Immaginate un suono secco, acuto, discordante, prodotto apparentemente da un ferro che cade ritmicamente su un altro ferro; un suono che non produce vibrazioni né un'eco nitida e determinata, nel mezzo del silenzio di una notte in cui si addormenta triste una popolazione atterrita da una grande calamità.
Il colera abita nel nostro quartiere, e il quartiere intero lotta con lui sommerso dal silenzio e dall'oscurità. Sembra che il sonno eterno a cui in tanti si arrendono eserciti un contagio letale su quanti vegliano insonni la vita. Tutto tace nel quartiere: si soffre senza rumore, e si muore senza rumore: ci si cura in silenzio: ammutoliscono il dolore, il pianto, la disperazione; la preghiera è solo pensata, e la speranza non sale dal cuore alle labbra; non si domanda il rimedio, ormai è noto; non si studia il sintomo, ormai è previsto. Tutto, dalla loquace apprensione al ciarlatano che cura senza avere titoli, tace in quella notte. Di contro, però, tutto si muove: quando c'è silenzio è sempre molta l'attività. Il paziente si contrae nel suo letto; si acciambella come per piegarsi e finirla una volta per tutte: la natura desidera farsi a pezzi e si agita con movimenti convulsi; l'apprensivo corre di qua e di là, come se errando potesse evitare che il colera lo incontrasse; il fratello, la sposa, il figlio di chi è morto o sta per morire, entrano ed escono da una stanza all'altra, accumulando medicine opportune ed espedienti disperati; il prete non si ferma accanto al letto del defunto: dopo aver mormorato un'orazione, esce e ne raggiunge un altro, e poi un altro, e molto per tutta la notte; il medico entra, controlla il polso, osserva, scrive tre righe, e fa un gesto di speranza o di dubbio; scende e poi risale; e per tutta la notte entra, controlla il polso, scrive, spera e dubita infinite volte. Tutto il quartiere si muove, ma insieme tace. Mille emozioni si scontrano; mille dolori vengono soffocati; mille vincoli amorosi e familiari si spezzano; mille anime volano via; ma tutto questo accade in silenzio, nel mezzo di una calma orribile, nel mezzo di un movimento automatico e vertiginoso. Tutto il quartiere si muove, ma nello stesso tempo tace. Solo un essere (eccezione fatale!) riposa e russa in questa notte di morte: è la levatrice. In notti come questa non nasce nessuno.
Ebbene, in mezzo a questa taciturna agitazione si sente un suono secco, acuto, monotono, ritmato, prodotto da un ferro che batte su un altro ferro. Subito capireste che una mano diabolica è intenta a fissare le tavole di una tomba; è la mano di chi fabbrica casse da morto, che sfrutta laboriosamente un'industria che vive della morte; è il lavoro che cerca la ricchezza nel colera, e ogni vibrazione di quel ferro indica un pezzo d'oro conquistato a danno della miseria. Dal seno pestifero di un'epidemia nasce un'industria, e una folla di artigiani si guadagna da vivere.
Che industria fatale fiorisce al riparo della morte!
Mentre questa industria acquista uno sviluppo impressionante, il lugubre martellare che ne mostra l'attività ci inorridisce: ogni movimento di questo pendolo funebre segna un passo verso l'altra vita; ogni tomba fabbricata segna un respiro spezzato; ogni opera portata a termine è una morte.
Quei colpi portano alla nostra mente strane immagini, e fra tutte, la nostra stessa immagine il giorno in cui quel martello ci costruirà il mobile fatale: vediamo le tavole non ancora finite riunirsi e prendere la forma di un trapezio; le vediamo allungarsi secondo la nostra taglia, e stringersi a un estremo fino a presentare una forma ripugnante; vediamo una tela nera spiegarsi, ripiegarsi e avvolgerle. Vediamo dei galloni gialli adattarsi agli spigoli. Vediamo una giuntura, un coperchio che copre la parte interna, e una chiave pronta a rinchiuderci lì dentro per un'eternità. Vediamo la tomba in tutta la sua ripugnanza sotterranea; sentiamo il peso della terra. Ci fa rabbrividire l'attrito di quella fredda tela di raso che ci adorna all'interno, e il peso di una mano tremenda, di una lastra di marmo su cui un'iscrizione richiama il passante. Indoviniamo su tutto questo la corona di tristi fiori appassiti che ci fanno da ornamento; presentiamo la Messa e il Requiem. Presentiamo lo sguardo indifferente del revisore di epitaffi, e indoviniamo la natura intera sopra di noi senza poterla vedere: su di noi cade la rugiada, ma non ci rinfresca; sorge la luna, ma non ci illumina; sopra di noi qualcuno piange, ma non sappiamo chi è. Vediamo la morte, infine, rappresentata nelle sue parti: terra, decomposizione, lacrime, esequie; rappresentata in ciò che ha di questo mondo. La nostra immaginazione arriva a questo punto per la bara, e arriva alla bara attraverso quel suono spaventoso che la produce; da quel rumore metallico, acuto, penetrante, monotono che turba il silenzio del quartiere. Che orribili note! Ditemi, signori musicisti, signori Palestrina, Handel, Mendelssohn, quando avete portato la vostra immaginazione fino a questo punto. Nelle vostre cinque misere righe c'è qualcosa di paragonabile a questo dies irae cantato da un martello?
(Benito Pérez Galdos. Racconti fantastici. Donzelli, 2006)
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