domenica 29 giugno 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Il sogno di Duncan Parrenness

Come il mister Bunyan dei tempi antichi, io, Duncan Parrenness, scrivano presso l'onorevolissima East India Company, in questa città di Calcutta dimenticata da Dio, ho fatto un sogno e mai, dacché la mia giumenta Kitty si azzoppò, sono stato così turbato. E, allora, per tema di dimenticarlo, mi sono deciso a metterlo per iscritto. Per quanto lo sa il cielo se la cosa mi sia ostica, più avvezzo come ero a maneggiar la spada che la penna quando un paio di anni fa ho lasciato Londra. 
Non appena terminato il gran ballo dato come ogni anno verso la fine di novembre dal governatore generale, mi ero ritirato nel mio alloggio che guardava su quel tetro corso d'acqua, così poco inglese, che è l'Hoogly, in uno stato non certo sobrio come avrei dovuto. Ora, ubriaco fradicio in Occidente significa un po' brillo in Oriente, e io ero ubriaco in modo nord-nord-orientale, come si esprimerebbe mister Shakespeare. Eppure, nonostante la mia sbornia, i gelidi venti notturni (benché abbia inteso dire che causino non poche infreddature e flussioni) smaltirono i miei fumi, almeno in parte; ricordai così d'essere uscito solo un po' depresso e deperito dai malanni degli ultimi quattro mesi, mentre i giovanotti giunti in Oriente sulla mia stessa nave da un mese erano tutti sepolti per l'eternità nell'impuro suolo a nord degli alloggi degli scrivani. Ringraziai perciò il Signore in modo vago (benché, per mia vergogna, nel farlo non m'inginocchiassi) per avermi concesso di vivere, sperando se non altro di arrivare al marzo prossimo. In effetti quella sera, noi  che eravamo vivi (e il nostro numero era di gran lunga inferiore a quello di coloro che avevano intrapreso l'ultimo viaggio, nella passata stagione calda) avevamo fatto baldoria sui bastioni del forte per questo favore della Provvidenza, sebbene i nostri scherzi non fossero né spiritosi né degni delle orecchie di mia madre. 
Quando mi fui coricato (o piuttosto buttato sul letto) e i fumi dell'alcool si furono un poco diradati, mi trovai a non poter dormire, tornando col pensiero a mille cose che sarebbe stato meglio non rivangare. Per prima cosa, ed era ormai da un pezzo che non mi capitava, il dolce viso di Kitty Somerset, come fosse riprodotto in un dipinto, si muoveva ai piedi del letto, così chiaramente da farmi quasi credere che fosse presente di persona. Allora ricordai come mi avesse spinto a venire in questo maledetto paese per diventare ricco e affrettare così le nostre nozze, col consenso dei rispettivi genitori; e poi come avesse per il meglio (o forse per il peggio) ritirato la promessa e sposato Tom Sanderson appena tre mesi dopo la mia partenza. Da Kitty il pensiero mi cadde sulla signora Vansuythen, una donna alta e pallida, gli occhi viola, giunta a Calcutta dalla fabbrica olandese di Chinsura, che aveva seminato zizzania fra tutti i giovanotti e non pochi intendenti. Qualcuna delle nostre signore, è vero, affermava che non aveva un marito, né un certificato di matrimonio se è per questo, ma le donne, e specialmente quelle che hanno avuto una vita facile e banale, non sono certo tenere con il proprio sesso. Per di più la signora Vansuythen era molto più bella di tutte loro. Con me era stata gentilissima, alla serata del governatore generale, e anzi mi consideravano tutti come il suo preux chevalier, che è francese per una parola ben peggiore. Ora, se di questa tal signora Vansuythen me ne importasse quanto di un fico secco (benché le avessi giurato eterno amore tre giorni dopo averla incontrata), non avrei saputo dirlo, allora, e non lo seppi che più tardi; ma grazie all'orgoglio e all'abilità di spadaccino senza rivali a Calcutta rimanevo nelle sue grazie. Sicché ero convinto di adorarla. 
Una volta banditi dalla mente i suoi occhi viola, la ragione mi rimproverò per averle anche solo dato retta per un attimo; e mi resi conto di quanto l'anno vissuto in questa terra mi avesse consumato e inaridito l'animo al fuoco di mille passioni e mille desideri negativi, tanto che a questa scuola del demonio per ogni mese ero invecchiato di dieci. Corsi allora col pensiero a mia madre e, tutto contrito, giurai di ravvedermi, facendo nello stato peccaminoso di ubriachezza in cui versavo mille voti... da allora, temo proprio, tutti infranti, non so più quante volte. Da domani, mi dicevo, vivrò onestamente, per sempre. E sorridevo, ancora un po' stordito dagli effetti dell'alcool, al pensiero dei pericoli scampati, mettendomi a fare ogni sorta di castelli in aria, dei quali una chimerica Kitty Somerset, con gli occhi viola e la dolce parlata lenta della signora Vansuythen, era sempre regina.
Da ultimo un bellissimo e magnifico coraggio (che senza dubbio nasceva dal Madera di mister Hastings) sorse in me e con esso la sensazione che, se solo avessi voluto, avrei potuto diventare governatore generale, nababbo, principe, che dico, il gran mogol in persona. Per cui, muovendo i primi passi, un po' a casaccio e vacillando alquanto, verso il mio nuovo regno, presi a calci i miei domestici che dormivano fuori, finché quelli urlando non corsero via, e chiamavo a testimoni cielo e Terra che io, Duncan Parrenness, ero scrivano al servizio della compagnia e non avevo paura di nessuno. Poi, visto che né la luna né l'Orsa Maggiore erano disposte ad accettare la mia sfida, tornavo a coricarmi e a questo punto devo essermi addormentato.
Ben presto fui svegliato dalle mie stesse parole ripetute due o tre volte e mi avvidi che era entrato nella stanza un ubriaco reduce, pensai, dalla riunione in casa Hastings. Si sedette ai piedi del letto proprio come fosse il suo e io notai, come potevo, che il suo viso era alquanto simile al mio, solo invecchiato, fuorché quando si trasformava in quello del governatore generale o di mio padre, morto sei mesi prima. Tutto ciò comunque mi sembrava assolutamente normale, conseguenza inevitabile del troppo vino bevuto, ed ero così adirato per la sua intrusione, quanto mai imprevista, che gli intimai, ben poco civilmente, di andarsene. A tutte le mie parole non si degnò nemmeno di rispondere; soltanto veniva biascicando lentamente, quasi che si trattasse di una leccornia: "Scrivano al servizio della compagnia e senza paura di nessuno". Poi eccolo arrestarsi di botto e girandosi bruscamente verso di me dire che una persona del mio stampo non ha da temere uomini né diavoli, che ero un giovanotto coraggioso e che, con tutta probabilità, sarei vissuto abbastanza da diventare governatore generale. Ma per tutte queste cose (e qui supposi che si riferisse ai mutamenti e alle vicissitudini dell'incerta vita che conducevamo da queste parti) dovevo pagare il prezzo. A questo punto ero tornato abbastanza lucido e, del tutto risvegliato dal primo sonno, ero incline a ritenere tutta la faccenda come lo scherzo di un ubriaco. Perciò gli dico allegramente: "E che prezzo dovrei pagare per questo mio palazzo, che è meno di quattro metri quadri, e per le mie cinque misere pagode al mese? Il diavolo ti porti, te e i tuoi scherzi: ho già pagato solo in malattie il doppio del prezzo". In quel mentre il mio uomo si gira completamente verso di me, sicché al chiaro di luna potevo vedere ogni piega e ogni ruga del suo viso. Allora, come ho veduto sparire in una notte le acque dei nostri grandi fiumi, la mia allegria da ebrezza sparì; ed io, Duncan Parrenness, che non avevo paura di nessuno, fui preso dal terrore più mortale ch'io credo essere umano abbia mai avuto in sorte di conoscere. Vidi infatti che il suo era il mio stesso volto, ma segnato, solcato, sfregiato dalle tracce del male e di una vita dissoluta, come l'avevo già visto una volta quand'ero (assistimi, Signore) ubriaco fradicio: un viso tutto pallido, tirato e invecchiato in uno specchio. Sono convinto che al mio posto altri si sarebbe spaventato anche più di me, che in fondo non manco certo di coraggio.
Dopo essere rimasto immobile per un po', sudando in preda all'angoscia e aspettando di risvegliarmi dal terribile sogno (perché sapevo bene che era un sogno), quello torna a ripetermi che devo pagare il prezzo; e poco dopo, come se dovesse esser saldato con pagode e rupie sicca chide: "Che prezzo pagherai?". E io sommessamente: "Per amor di Dio, lasciatemi in pace, chiunque voi siate, e da stanotte mi correggerò". Ed egli, ridacchiando alle mie parole, ma senza dare altrimenti segno di averle sentite, fa: "No, vorrei soltanto liberare un baldo giovane come te da quanto ti sarebbe d'intralcio nel corso della tua vita in India, poiché credimi", e qui torna a guardarmi intensamente, "non c'è compenso". Tutta quella tirata, che allora non potevo capire, mi prendeva piuttosto alla sprovvista e attesi il seguito. E lui tranquillamente riattaccò: "Dammi la tua fiducia nell'uomo". Al che mi resi conto di quanto pesante sarebbe stato il prezzo da pagare, giacché non mi illusi un istante che non potesse esigere da me tutto ciò che chiedeva; ormai il terrore e l'attenzione spasmodica mi avevano del tutto sgombrato la testa dai fumi dell'alcool trangugiato. Perciò lo interruppi bruscamente, lamentando che non ero poi così malvagio come lui pretendeva e che la mia fiducia nei miei simili era per lo meno pari ai loro meriti. "Non è certo colpa mia", dissi "se una metà di loro è composta di bugiardi e l'altra metà meriterebbe d'essere bruciata", e gli chiesi di nuovo di piantarla con le sue richieste. A quel punto m'interruppi, per il timore, debbo riconoscerlo, di essermi lasciato trasportare dalle parole, ma lui non vi badò e premette leggermente la sua mano sul lato sinistro del mio petto dove, per un istante, scese il gelo. Poi, ridendo più forte, mi disse: "Dammi la tua fiducia nelle donne". A tanto, sobbalzai sul letto come se mi avessero punto, perché pensai alla mia cara madre in Inghilterra e per un istante m'illusi che la mia fiducia nelle creature più belle di Dio non potesse essere scossa né sottratta. Ma poi, sotto lo sguardo duro di Me stesso, tornai per la seconda volta quella notte con il pensiero a Kitty (lei che mi aveva piantato in asso per sposare Tom Sanderson) e alla signora Vansuythen, cui solo il diabolico mio orgoglio mi legava, a come quest'ultima fosse anche peggiore di Kitty, e io il peggiore di tutti, visto che, di fronte al mio avvenire ancora in forse, mi permettevo di seguire con leggerezza estrema il cammino lastricato per l'inferno solo perché là in fondo brillava, non è vero?, il sorriso di una donna. Così pensai che tutte le donne del mondo fossero come Kitty o la signora Vansuythen (come infatti per me da allora sono sempre state) e questo mi gettò in un tale parossismo di rabbia e di dolore che fui lieto oltre ogni dire quando la mano di Me stesso tornò a posarsi sul lato sinistro del mio petto e io non fui più turbato da quelle follie.
Dopo di che egli tacque per un poco, per cui io m'aspettavo o che se ne andasse, oppure che non tardassi a risvegliarmi; ma ecco che riprende (e molto soavemente) a dirmi che ero uno sciocco a preoccuparmi di follie come quelle da cui mi aveva liberato e che prima di andarsene mi avrebbe solo chiesto poche altre bagatelle che nessun uomo, come del resto nessun ragazzo, avrebbe tenuto a conservare in questo paese. E così avvenne che egli estrasse dal profondo del mio cuore, per così dire, guardandomi fisso in volto tutto il tempo con i miei stessi occhi, quel che ancora mi restava della mia anima e della coscienza di fanciullo. Fu una perdita, questa, ben più grave e dolorosa delle due subite in precedenza. Infatti, assistimi Signore, anche se mi ero allontanato parecchio dai sentieri della dignità e della devozione, restava ancora in me, benché sia io a scriverlo, una certa bontà di cuore che, quand'ero sobrio (o sofferente), mi faceva pentire per tutto ciò che avevo potuto compiere prima della crisi. E la persi irrimediabilmente: al suo posto era un altro strato di gelo mortale. Io non sono, come ho già detto prima, molto abile con la penna; temo perciò che quanto ho appena scritto non sia compreso appieno. Ma il fatto è che ci sono dei momenti nella vita di un giovane nei quali, per mano di un dolore o di una colpa molto grandi, del ragazzo che c'è in lui non resta traccia, cosicché, cauterizzato in qualche modo, si trova sbalzato d'un sol colpo nella più penosa condizione virile: un po' come il nostro abbacinante giorno indiano, che si muta in notte fonda senza mai un'ombra grigia di crepuscolo a sfumarne gli estremi. A far meglio comprendere il mio stato, basterà forse ricordare che il mio tormento era dieci volte superiore a quello che ogni uomo incontra nel corso naturale della vita. Sul momento non osavo pensare al mutamento da me subito, e in una sola notte, benché da allora vi sia tornato sopra molto spesso. "Il prezzo l'ho pagato", dissi battendo i denti in preda a un gelo mortale, "il compenso qual è?". Ormai era quasi l'alba e quel Me stesso aveva cominciato a farsi pallido e sottile contro il lucore bianco sorto a oriente, come hanno sempre fatto - stando a quanto era solita ripetere mia madre - fantasmi, diavoli e simili. Fece per andarsene ma le mie parole lo fermarono e - ricordo - rise, come lo scorso agosto ho riso io quando ho ferito in duello a un braccio Angus Macalister, perché aveva osato mettere in dubbio la virtù della signora Vansuythen. "Qual è il compenso?", fece lui, riallacciandosi alle mie ultime parole. "Ebbene, la forza di vivere per quanto piaccia al diavolo o a Dio ed ecco, finché vivrai, il mio dono". Così dicendo mi mette in mano qualcosa che nell'oscurità non ancora del tutto svanita non riuscivo a distinguere; quando rialzai lo sguardo era sparito.
Non appena ebbi modo di esaminare il dono in piena luce, mi avvidi che era un tozzo di pane secco.

(Rudyard Kipling, Racconti anglo-indiani del mistero e dell'orrore. Theoria, 1985)




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