piante magiche di So-rin-ski, e Ban-kon-to, che hanno il potere di guarire da ogni male; e vi cresce l'erba magica di Yo-shin-shi, che ridesta i morti; e a irrorare quell'erba sgorga un'acqua fatata di cui basta un sorso a conferire giovinezza eterna. La gente di Horai mangia il riso in minuscole ciotole; ma il riso non vi scema mai - per quanto se ne mangi - finché chi mangia non si senta sazio. E la gente di Horai beve vino da minuscole coppe; ma nessuno riesce a vuotarle - per quanto beva come un otre - finché non lo sovrasti torpida ebrezza.
Questa e altre leggende risalgono al tempo della dinastia Shin. Ma non si deve credere che la gente che ha scritto tali leggende abbia visto Horai, seppure in un miraggio. Perché non esistono frutti che diano sazietà perenne a chi li morda; né magiche erbe che richiamino in vita i morti; né sorgenti d'acqua fatata; né ciotole che non manchino di riso; né coppe che non manchino di vino. Non è vero che triboli e morte non abbiano accesso a Horai; né che mai vi spiri inverno. L'inverno di Horai è gelido e i suoi venti vi addentano la canna dell'osso; e la neve si accumula immensa sui tetti del Re Drago.
Eppure ci sono cose meravigliose a Horai; e la più splendida di tutte non trova menzione negli scrittori cinesi. Voglio dire l'atmosfera di Horai. E' un'atmosfera inconfondibile del luogo; e grazie ad essa la luce solare di Horai è più bianca che altrove - una luce lattiginosa che non abbacina - meravigliosamente tersa, eppure pastosa. Tale atmosfera non appartiene ad umana stagione: è di una antichità remota, ma così remota che mi sento spaurire appena cerco di divinarla; e non è mescolanza di azoto e di ossigeno. Non è composta d'aria affatto, ma di fantasmi: la sostanza di miliardi di miliardi di generazioni di anime, circonfuse in immane trasaprenza; anime di gente che pensava in modo del tutto differente dal nostro. Ogni qual volta un essere mortale aspira quell'atmosfera, irrora il proprio sangue del fremito di quegli spiriti; e costoro gli mutano nell'intimo i sensi - riplasmandone le nozioni di Spazio e di Tempo - così che costui altrimenti non veda che come quelli erano usi vedere, e senta come quelli sentivano, e pensi come quelli pensavano. Dolce come sonno è questo mutar dei sensi; e così tramite loro può venir descritto Horai: poiché a Horai non ha ricetto il Male, non invecchiano i cuori della gente. E per questa fanciullezza del cuore, gli abitanti di Horai sorridono dalla nascita sino alla morte - eccetto quando gli dèi mandano fra di loro il dolore: allora un velo copre i loro volti sinché il dolore s'allontana. La gente di Hoari si ama, e pone fede l'uno nell'altro, come se appartenessero a un'unica famiglia; e il discorrere delle donne è simile al canto degli uccelli, perché come le anime degli uccelli sono leggeri i loro cuori; e le maniche ondeggianti delle fanciulle intente ai giuochi sembrano il battito di ali soffici e ampie. A Horai non viene nascosto nulla se non l'affanno, perché non c'è ragione alcuna di vergogna; e nulla è posto sotto chiave, perché non può esserci furto; e notte e giorno non c'è chiavistello alle porte, perché non c'è da temer niente. E poiché gli abitanti di Horai sono fatati - ancorché mortali - tutte le cose a Horai, eccetto il palazzo del Re Drago, sono minute e strane e bizzarre; e questa gente fatata mangia davvero il riso in minuscole ciotole e beve il vino in minuscole coppe...
Molto di questa visione sembrerebbe dovuto all'inalare l'atmosfera di spiriti - ma non tutto. Perché l'incantesimo a cui i morti dan forma non è altro che il fascino di un Ideale, la malìa d'una antica speranza, e qualcosa di quella speranza ha trovato esaudimento in molti cuori - nell'umile bellezza d'animi a cui la vanità è ignota - nella dolcezza della donna.
I venti perfidi dell'occaso soffiano su Horai, e la magica atmosfera, ahimé! recede loro innanzi. Indugia ormai in pochi banchi, in strisce - quelle lunghe lucenti strisce di nubi che striano i paesaggi dei pittori giapponesi. Dietro a quei lembi di bruma elfica ti sarà dato di trovare Horai - ma non altrove... Ricorda che Horai si chiama anche Shinkiro, che vuol dire Miraggio - la visione dell'Intangibile. E la visione si dissolve - e non riapparirà mai più se non nei dipinti, nelle poesie, nei sogni.
(Lafcadio Hearn, Kwaidan. Storie di spettri giapponesi. Il Saggiatore, 1983)
sabato 28 dicembre 2013
Anatomy of a Poet
Colin Wilson ci ha laciati il 5 dicembre. La Buona Annata gli rende omaggio con una collaborazione tra lo scrittore inglese e gli In the Nursery risalente a vent'anni or sono. Anatomy of a Poet non è tanto un concept in senso stretto quanto un album a tema che va a toccare uno dei temi principali dell'opera di Wilson. Ma lasciamo la parola agli stessi gemelli Humberstone:
The idea was to represent and musically convey the often self-destructive nature of creative artists. Why is that authors, artists, poets and musicians seem to create their best work out of depression? Colin Wilson, who had been in occasional correspondence with the band, was asked to recite some of this work along with a number of pre-prepared tracks. However, on arriving at Wilson's Cornwall retreat, the author thought it better to recite some of his favourite Romantic period poetry, wich he felt better suited the music.
Colin Wilson può a buon diritto essere considerato un precursore della cultura industriale nella sua riflessione su una mutazione antropologica studiata nei suoi aspetti più aberranti. Ma se l'interesse per assassini seriali e psicopatologia lo accomuna a Throbbing Gristle e ricercatori coevi, la sua esplorazione parte da più lontano: da quella sorta di peste psichica che sembra cogliere alcuni tra i più dotati e sensibili artisti del diciannovesimo secolo e che assume proporzioni di massa in quello appena trascorso. Ma Colin Wilson ha fatto anche di più: ciò che ha chiamato Facoltà X è un invito al superamento del nichilismo e del facile cinismo, a una riscoperta delle possibilità latenti e inespresse dell'essere umano.
Bombed
Anatomy of a Poet
In Perpetuum
Motive
Hallucinations? (Dream World Mix)
Blue Lovers
Paper Desert
Byzantium
The Seventh Seal
The Golden Journey
Touched with Fire
Ritengo che a fare di Lovecraft, nello stesso tempo, un buon autore e un autore mediocre, sia il fatto che egli era uno scrittore ossessionato. E per questa ragione sono così poche le opere nella tradizione di Lovecraft che hanno raggiunto lo stesso livello di potenza immaginativa. August Derleth e Robert Bloch sanno rendere in modo eccellente lo stile e l'atmosfera di Arkham, ma ciò non esprime il loro vero centro di gravità come scrittori. Bloch è veramente se stesso negli orrori fin troppo possibili di Psycho, con le sue stanze di motel e l'atmosfera di malvagità naturale, simile a quella che potete trovare nelle pagine di una rivista tipo True Detective. In quanto a Derleth, le sue cose migliori appartengono ad una sfera ben lontana dall'orrore e dalla fantasia: i libri sulla vita quotidiana di Sac Prairie, sul mutare delle stagioni, gli animali e gli uccelli. (La sua opera mi ricorda, sotto molti punti di vista, quella di un romanziere inglese troppo sottovalutato, Henry Williamson, autore di Tarka the Otter, e quella di uno strano mistico della natura, Richard Jeffries). Derleth appartiene alla grande tradizione americana di Thoreau e di Withman... e in una certa misura, anche a quella di Sinclair Lewis.
Questo spiega perché Lovecraft è rimasto unico, nonostante il gran numero di autori che si sono lasciati affascinare dal suo mondo mitico e dal suo stile. Egli creò i Miti di Cthulhu per una necessità interiore, come per necessità interiore Blake creò i suoi libri profetici.
Tutto ciò equivale ad ammettere che Lovecraft aveva del genio. Ed è questo, secondo me, che fa di lui un personaggio sostanzialmente tragico: inoltre, lo collega alla mia tesi dell' "Estraneo", ed a questo romanzo.
Il mio punto di partenza, in The Outsider, era che, intorno all'anno 1800, si era prodotto uno strano cambiamento nella razza umana... o almeno in una sua parte importante. Comparve allora all'improvviso un nuovo tipo d'uomo: il romantico. Ai tempi degli antichi greci, il romantico sarebbe stato considerato un individuo malvagio e pericoloso. Un istinto profondo, infatti, gli dice che l'uomo non è un semplice insetto, una "creatura", ma è, in un senso importante, un dio. I greci chiamavano hybris questo peccato, che veniva punito dalla divinità con la follia e la morte. Ecco perché la sorte di tanti romantici avrebbe rafforzato nei greci la convinzione che costoro erano malvagi e pericolosi. Se ci pensate bene, l'elenco degli uomini geniali morti pazzi, o in incidenti, o di tubercolosi, o suicidi, è impressionante e agghiacciante. Shelley, Keats, Poe, Beddoes, Holderlin, Hoffmann, Schiller, Kleist, Nietzsche, Van Gogh, Rimbaud, Verlaine, Lautréamont, Dowson, Johnson, Francis Thomson... l'elenco potrebbe continuare per pagine e pagine. E sarebbero soltanto i più famosi. E tutti gli aspiranti poeti ed artisti che non raggiunsero mai la notorietà e morirono in silenzio in qualche lurida stanza ammobiliata?
Ora, tutti questi romantici hanno una cosa in comune. Sono come i marinai greci che udivano il canto delle sirene, e preferivano gettarsi tra i flutti piuttosto che tornare al mondo scialbo dell'esistenza quotidiana. Oppure come il bimbo zoppo del Piffero magico, il quale racconta che, quando il Pifferaio suonava, sentiva parlare di "una terra felice", dove "tutto era strano e nuovo"; e adesso il bimbo zoppo trascorre il resto della sua esistenza piangendo quella visione perduta. Moltissimi sembrano accontentarsi di trascinare un'esistenza banale; i romantici avevano intravisto qualcosa al di là della banalità. Tutto il romanticismo si può riassumere nella grandiosa battuta di Axel (nel dramma di Villiers de l'Isle Adam): "In quanto al vivere, provvederanno per noi i nostri servitori".
C'è un grande romanzo dello scrittore inglese L.H. Myers (morto suicida negli Anni Quaranta), intitolato The Near and the Far. Il primo capitolo simboleggia in modo perfetto l'aspirazione romantica. E' ambientato nell'India del secolo XVI, e si apre presentando il giovane principe Jali il quale, dall'alto di un palazzo, contempla il deserto attraversato quel giorno. Egli guarda il magnifico tramonto e riflette che vi sono due deserti: il primo è uno splendore per l'occhio; l'altro un tormento per i piedi, quando lo si percorre. E i due deserti non si uniscono mai: se Jali esce dal palazzo per cercare il deserto tanto bello per l'occhio, troverà invece l'altro, quello che è uno strazio percorrere. Il vicino e il lontano... ecco il problema fondamentale dei romantici. Come disse Yeats:
E' una storia che continua a ripetersi. Conosco l'autore di uno dei più bei romanzi del sovrannaturale che siano mai stati scritti, E.H. Visiak... un vecchio ormai vicino alla novantina. Il suo Medusa è un romanzo dotato di tale suggestione che continua ad ossessionare la mente per anni ed anni, dopo che lo si è letto. Alcune settimane fa, Visiak mi mandò in lettura il manoscritto della sua autobiografia. Non ne avevo letto più di dieci pagine quando pensai: "Sì, è sempre la stessa cosa..." La strana maledizione del secolo XIX. Visiak era stato un bambino timido e tranquillo, figlio di genitori appartenenti al ceto medio, e il mondo della sua infanzia era stato un mondo incantato. Poi crebbe, dovette mettersi a lavorare per vivere, e "le imposte della prigione cominciarono a chiudersi". Visiak trascorse i successivi vent'anni della sua vita nell'ufficio telegrafico d'una agenzia d'informazioni, non molto felice, conducendo un'esistenza solitaria e libresca. Da bambino, aveva trascorso i momenti più felici in riva al mare. Perciò cominciò a scrivere poesie sui pirati e su isole sconosciute, e poi fu la volta del suo primo romanzo, The Haunted Island; quindi, dopo molti anni, del suo capolavoro, Medusa. Adesso, superati gli ottant'anni, è un vecchio la cui esistenza non è stata straordinariamente felice, sebbene abbia avuto qualche visione ed alcune esperienze eccezionali. E' un uomo stregato e ossessionato, una delle tante vittime del canto delle sirene.
Il miglior amico di Visiak era lo scrittore David Lindasy, il cui Voyage to Arcturus, secondo me, è il romanzo più grande del XX secolo. La storia di Lindsay era molto simile a quella di Visiak... una visione grandiosa, espressa in Voyage to Arcturus e The Haunted Woman. Ma i suoi contemporanei non erano pronti per la sua opera: ed egli visse nella miseria e nell'oblio in Cornovaglia, e morì prima di arrivare a cinquant'anni.
Lindasy possedeva un genio magniloquente; il genio di Visiak ha invece un carattere più dolce e romatico. Eppure, entrambi gli scrittori sono stati vittime di questa "tragedia dell'estraneo", tanto comune nel nostro tempo: uomini la cui visione li rende inadatti alla lotta quotidiana per l'esistenza, ma il cui genio non ha un carattere "commerciale".
Questi estranei vivono da eremiti nelle città moderne. Se sono fortunati - come Kierkegaard - hanno una rendita, e possono scrivere in pace i loro libri strani e contemplativi. Se non hanno questa fortuna - come Lovecraft - la loro sorte è la più dolorosa del mondo.
Nulla di ciò che troppo amiamo
è percettibile al tocco.
E' per questo che i romantici giudicano così squallido e sgradevole il mondo della realtà. Alcuni lo odiano al punto che la loro opera diviene un peana blasfemo, come quella di De Sade o di Lautréamont.E' una storia che continua a ripetersi. Conosco l'autore di uno dei più bei romanzi del sovrannaturale che siano mai stati scritti, E.H. Visiak... un vecchio ormai vicino alla novantina. Il suo Medusa è un romanzo dotato di tale suggestione che continua ad ossessionare la mente per anni ed anni, dopo che lo si è letto. Alcune settimane fa, Visiak mi mandò in lettura il manoscritto della sua autobiografia. Non ne avevo letto più di dieci pagine quando pensai: "Sì, è sempre la stessa cosa..." La strana maledizione del secolo XIX. Visiak era stato un bambino timido e tranquillo, figlio di genitori appartenenti al ceto medio, e il mondo della sua infanzia era stato un mondo incantato. Poi crebbe, dovette mettersi a lavorare per vivere, e "le imposte della prigione cominciarono a chiudersi". Visiak trascorse i successivi vent'anni della sua vita nell'ufficio telegrafico d'una agenzia d'informazioni, non molto felice, conducendo un'esistenza solitaria e libresca. Da bambino, aveva trascorso i momenti più felici in riva al mare. Perciò cominciò a scrivere poesie sui pirati e su isole sconosciute, e poi fu la volta del suo primo romanzo, The Haunted Island; quindi, dopo molti anni, del suo capolavoro, Medusa. Adesso, superati gli ottant'anni, è un vecchio la cui esistenza non è stata straordinariamente felice, sebbene abbia avuto qualche visione ed alcune esperienze eccezionali. E' un uomo stregato e ossessionato, una delle tante vittime del canto delle sirene.
Il miglior amico di Visiak era lo scrittore David Lindasy, il cui Voyage to Arcturus, secondo me, è il romanzo più grande del XX secolo. La storia di Lindsay era molto simile a quella di Visiak... una visione grandiosa, espressa in Voyage to Arcturus e The Haunted Woman. Ma i suoi contemporanei non erano pronti per la sua opera: ed egli visse nella miseria e nell'oblio in Cornovaglia, e morì prima di arrivare a cinquant'anni.
Lindasy possedeva un genio magniloquente; il genio di Visiak ha invece un carattere più dolce e romatico. Eppure, entrambi gli scrittori sono stati vittime di questa "tragedia dell'estraneo", tanto comune nel nostro tempo: uomini la cui visione li rende inadatti alla lotta quotidiana per l'esistenza, ma il cui genio non ha un carattere "commerciale".
Questi estranei vivono da eremiti nelle città moderne. Se sono fortunati - come Kierkegaard - hanno una rendita, e possono scrivere in pace i loro libri strani e contemplativi. Se non hanno questa fortuna - come Lovecraft - la loro sorte è la più dolorosa del mondo.
(Colin Wilson. I parassiti della mente. Fanucci, 1977)
martedì 24 dicembre 2013
lunedì 23 dicembre 2013
La Buona Annata's Literary Supplement: La notte di Natale a Roma
Svedesi, norvegesi e danesi: quanto più sono lontani dal loro paese, tanto più forte canta il loro cuore quando si incontrano.
"Noi siamo un sol popolo e ci chiamiamo Scandinavi!"
Quando nel 1833 vivevo a Roma, le tre nazioni decisero di celebrare allegramente il Natale tutti insieme, come una famiglia. Siccome però i canti e l'allegria mal si accordano con la solennità romana della nascita del Redentore, non osammo uscire, quella sera, a folleggiare per le strade della città; tuttavia, non sembrandoci neanche giusto rinunciare al nostro piacere - e del resto, quale città al mondo è più tollerante di Roma! - ci ritirammo in una bella sede fuori porta, messa a nostra disposizione. Era una grande casa a Villa Borghese, sita nel bel mezzo della pineta accanto al moderno anfiteatro. Addobbammo la grande sala con serti e ghirlande, i fiori li cogliemmo nel giardino della casa. L'aria tiepida e mite di quel Natale era simile a un giorno di mezza estate su da noi.
Non poteva mancare un albero di Natale, ma non un albero di Natale fatto con un vero abete come si fa nel nord, che rappresentava qui un tesoro troppo caro; dovevamo accontentarci, come ci suggerì qualcuno, di due alberi di aranci tagliati alle radici e carichi di frutti, ma non di frutti finti, legati ai rami con lo spago, oh! no, si trattava di vere arance cresciute su quei rami.
Eravamo una cinquantina di scandinavi tra cui sette signore che si cinsero il capo con ghirlande di fresche roselline, mentre noi uomini ci agghindammo con semplici serti di foglie d'edera. Le tre nazioni avevano fatto una colletta per comprare i regali che andavano estratti a sorte con la lotteria; il dono più bello era una coppa d'argento con su scritto "Natale romano 1833", questo fu il regalo delle tre nazioni unite e a chi toccò? Il fortunato fui proprio io.
Verso mezzanotte i più anziani della compagnia si congedarono per tornare a Roma; Bystrom e Thorvaldsen erano tra questi ed io li accompagnai.
La porta della città era chiusa e per poter entrare ci era stato detto di battere forte tre colpi col battente e di gridare: "Gli scandinavi!"
Mi venne in mente Kilian, il personaggio di una commedia di Holberg, che bussa alla porta di Troia; afferrai il battente, diedi il segnale convenuto, dei tre colpi, e urlai la parola d'ordine: "Gli scandinavi!". Nella porta si aprì una porticina e uno dietro l'altro entrammo furtivi e silenziosi nella più grande città del mondo.
Fu un Natale di allegria, la notte era calda e mite, simile a una sera d'estate nel nord.
Ed ora, la stessa sera, nell'anno 1840. Nessuno aveva pensato ad organizzare la festa natalizia! Ciascuno se ne stava a casa sua. Faceva freddo. Il fuoco del camino non voleva scaldare la mia stanza.
I miei pensieri volarono lontano, volarono su al nord.
Ora, mi sussurrarono, i danesi hanno acceso l'albero di Natale con centinaia di candeline colorate, i bambini esultanti di dolcissima gioia! Ora sono tutti seduti intorno al tavolo, cantano una canzone e bevono alla salute degli amici lontani. C'è grande allegria in città, c'è allegria in campagna e negli antichi manieri. I corridoi sono addobbati con candele e rami di abete. Lungo le scale hanno srotolato i più bei tappeti e i camerieri con indosso l'uniforme della festa, saltano indaffarati di qua e di là, la musica comincia e il corteo si snoda verso la grande sala da ballo! Oh sì, il Natale è una festa gioiosa nei paesi del nord.
Abbandonai la mia cameretta solitaria! La folla affluiva alla chiesa di Santa Maria Maggiore.
All'interno poche lampade ardevano ancora. Uomini, donne e bambini arrivati dalla Campagna e dai monti erano seduti o distesi sui gradini delle varie cappelle e alla base degli altari nelle navate laterali. In mezzo a questa povera gente qualcuno si era addormentato, altri dicevano il rosario.
Poi furono accese le candele. Tutta la chiesa sfavillò di porpora e d'oro, l'incenso riempì l'aria del suo profumo, la musica si diffuse nello spazio, i canti annunciarono "un redentore è nato, alleluia". I vecchi cardinali percorsero le navate della chiesa portando il presepe sulle spalle e i fedeli lo videro avvolto da un'aureola più luminosa della luce di mille candele. Era come se i pastori del presepio cantassero e i suoi angeli cantassero; allora pace e consolazione scesero anche nel cuore degli uomini.
(Hans Christian Andersen. Il bazar di un poeta. Biblioteca del Vascello, 1991)
domenica 22 dicembre 2013
La Buona Annata's Literary Supplement: Il mio Natale nel Galles
Ogni Natale era così uguale all'altro, in quegli anni dietro l'angolo di quella cittadina di mare ora priva di qualsiasi rumore salvo quello di voci lontane che parlano e che a volte risento un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordarmi se è nevicato per sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se è nevicato per dodici notti quando ne avevo sei.
Tutti i Natali rotolano giù verso il mare dalla doppia lingua, come una luna fredda e impetuosa che si precipita per quel cielo che era la nostra strada; e si fermano sul bordo ghiacciato delle onde che congelano i pesci, e io affondo le mani nella neve e tiro fuori quello che trovo. La mia mano si immerge in quella palla di feste bianca come la lana con la lingua a campana e si ferma sul bordo del mare che canta caròle, e affiorano la signora Prothero e i pompieri.
Era il pomeriggio delle vigilia di Natale, e io mi trovavo nel giardino della signora Prothero che aspettavo gatti con suo figlio Jim. Stava nevicando. Nevicava sempre a Natale.
Dicembre, nella mia memoria, è bianco come la Lapponia, solo che non c'erano renne. Ma c'erano gatti. Pazienti, gelati e insensibili, le mani protette da calzerotti, aspettavamo di prendere i gatti a palle di neve. Lunghi e flessuosi come giaguari, con dei baffi orribili, soffianti e miagolanti, sgattaiolavano bassi sui muretti bianchi dei giardini e i cacciatori dagli occhi di lince, Jim e io, cacciatori della baia dell'Hudson - berretti di pelo e mocassini ai piedi - da dietro via Mumbles, scagliavamo le nostre mortali palle di neve al verde dei loro occhi.
Saggi, i gatti non si facevano vedere. Noi eravamo così immobili e silenziosi, franchi tiratori artici con i piedi calzati in pellicce nel silenzio ovattato delle nevi eterne - eterne da mercoledì - che non sentimmo nemmeno il primo richiamo della signora Prothero dal suo igloo in fondo al giardino. Oppure, se l'avevamo sentito, per noi poteva solo essere il lontano richiamo del nostro nemico e preda, il gatto polare dei vicini. Ma ben presto la voce si fece più forte.
"Al fuoco!", gridava la signora Prothero, suonando il gong della cena.
E ci mettemmo a correre giù per il giardino, verso la casa con le braccia cariche di palle di neve; e effettivamente, un gran fumo stava uscendo dalla sala da pranzo e il gong stava rintronando e la signora Prothero annunciava rovine come un banditore a Pompei. Tutto questo era meglio dei gatti del Galles in fila indiana su un muro. Ci precipitammo in casa con tutte le palle di neve e ci fermammo davanti alla porta aperta sulla stanza piena di fumo. Altroché se bruciava qualcosa; forse era il signor Prothero che si faceva sempre lì un sonnellino dopo pranzo con un giornale aperto che gli nascondeva la faccia. Ma era in piedi al centro della stanza che diceva: "Un bel Natale davvero!", e schiaffeggiava il fumo con una pantofola.
"Chiama i pompieri!", gridò la signora Prothero mentre continuava a suonare il gong.
"Non ci saranno", disse il signor Prothero, "è Natale."
Fuoco non se ne vedeva, solo nuvole di fumo con al centro il signor Prothero che muoveva la pantofola come se stesse dirigendo un'orchestra.
"Fate qualcosa", disse.
E noi buttammo tutte le nostre palle di neve nel fumo, mancando, credo, il signor Prothero.
Poi corremmo fuori verso la cabina telefonica.
"Chiamiamo anche la polizia", disse Jim.
"E un'ambulanza."
"E Ernie Jenkins, a lui piacciono i fuochi."
Ma telefonammo solo ai vigili del fuoco, e dopo poco arrivò il carro con la pompa, e tre uomini alti coi caschi portarono la pompa in casa e il signor Prothero fece appena in tempo a uscire dalla stanza prima che mettessero la pompa in funzione. Nessuno avrebbe potuto passare una vigilia di Natale più rumorosa. E quando i vigili del fuoco chiusero la pompa e stavano lì in piedi nella stanza bagnata e piena di fumo, la zia di Jim, la signorina Prothero, scese dal piano di sopra e venne a scrutarli. Jim e io stavamo aspettando, in silenzio, di sentire cosa avrebbe detto loro. Sapeva dire la frase giusta, sempre. Osservò i tre vigili del fuoco, alti e con i caschi luccicanti, in piedi tra il fumo, la cenere e le palle di neve che si scioglievano, e chiese: "Vorreste leggere qualcosa?"
"Al fuoco!", gridava la signora Prothero, suonando il gong della cena.
E ci mettemmo a correre giù per il giardino, verso la casa con le braccia cariche di palle di neve; e effettivamente, un gran fumo stava uscendo dalla sala da pranzo e il gong stava rintronando e la signora Prothero annunciava rovine come un banditore a Pompei. Tutto questo era meglio dei gatti del Galles in fila indiana su un muro. Ci precipitammo in casa con tutte le palle di neve e ci fermammo davanti alla porta aperta sulla stanza piena di fumo. Altroché se bruciava qualcosa; forse era il signor Prothero che si faceva sempre lì un sonnellino dopo pranzo con un giornale aperto che gli nascondeva la faccia. Ma era in piedi al centro della stanza che diceva: "Un bel Natale davvero!", e schiaffeggiava il fumo con una pantofola.
"Chiama i pompieri!", gridò la signora Prothero mentre continuava a suonare il gong.
"Non ci saranno", disse il signor Prothero, "è Natale."
Fuoco non se ne vedeva, solo nuvole di fumo con al centro il signor Prothero che muoveva la pantofola come se stesse dirigendo un'orchestra.
"Fate qualcosa", disse.
E noi buttammo tutte le nostre palle di neve nel fumo, mancando, credo, il signor Prothero.
Poi corremmo fuori verso la cabina telefonica.
"Chiamiamo anche la polizia", disse Jim.
"E un'ambulanza."
"E Ernie Jenkins, a lui piacciono i fuochi."
Ma telefonammo solo ai vigili del fuoco, e dopo poco arrivò il carro con la pompa, e tre uomini alti coi caschi portarono la pompa in casa e il signor Prothero fece appena in tempo a uscire dalla stanza prima che mettessero la pompa in funzione. Nessuno avrebbe potuto passare una vigilia di Natale più rumorosa. E quando i vigili del fuoco chiusero la pompa e stavano lì in piedi nella stanza bagnata e piena di fumo, la zia di Jim, la signorina Prothero, scese dal piano di sopra e venne a scrutarli. Jim e io stavamo aspettando, in silenzio, di sentire cosa avrebbe detto loro. Sapeva dire la frase giusta, sempre. Osservò i tre vigili del fuoco, alti e con i caschi luccicanti, in piedi tra il fumo, la cenere e le palle di neve che si scioglievano, e chiese: "Vorreste leggere qualcosa?"
(Dylan Thomas, Il mio Natale nel Galles. Emme edizioni, 1981)
sabato 21 dicembre 2013
lunedì 9 dicembre 2013
La Buona Annata's Literary Supplement: Breve catechismo del Benpensante (Albacin, 1959)
DOMANDA - Chi sono i Benpensanti?
RISPOSTA - Si chiamano Benpensanti coloro che hanno deciso una volta per tutte di non pensare con la propria testa, accettando un modulo di pseudo-pensiero comune dalle mani dei burocrati che gestiscono le cooperative e gli ammassi dei cervelli.
D. - A che cosa si riduce allora l'attività dei Benpensanti?
R. - Ad occuparsi esclusivamente di incrementare le proprie fortune e di affermare i propri privilegi nei confronti delle minoranze che pensano.
D. - Quanti sono i Benpensanti?
R. - Sono milioni.
D. - Come si distinguono?
R. - Si distinguono in due categorie: i Benpensanti onorari e i Benpensanti effettivi.
D. - Quali rapporti corrono tra le due categorie?
R. - Corrono rapporti da padrone a servitore. I Benpensanti onorari sono poche centinaia e assommano nelle loro mani la maggior parte del potere economico e politico della Nazione. I Benpensanti effettivi - milioni - sostengono la causa dei Benpensanti onorari con i mezzi che gli ordinamenti democratici mettono loro a disposizione, e principalmente con l'arma del voto. Gli interessi delle due categorie sono autentici, ma i Benpensanti effettivi non se ne rendono conto e sono i più zelanti collaboratori dei Benpensanti onorari nella caccia alle streghe in cui questi li sospingono in continuità valendosi delle catene di giornali e di periodici di cui dispongono, organi ufficiali degli ammassi dei cervelli.
D. - A quali principi si ispira l'azione dei Benpensanti?
R. - Sono principi che si possono condensare in un decalogo:
1) Non contentarti di ciò che hai.
2) Considera i benefici e i privilegi di cui godi come un tuo diritto naturale.
3) Vivi, ma non lasciar vivere chi ti dà fastidio.
4) Metti le tue imprese sotto la salvaguardia di una formidabile trinità: patria, religione, famiglia; e riempiti spesso la bocca con la parola patria, una bandiera che copre anche le mercanzie deteriorate.
5) Tieni i tuoi sottoposti a distanza e trattali con rigorosa severità, salvo in qualche occasione usare verso di loro una paternalistica condiscendenza.
6) Rifiuta perentoriamente di prestar fede alle sofferenze dei poveri e alla realtà della miseria; ed escludi che i minatori, gli operai degli altiforni e i braccianti pugliesi possano sentirsi qualche volta infelici.
7) Ascolta la messa tutte le domeniche e le altre feste comandate e confessati una volta l'anno, possibilmente nella settimana delle Palme, per ricominciare a peccare il lunedì di Pasqua.
8) Sii inesorabile per i peccati e gli errori degli altri.
9) Guarda con sospetto gli intellettuali; se un tuo conoscente esprime giudizi favorevoli per la distensione internazionale e la pace tra i popoli sottolinea con un sorrisetto ironico che si tratta di un sinistroide.
10) Escludi il libro dalla tua casa. Il libro è uno strumento del diavolo.
D. - Potrebbe compilare una lista di illustri Benpensanti del passato?
R. - Eccola: Sinone, Creonte, Menenio Agrippa, Ponzio Pilato, Vanni Fucci, Alessandro VI, Maramaldo, Torquemada, il duca d'Alba, Fouché, Landru, il sergente Batista, il generalissimo Franco.
D. - Conosce qualche definizione poetica del Benpensante?
R. - Conosco l'epigramma di un Anonimo Basco del secolo XVII, che trasportato nella lingua italiana suona così:
Il Benpensante è un uomo di giudizio
Che non litiga mai col Sant'Uffizio.
(Variante scoperta dal professor La Pera Colmar nella Biblioteca di Bilbao il 20 maggio 1896:
Il Benpensante schiva il precipizio
Sotto la protezion del Sant'Uffizio).
D. - Ha altro da aggiungere?
R. - No, per oggi la lezione di catechismo è terminata. Finis.
("Il Caffè" Politico e letterario. Antologia 1953-1977. A cura di Gaio Fratini. Lubrina, 1992)
sabato 7 dicembre 2013
Kevin Coyne, Peel Sessions
Torniamo a Kevin Coyne con una raccolta delle sue Peel Sessions, pubblicata nel 1990. Le registrazioni vanno dal 1973 al 1979, con l'unica eccezione di I Couldn't Love You del 1990. A Leopard never changes his Spots!
Marlene (1973)
Cheat me (1973)
Ey Up My Duck (1979)
The Miner's Song (1974)
Evil Island Home (1974)
Araby (1974)
Dance Of The Bourgeoisie (1974)
Do Not Shout At Me Father (1974)
Need Somebody (1974)
Poor Swine (1974)
Rivers of Blood (1978)
Lunatic (1978)
I Only Want To See You Smile (1978)
That's Rock'N'Roll (1978)
A Leopard Never Changes Its Spots (1979)
I Couldn't Love You (1990)
venerdì 6 dicembre 2013
La Buona Annata's Literary Supplement: L'Avvento sul Canale Dodici (Cyril M. Kornbluth)
Avvenne nel terzo quarto dell'anno fiscale che la Direzione della Riserva Federale aumentasse il tasso di sconto e il denaro fu scarso nel paese. E certi banchieri che sedevano a New York mandarono a Ben Graffis a Hollywood un messaggio che diceva: "Il denaro è scarso nel paese, così fai alzare il periscopio a Popi Panda e fagli lanciare tutti i siluri."
Allora Ben Graffis fece loro pervenire questo lamento:
"O voi banchieri, Popi Panda è come carne della mia carne e voi ne avete fatto un drago divoratore. Un tempo io ero soddisfatto del mio studio e dei miei animatori; allora noi facevamo dodici brevi Popi Panda l'anno. Maledetto il momento in cui chiesi un prestito a New York. Mi avete comandato di fare storie animate di normale lunghezza, e io ho obbedito, e quei film vanno in prima al Paramount per la massa beota e li ripresentiamo per gli allocchi anno dopo anno, senza fine. Mi avete comandato di filmare la natura e le sue meraviglie e io ho obbedito, e in sala-montaggio abbiamo diabolicamente tagliato e incollato i fotogrammi mescolando i negativi in modo che io e le mie cineprese siamo diventati i portatori di false testimonianze, e la gente guarda i miei documentari e dice: "Tiè, quelle bestie e quegli uccelli sono proprio come noi, ridono, corteggiano, giocano e si battono." Avete comandato che io diventassi un ciarlatano e perciò io ho costruito Popi Pandaland, dove la gente entra con i figli, il denaro e l'intelligenza, e da dove esce soltanto con i figli, borseggiata da mille macchine mangiasoldi. Anche a questo ho acconsentito. Avete comandato che Popi Panda facesse i suoi ammonimenti alla televisione ogni pomeriggio dalle cinque alle sei per i Popi Pandamici, e anche a questo ho acconsentito, sebbene Popi Panda sia come carne della mia carne.
Ma, o banchieri, non obbedirò mai a quest'ultimo ordine."
Allora i banchieri che sedevano a New York gli mandarono un altro messaggio che diceva: "Non importa, fai alzare il periscopio a Popi Panda e fagli lanciare tutti i siluri," e dissero: "Ricordati, pupo, le tue carte le giochiamo noi."
E Ben Graffis obbedì.
Chiamò a sé i suoi animatori e registi e operatori e sceneggiatori, e il suo cuore era gonfio ma egli si padroneggiò e disse:
"Fra di voi per scherzo vi chiamate lavacervelli perché è a causa della confusione che fate nelle teste dei fanciulli per cinque ore la settimana, che essi compreranno i prodotti dei nostri produttori. Voi avete avverato le profezie, perché non è forse scritto nel Libro dei Mercanti Spaziali che si avranno dei trust sferici? Quindi i Popi Pandamici sono legati al Giornalino di Popi Panda e il Giornalino di Popi Panda è legato a Popi Pandaland, e Popi Pandaland è legato ai Popi Pandamici. Avete domandato ai ragazzi delle Ricerche Motivazionali come potevamo inchiodare quei piccoli bastardi, ed essi ve lo hanno detto, e voi lo avete messo in pratica. Voi identificate il ragazzo cretino che guarda con il ragazzo intelligente che recita, offrite con Otto Clodd un'immagine del papà brontolone da prendere per il naso, fornite con Jack Whipple un fratello maggiore idealizzato per i ragazzi e una fantasia sessuale per le ragazzine più precoci. Voi leccate il sedere agli spettatori, dicendo loro che saranno i padroni del ventunesimo secolo, e non fate presente invece che quelli che in realtà saliranno al potere stanno facendo da bravi i loro compiti, e non guardano la televisione. Avete creato una liturgia con un inno d'apertura e una benedizione finale, e tutto sovrasta lo spirito di Popi Panda che consiglia ed esorta gli spettatori a comprare i prodotti dei nostri produttori.
E Ben Graffis sospirò un grosso sospiro e li guardò senza fissarli negli occhi, e disse loro: "Non sarebbe meglio che Popi Panda la piantasse di consigliare ed esortare? Non sarebbe meglio se comandasse come un dio?"
E gli animatori e i registi e gli operatori e gli sceneggiatori furono penosamente stupiti e si dissero l'un l'altro: "Questa è la maledetta fine, i banchieri che siedono a New York hanno perso una rotella." E un vecchio che era animatore disse tremante: "Capo, se avessi saputo che si doveva arrivare a questo, nel ventinove non avrei mai rubato per te l'idea di Popi Panda dalle vecchie illustrazioni di Pupo Winnie," e Ben Graffis lo licenziò.
Allora un altro, che era un regista, disse a Ben Graffis: "Capo, possiamo regolare la cosa con un paio di settimane di lavoro," e Ben Graffis si coprì il volto con le mani e disse: "Così sia."
E avvenne che il venerdì dopo le due settimane di lavoro, nel quarto d'ora conclusivo dei Popi Pandamici ci fu un filmato speciale, che combinava disegni animati e riprese dal vero, come se fossero la stessa cosa.
E nel filmato speciale Popi Panda apparve aureolato e i bravi ragazzi attori lo adoravano, e Otto Clodd inciampò mentre si inginocchiava, e Jack Whipple esortò con virile e sincera convinzione tutti i Popi Pandamici che stavano davanti al televisore, perché facessero altrettanto, e l'aureolato Popi Panda disse con il suo adorabile grugnito: "Popò-popò-popò."
E l'adorazione ascese da trentasette milioni di anime.
E avvenne che Ben Graffis tornasse al suo ufficio con gli animatori, i registi, gli operatori e gli sceneggiatori, dopo lo spettacolo, e dicesse loro: "Decisamente era una trasmissione numero uno," avviandosi al bar.
Allora uno che era regista si accorse di Chi sedeva dietro la scrivania che era la scrivania di Ben Graffis, e disse a Ben Graffis: "Capo, è una grossa trovata, ma come hanno fatto i ragazzi degli effetti speciali a ottenere l'aureola?"
E Ben Graffis fu dolorosamente stupito al vedere Chi sedeva dietro la sua scrivania, e tutti si affollarono attorno e fecero per scacciarLo, e allora Egli con il Suo adorabile grugnito disse: "Popò-popò-popò," ed essi scomparvero.
E alcuni impuri che si erano sottomessi si distolsero dai monitor e dissero increduli: "Santo dio, è terribile." E uno che era animatore di marionette si volse al suo impresario e disse: "Amico, se Graffis riesce a far partire questa roba siamo finiti." E in quella fu udita una gran voce venir di lontano, dicendo: "Popò-popò-popò," e così fu; e i giorni di Popi Panda durarono a lungo nel paese.
Filtrato per errori,
18 genn. 36 P. P.
Sinodo della Filtrazione e dell'Infiltrazione
O. Clodd, P. Pa.
J. Whipple, P. Pa.
(Dodici mondi. A cura di Frederik Pohl. Edizioni dello Scorpione, 1966)
lunedì 2 dicembre 2013
The River Sessions
Curiose sono le circostanze dell'ingresso di Maggie Bell nel mondo discografico. Narrano le cronache che Peter Grant, all'epoca in cui era manager degli Yardbirds, ebbe modo di assistere all'esibizione di un gruppo scozzese di rock blues in una base dell'aeronautica statunitense in Germania. The Power, tale l'impegnativo nome della band, erano stati fondati da Leslie Harvey, fratello del più celebre Alex, e dalla fidanzata Maggie Bell. Ribattezzati Stone the Crows da Peter Grant, divenuto nel frattempo loro manager insieme a Mark London, pubblicarono quattro album tra il 1970 e il 1972. Lo scioglimento del gruppo, avvenuto l'anno successivo, non interrompe il rapporto professionale tra la Bell e Grant, che lancia la sua carriera solista mettendola sotto contratto per la Swan Song e propiziando la partecipazione di Jimmy Page al suo secondo album, Suicide Sal. Dopo un disco con i Midnight Flyer e altri lavori solisti, Maggie si trasferisce in Olanda per oltre un ventennio. Tornata in patria è tra i promotori del British Blues Quintet, formazione che comprende anche Zoot Money, il bassista Colin Hodgkinson degli indimenticati Back Door e il batterista degli Stone the Crows, Colin Allen. Nel corso della sua lunga carriera Maggie Bell non ha mancato di prestare la sua voce, spesso paragonata a quella di Janis Joplin, a dischi di altri artisti. L'ambito è in massima parte quello del rock blues (Long John Baldry, Jon Lord, Clem Clempson) ma non mancano curiose digressioni come la partecipazione a Bananamoon di Daevid Allen. Il contributo più noto però rimane quello fornito alla canzone Every Picture Tells a Story, che da il titolo al grande album di Rod Stewart del 1971. The River Sessions, registrato al Pavillion di Glasgow il primo giorno di novembre del 1993 ma pubblicato solo nel 2004, presenta una Maggie Bell in forma smagliante alle prese con classici immortali della musica che amiamo. Cosa si può volere di più?
Recorded Live at the Pavillion, Glasgow, November 1st, 1993
Blue Suede Shoes
Try A Little Tenderness
As The Years Go Passing By
Only Women Bleed
Ain't No Love In The Heart Of The City
Good Man Monologue
Trade Winds
No Mean City
Every Little Bit Hurts
That's The Way I Feel
Ronnie Caryl: Guitar, Vocals
Pat Crumley: Sax
Paul Francis: Bass
Chris Parren: Keyboards, Vocals
Jeff Scopardie: Drums, Vocals
Pat Crumley: Sax
Paul Francis: Bass
Chris Parren: Keyboards, Vocals
Jeff Scopardie: Drums, Vocals
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