giovedì 31 dicembre 2015
martedì 29 dicembre 2015
mercoledì 23 dicembre 2015
martedì 1 dicembre 2015
La Buona Annata's Literary Supplement: Una manciata d'argento
Era la notte della vigilia di Natale e nevicava forte quando entrai nel bar-tavola calda di Joe dopo la chiusura del giornale, e riuscii a trovare uno sgabello al banco. Joe, calvo e con il suo solito sorriso dai denti d'oro, mi fece un cenno col capo.
"Sera, Mary. Il solito bicchierino di porto?".
"No, facciamo un rum caldo stasera, Joe. Oh, gente, che tempo!".
Risposi al suo sorriso, rabbrividendo e battendo insieme le mani gelate. I miei pacchi, ammucchiati a torre sul pavimento accanto a me, si inclinarono improvvisamente e franarono contro la gamba del cliente che occupava lo sgabello vicino.
"Scusi".
Li raddrizzai con un sorriso di scusa diretto all'uomo ingobbito al mio fianco, male in arnese, barbuto, scarno, e squassato dalla tosse. Si chinò per recuperare un pacco che mi era sfuggito di mano, e colsi un'impressione di penetranti occhi neri incavati in orbite scure. La bocca seminascosta nella barba nera era contemporaneamente severa e sensuale. Il sottile naso arcuato attrasse la mia attenzione, insieme al suo accento marcato. Italiano? Libanese? Non riuscivo a situarlo.
Ma qualcosa nelle spalle curve, la disperazione atona nella voce dello sconosciuto, mi spinse ad aggiungere, impulsivamente: "Buon Natale!".
Si girò verso di me con stupefacente rapidità, arretrando come se l'avessi colpito. In quegli occhi scuri bruciava una infelicità tale, che trattenni il respiro, come si potrebbe fare alla vista di una ferita aperta. Non rispose al mio augurio, ma mi guardò fisso per un momento, poi tornò al suo bicchiere mezzo vuoto. Finendo di bere con un solo sorso, si spostò a un tavolino vicino, appena lasciato libero, con un'aria meno di rifiuto che di umiltà.
Si sedette stancamente, ordinò un altro bicchiere con un gesto, e tirò fuori un piccolo sacchetto di cuoio sporco chiuso da un laccio. Apertolo, ne versò il contenuto, una manciata di piccole monete d'argento, sul tavolo e cominciò a contarle. Nell'improvviso silenzio dopo che il jukebox finì Silver Bells, lo udii mormorare.
"Shanee, sh'leeshee, rve'e, chameeshee..."
Ebraico, notai pigramente. Qualche miserabile proprietario di bottega dei pegni che conta gli incassi del giorno. Senza troppa curiosità, lanciai un'occhiata al mucchietto, e il mio interesse aumentò.
Non ero un'appassionata di numismatica per nulla, ma sapevo riconoscere una moneta rara quando ne vedevo una. E queste, sedici o diciassette, erano sia rare che estremamente antiche. Erano tutte simili. La loro forma era grossolanamente ovale, e l'argento lucido era deturpato da una macchia rosso scuro, forse un'impurità nel metallo. Scrutandole con più attenzione, riconobbi su una la forma di un calice; su un'altra, il rovescio, un giglio in fiore. Erano shekel, coniati forse durante il regno di Erode.
Occhi ardenti si rialzarono dal mucchietto e incontrarono i miei. Distolsi lo sguardo, imbarazzata. Poi, ancora con un impulso amichevole nato dalla stagione natalizia, mi volsi di nuovo verso di lui.
"Lei è un collezionista di monete?", gli chiesi. "E' un bell'hobby. Anch'io ho una buona collezione, soprattutto di cinque centesimi e nichelini Liberty. Se vuole vederla qualche volta... voglio dire", indicai con un cenno Joe, che ci guardava senza parlare, pulendo un bicchierino da cicchetti. "Lei è un cliente regolare? Io passo di qui ogni sera. Vive da queste parti?".
"No. No. Io... viaggio", mormorò nervosamente l'uomo barbuto. Con una mano scheletrica spazzò le monete nel sacchetto, senza accennare a mostrarle.
Una però rotolò sul tavolo e si fermò ai miei piedi. La raccolsi e la restituii. Mentre le nostre dita si toccavano notai che la mano dello sconosciuto era più fredda della mia, un freddo duro, come l'acciaio, o come la mano di un cadavere. Involontariamente ritirai la mia, e vidi, dall'espressione di quegli occhi scuri scavati, che non gli era sfuggita la mia reazione. Le labbra sottili, innaturalmente rosse, si piegarono leggermente in un sorriso stanco, come se si fosse aspettata la mia repulsione.
Poi gli occhi gli si addolcirono. Si spostarono dalla mia mano sinistra senza anelli alla mia vita di donna palesemente incinta. Gentilmente, senza imbarazzo, mormorò: "Lei non ha guai? Non ha problemi?".
"Io?", un sorriso sfiorò le mie labbra.
Joe, con meno delicatezza, scoppiò a ridere. "Mary una ragazza madre? Questa è buona!". Sghignazzò. "Aspetti che lo dica a Johnny!".
"Joe, piantala!". Sorrisi all'uomo barbuto. "No, sono solo una delle tante mogli che lavorano. Giornalista. Lavoro finché posso, cioè, per pagare la macchina e la televisione, prima del varo! Mio marito è cronista sportivo per lo stesso giornale. Siamo sposati solo da un anno. I miei anelli", aggiunsi, "sono impegnati per poter acquistare una culla d'antiquariato!". Mi girai verso Joe. "Il mio signore e padrone è stato qui stasera? E lei si è ricordato di dirgli di prendere il tacchino che abbiamo vinto alla lotteria?".
Joe annuì. "Certo, Mary. L'ha preso e l'ha portato a casa. Probabilmente l'ha già messo in forno se... Ehi, tu!". S'interruppe, mentre il sorriso svaniva. "Hai dimenticato di pagare l'ultimo bicchiere!".
L'umo barbuto si era avviato verso la strada innevata, con la testa di nuovo abbassata, le spalle rilasciate in una posa di sconfitta disperata. Visto da dietro, il suo collo rivelava una strana cicatrice rossa. Joe, notandola anche lui, mi diede una gomitata.
"Guarda quella!", sussurrò. "Si direbbe che il nostro amico sia stato ospite d'onore a un linciaggio!".
"Sì", esclamai senza fiato. "Segno di corda".
"Spiacente, mi sono dimenticato". L'uomo tornò indietro per far tintinnare una moneta da cinquanta centesimi sul banco. Poi, con un sorriso di sbieco, amichevole, se non fosse stato così amaramente ironico, si diresse di nuovo verso la strada.
La porta si spalancò prima che potesse raggiungere la maniglia, e un mendicante "cieco" entrò assieme a una raffica di vento nevoso. Le matite e la tazzina di latta erano strette da una mano rivestita di un guanto costoso, e gli occhi visibili dietro gli occhiali scuri saggiarono con un'occhiata esperta l'atmosfera sentimentale del posto.
"Aiutate un povero cieco! Aiutate un povero cieco!", intonò meccanicamente.
Il barbuto si fermò. Con una strana fretta ansiosa tirò fuori il sacchetto di cuoio e lasciò cadere parecchie di quelle monete rare, certamente di valore, nella tazza del mendicante con un tintinnio musicale di metallo su metallo. Uno sguardo di speranza bruciante brillò negli occhi neri, per spegnersi quasi subito mentre il mendicante tirava fuori le monete, le tastava, le mordeva, e infine le scagliava con disprezzo a terra.
"Furbone, eh?", piagnucolò. "Cerca di rifilare delle monete straniere prive di valore a un povero handicappato. Non ha vergogna?".
La luce scomparve dagli occhi dell'uomo barbuto. Con stanchezza infinita si chinò per raccogliere il suo dono rifiutato. Una moneta era mezza nascosta sotto il tavolino di un separé, brillando nelle luci di Natale verdi e rosse come un occhio maligno. Forse era solo un gioco di luce, ma la macchia scura sembrava essersi allargata sulla superficie lucida. Le rimise tutte in tasca prima di alzarsi pesantemente in piedi e dirigersi di nuovo alla porta.
Mi impietosii per quelli che erano stati ovviamente dei goffi tentativi di gentilezza, prima verso di me, poi verso l'ingrato mendicante.
"Ehi, mister, aspetti un istante!", lo chiamai. Poi, mentre guardava dietro di sé, sorpreso, aggiunsi: "Chissà se mi può vendere una di quelle monete. Se non i sbaglio, sono pezzi da museo, shekel del primo secolo. Probabilmente coniati a Gerusalemme, forse duemila anni fa o anche prima".
Gli occhi penetranti incontrarono i miei con una forza che era quella dello shock fisico. La tremenda avidità divorante nelle loro profondità mi fece arretrare di un passo, involontariamente, quasi impaurita da quell'ansia bruciante. Rimpiansi il mio impulso, ma continuai.
"Sia mio marito che io siamo collezionisti di monete. Se non è troppo costoso, potrei acquistarne una per lui. Una specie di regalo extra, da appendere all'albero...".
A quelle parole lo scarno straniero trasalì visibilmente. Una tale smorfia di dolore gli contrasse la bocca e le folte sopracciglia, che mi ritrassi. Emise un debole gemito, così debole che fu appena udibile. Le labbra si compressero in una linea sottile. Con gli occhi chiusi, lo sconosciuto sembrava lottare per l'autocontrollo. Quando parlò, tuttavia, la sua voce era ferma, anche se senza fiato per uno strano tono d'ansia.
"Non posso vendere queste monete. Ma gliene regalerò una! Volentieri, per favore! La prenda, La... la macchia scomparirà...".
Con fretta disperata, tirò fuori la sacchetta di cuoio estraendone uno dei pezzi d'argento. Me lo porse con la mano tremante.
"Mi spiace no". Risi. "Regalare a mio marito un pezzo antico e costoso che mi è stato dato da uno sconosciuto? Lei non conosce il mio Johnny!". Poi, mentre la mano che mi porgeva la moneta ricadeva stancamente: "Ma sarebbe un favore se me la lasciasse acquistare. So quello che un negozio di monete o un museo farebbe pagare per un pezzo così raro. Dieci dollari?". Annaspai sulla chiusura della borsetta: "So che vale molto di più, ma è tutto ciò che posso permettermi".
Lo sguardo di speranza era svanito dagli occhi neri. Scosse cupamente la testa. "Lei non capisce. Queste monete devono venir spese, usate, date come regalo, accettate con gratitudine e senza sospetto. Una gentilezza senza compenso...".
"Capisco". Scuotendo le spalle, tornai al mio punch al rum.
Joe ed io ci scambiammo una smorfia. Era un seguace di qualche culto o un maniaco religioso? La città ne è piena, anche se il loro movente nascosto di solito un guadagno finanziario. Attesi cinicamente che lo sconosciuto alzasse il prezzo. Invece, con un sospiro pesante, si diresse di nuovo verso la porta.
Entrò un ragazzino di forse nove anni, spazzandosi la neve da una giacca troppo sottile per la temperatura esterna. La faccia era rossa per il freddo, ma sorrise a Joe nello spingere una banconota attraverso il banco, rivelando lividi simili a impronte di dita sul polso sottile.
"Bourbon?", grugnì Joe, ripetendo una vecchia routine.
Il ragazzino annuì. Joe infilò la bottiglia in un sacchetto di carta, batté la vendita sul registratore di cassa, e tornò a pulire i bicchieri. Il ragazzino stava guardando con ammirazione le luci di Natale lampeggianti e il piccolo albero riflesso nello specchio del bar.
"Ehi, com'è bello qui! Davvero!".
Joe sorrise di sbieco. "Riceverai quella macchina fotografica per Natale, quest'anno, Danny? Quella che desideri, che sta nella vetrina dell'usuraio?".
"Ma, non lo so". Il ragazzino rise, stringendosi allegramente nelle spalle. "Lei conosce il mio vecchio. Specialmente verso Natale e Capodanno. Per la maggior parte del tempo, però, è un tipo a posto.", aggiunse lealmente. "Forse sente solo la mancanza della mamma".
"Certo", annuì Joe.
"Potrebbe anche ricordarsi della macchina fotografica, però. Potrebbe".
Il ragazzino si accinse a uscire, tirandosi su il bavero della giacca prima di affrontare la tormenta che stava aumentando fuori. La neve si appiccicava contro le vetrine, creando uno specchio scuro per il locale. Rifletté il viso dell'uomo barbuto che esitava alla porta. La speranza lampeggiava ancora una volta negli occhi disperati.
"Piccolo?". Frugò affrettatamente nella sacchetta di cuoio e tirò fuori qualcuna delle monete ovali. "Ti piacerebbe avere un po' di soldi per te? O per un regalo per tuo papà".
Il monello si fermò, occhieggiando l'argento con diffidenza. "Per fare che?", domandò, sospettoso dell'espressione troppo ansiosa del barbuto. "Senta, non faccio commissioni per nessun spacciatore! Non ho voglia di passare il Natale in un tribunale per minorenni!".
Sfiorò il vecchio, quasi rudemente, e sfrecciò nella strada innevata, stringendo il pacchetto per suo padre. Ancora una volta uno sguardo di amaro dolore tornò a galla negli occhi del vecchio.
Si appoggiò stancamente alla porta; una lacrima scintillò nella barba scura. Poi si scosse mentre qualcuno all'esterno spingeva la porta bloccata dal suo peso. La porta venne spalancata irosamente, ed una bionda di mezz'età un po' bevuta svolazzò dentro.
"Che idea è questa? Un gentiluomo avrebbe tenuto aperta la porta per una signora". Guardò male il barbuto, poi cambiò l'espressione con un fascino da gatta per rivolgersi a Joe. "Buon Natale, vecchio avvelenatore! Non potevo passare di qui senza fare un salto dentro".
Joe la guardò senza cordialità. "Non venire più ad adescare qui, Mae! Ti ho avvertito l'ultima volta. Fuori!". Indicò col pollice la porta attraverso cui era entrata. "Vuoi che mi chiudano il locale?".
"Ma bene, non sono mai stata così insultata!". La bionda si rizzò offesa, poi strizzò un occhio. "Voglio solo un bicchierino. Offerto dalla casa, eh? Uno piccolo piccolo? E' Natale! Guarda, ti ho portato un regalo!". Con un gesto grandioso, depose un piccolo asciugamano sul banco; portava stampato a grandi caratteri Central Hotel.
"Vabbene", acconsentì Joe. "Uno. E fai in fretta!".
"Sei pieno di cuore, Joe. Alla tua".
La bionda arretrò verso la porta. Il barbuto, con un gesto privo di scherno, le tenne aperta la porta. Ma appena lei rabbrividì nel vento che penetrava dall'esterno, gli occhi gli brillarono ancora di speranza.
Tirando fuori la sacchetta, ne prese due monete e gliele offrì.
"Posso offrirle una bottiglia? O la cena, se ha fame?". La voce gli tremava come la mano ossuta che porgeva le monete.
Qualcosa nei suoi occhi brillanti ispirò repulsione alla bionda. Il sorriso da gatta svanì. Guardò torva dall'argento agli occhi incavati. Di scatto si tirò indietro, scuotendo la testa.
"Hai la TBC o qualcosa del genere? Non pretenderai di pagarti del tempo con me con una birra e magari un hamburger. Lasciami uscire di qui! Ho un appuntamento importante".
A testa alta, uscì nella notte nevosa.
L'uomo barbuto, con la mano ancora tesa, si afflosciò contro la porta che si chiudeva. Nel silenzio, rotto solo dai sommessi rumori del traffico e dal tintinnio monotono della campanella di un Babbo Natale, mi sembrò di sentirlo singhiozzare forte. Il vecchio guardò le monete ovali che aveva in pugno con negli occhi una disperazione immensa. Le monete erano quasi completamente marroni ora, l'argento non si vedeva quasi. Le dita scheletriche si chiusero intorno alle monete, e la testa gli cadde all'indietro, contro la porta, rivelando di nuovo la rossa cicatrice infiammata che aveva intorno al collo. Le sue labbra si mossero; sentii delle parole...
"Eloi, Eloi, lama sabachthani...".
Con una chiarezza sconvolgente, ricordai l'origine di queste parole. Le aveva pronunciate un altro uomo in agonia; una preghiera, un ultimo grido di agonia, da parte di un morente, inchiodato a una croce di legno su una collina chiamata Golgota.
Con inaspettata gentilezza, Joe lo chiamò improvvisamente: "Ehi, vuole un altro bicchiere? Offerto dalla casa. Non ha un bell'aspetto".
Il vecchio sembrò non aver sentito. Cogli occhi allucinati, versò di nuovo le monete respinte nella sacchetta, contandole silenziosamente. Poi, con un sospiro simile ad un vento gelido attraverso i rami di un albero spoglio, spalancò la porta e si tuffò nella notte.
"Be', che ne dici?", ringhiò Joe. "Che tipo! Un minuto cerca di regalare quelle monete straniere, e il minuto dopo rifiuta di venderne una! E ne aveva un sacchetto pieno! Di quante ne avrebbe avuto bisogno, per sé?".
Rimasi silenziosa per un istante, mandando giù l'ultimo sorso del punch caldo. Un freddo molto più penetrante del vento gelido all'esterno mi faceva rabbrividire; avevo disperatamente bisogno della confortante familiarità del piccolo appartamento che dividevo con mio marito.
"Di quante? Oh, circa trenta, direi, per acquistare ciò di cui ha bisogno". Pensai ai versetti biblici che ricordavo dall'infanzia. "... Si pentì e riportò i trenta pezzi d'argento ai preti e agli anziani, dicendo: ho peccato perché ho tradito un innocente. Ed essi risposero: la cosa non ci riguarda".
Joe girò intorno al banco, preoccupato. "Di cosa stai parlando, Mary?".
"E gettò al suolo i pezzi d'argento, e... andò e si impiccò...! Anche la tomba l'ha respinto, Joe. Ora sta cercando di ricomprare la sua anima! Joe, abbiamo appena incontrato l'ebreo errante!".
Si appoggiò stancamente alla porta; una lacrima scintillò nella barba scura. Poi si scosse mentre qualcuno all'esterno spingeva la porta bloccata dal suo peso. La porta venne spalancata irosamente, ed una bionda di mezz'età un po' bevuta svolazzò dentro.
"Che idea è questa? Un gentiluomo avrebbe tenuto aperta la porta per una signora". Guardò male il barbuto, poi cambiò l'espressione con un fascino da gatta per rivolgersi a Joe. "Buon Natale, vecchio avvelenatore! Non potevo passare di qui senza fare un salto dentro".
Joe la guardò senza cordialità. "Non venire più ad adescare qui, Mae! Ti ho avvertito l'ultima volta. Fuori!". Indicò col pollice la porta attraverso cui era entrata. "Vuoi che mi chiudano il locale?".
"Ma bene, non sono mai stata così insultata!". La bionda si rizzò offesa, poi strizzò un occhio. "Voglio solo un bicchierino. Offerto dalla casa, eh? Uno piccolo piccolo? E' Natale! Guarda, ti ho portato un regalo!". Con un gesto grandioso, depose un piccolo asciugamano sul banco; portava stampato a grandi caratteri Central Hotel.
"Vabbene", acconsentì Joe. "Uno. E fai in fretta!".
"Sei pieno di cuore, Joe. Alla tua".
La bionda arretrò verso la porta. Il barbuto, con un gesto privo di scherno, le tenne aperta la porta. Ma appena lei rabbrividì nel vento che penetrava dall'esterno, gli occhi gli brillarono ancora di speranza.
Tirando fuori la sacchetta, ne prese due monete e gliele offrì.
"Posso offrirle una bottiglia? O la cena, se ha fame?". La voce gli tremava come la mano ossuta che porgeva le monete.
Qualcosa nei suoi occhi brillanti ispirò repulsione alla bionda. Il sorriso da gatta svanì. Guardò torva dall'argento agli occhi incavati. Di scatto si tirò indietro, scuotendo la testa.
"Hai la TBC o qualcosa del genere? Non pretenderai di pagarti del tempo con me con una birra e magari un hamburger. Lasciami uscire di qui! Ho un appuntamento importante".
A testa alta, uscì nella notte nevosa.
L'uomo barbuto, con la mano ancora tesa, si afflosciò contro la porta che si chiudeva. Nel silenzio, rotto solo dai sommessi rumori del traffico e dal tintinnio monotono della campanella di un Babbo Natale, mi sembrò di sentirlo singhiozzare forte. Il vecchio guardò le monete ovali che aveva in pugno con negli occhi una disperazione immensa. Le monete erano quasi completamente marroni ora, l'argento non si vedeva quasi. Le dita scheletriche si chiusero intorno alle monete, e la testa gli cadde all'indietro, contro la porta, rivelando di nuovo la rossa cicatrice infiammata che aveva intorno al collo. Le sue labbra si mossero; sentii delle parole...
"Eloi, Eloi, lama sabachthani...".
Con una chiarezza sconvolgente, ricordai l'origine di queste parole. Le aveva pronunciate un altro uomo in agonia; una preghiera, un ultimo grido di agonia, da parte di un morente, inchiodato a una croce di legno su una collina chiamata Golgota.
Con inaspettata gentilezza, Joe lo chiamò improvvisamente: "Ehi, vuole un altro bicchiere? Offerto dalla casa. Non ha un bell'aspetto".
Il vecchio sembrò non aver sentito. Cogli occhi allucinati, versò di nuovo le monete respinte nella sacchetta, contandole silenziosamente. Poi, con un sospiro simile ad un vento gelido attraverso i rami di un albero spoglio, spalancò la porta e si tuffò nella notte.
"Be', che ne dici?", ringhiò Joe. "Che tipo! Un minuto cerca di regalare quelle monete straniere, e il minuto dopo rifiuta di venderne una! E ne aveva un sacchetto pieno! Di quante ne avrebbe avuto bisogno, per sé?".
Rimasi silenziosa per un istante, mandando giù l'ultimo sorso del punch caldo. Un freddo molto più penetrante del vento gelido all'esterno mi faceva rabbrividire; avevo disperatamente bisogno della confortante familiarità del piccolo appartamento che dividevo con mio marito.
"Di quante? Oh, circa trenta, direi, per acquistare ciò di cui ha bisogno". Pensai ai versetti biblici che ricordavo dall'infanzia. "... Si pentì e riportò i trenta pezzi d'argento ai preti e agli anziani, dicendo: ho peccato perché ho tradito un innocente. Ed essi risposero: la cosa non ci riguarda".
Joe girò intorno al banco, preoccupato. "Di cosa stai parlando, Mary?".
"E gettò al suolo i pezzi d'argento, e... andò e si impiccò...! Anche la tomba l'ha respinto, Joe. Ora sta cercando di ricomprare la sua anima! Joe, abbiamo appena incontrato l'ebreo errante!".
(Psycho. N. 1. Armenia editore, 1978)
martedì 24 novembre 2015
sabato 21 novembre 2015
martedì 17 novembre 2015
La Buona Annata's Literary Supplement: Bal Macabre
Lord Hopeless mi invitò ad unirmi agli altri che erano seduti al suo tavolo, e mi presentò alcuni di quei signori.
Era passata da molto la mezzanotte, e ho dimenticato la maggior parte dei loro nomi.
Il dottor Zitterbein l'avevo già conosciuto.
"Sta sempre seduto da solo. E' un vero peccato" disse, stringendomi la mano. "Perché se ne sta sempre da solo?"
So che non avevamo bevuto molto. Ciò nonostante, eravamo sotto l'incantesimo di quella delicata e impalpabile ebrezza che dà l'impressione che alcune parole vengano da lontano, uno stato d'animo tipico di quelle ore tarde, quando siamo cullati dal fumo delle sigarette, dalle risate delle donne e da musica scadente.
Strano che da una simile atmosfera da night club, col suo miscuglio di musica zingaresca, cakewalk e champagne nascesse una discussione sulle cose soprannaturali! Lord Hopeless stava raccontando una storia.
Di uomini e donne che si supponeva fossero realmente esistiti - o meglio di cadaveri, o apparenti cadaveri - che appartenevano alla migliore società e che, secondo la testimonianza dei viventi, erano morti da molto tempo, e avevano perfino lapidi e tombe con i loro nomi e le date della loro morte, ma che in realtà giacevano da qualche parte in città, dentro un vecchio palazzo, in uno stato di ininterrotta catalessi, inanimati, ma protetti dalla decomposizione e ben sistemati in una serie di cassetti. Si diceva che se occupasse un domestico gobbo con le scarpe con la fibbia e la parrucca incipriata, soprannominato Spotted Aron. In certe notti le loro labbra emanavano una debole fosforescenza, un segnale per il gobbo che era ora di fare una misteriosa manipolazione sulle vertebre cervicali delle persone affidate alle sue cure. Così disse.
Le loro anime potevano allora vagare senza intralci, temporaneamente libere dai loro corpi, e indulgere ai vizi della città, con un'avidità e un'intensità che superavano l'immaginazione del più audace libertino.
Fra le altre cose, sapevano come attaccarsi, a mo' di vampiri, a quei reprobi viventi che passano barcollando di vizio in vizio... succhiando, rubando, arricchendosi di strane sensazioni a spese delle masse viventi. Questo club, che fra l'altro aveva il curioso nome di Amanita, possedeva anche statuti, regolamenti e severe condizioni concernenti l'ammissione di nuovi membri. Ma questi erano circondati da un impenetrabile velo di segretezza.
Non riuscii a capire le ultime parole di Lord Hopeless, a causa del fragoroso baccano dei musicisti e dei cantanti, che ammannivano una moderna canzone di successo:
Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.
Le grottesche contorsioni di una coppia di mulatti, che accompagnava la musica con una sorta di cancan negro, accentuavano, come la canzone, lo spiacevole effetto che quella storia aveva avuto su di me.
In quel night club, fra prostitute truccate, camerieri provetti e magnaccia tempestati di diamanti, l'intera impressione mi parve che diventasse piuttosto frammentaria, storpiata, finché non restò nella mia mente solo come un'immagine raccapricciante, distorta e quasi irreale.
Come se all'improvviso, in momenti di disattenzione, il tempo si affretta con passi spediti e silenziosi, e le ore si riducono nella cenere di pochi secondi per uno che è ebbro... secondi che volano via dall'anima come scintille, per illuminare una ripugnante ragnatela di sogni curiosi e audaci, intessuti in una confusa mescolanza di passato e futuro.
Così, nel mio vago ricordo, mi pare ancora di sentire una voce che disse: "Dovremmo mandare un messaggio al Club Amanita".
A giudicare da questo, pare che la nostra conversazione vertesse ripetutamente sullo stesso tema. Fra un discorso e l'altro mi pare di ricordare frammenti di brevi osservazioni, un bicchiere di champagne che si era rotto, un fischio... e poi, che una cocotte francese mi si era seduta in grembo, mi aveva baciato, aveva soffiato il fumo della sigaretta nella mia bocca e infilato la sua lingua appuntita nel mio orecchio. Più tardi, una cartolina piena di firme venne sospinta verso di me, con la richiesta che anch'io vi mettessi il mio nome... la matita mi cadde di mano... e poi non riuscii di nuovo, perché una ragazzotta mi aveva versato un bicchiere di champagne sui polsini.
Mi ricordo distintamente che tutti noi divenimmo improvvisamente sobri; cercammo nelle nostre tasche, sopra e sotto il tavolo e sulle sedie la cartolina, che Lord Hopeless voleva riavere a tutti i costi, ma era svanita, e non si vide più...
Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore.
I violini ripetevano con suono stridulo il ritornello, sommergendo di nuovo la nostra coscienza nel buio. Se si chiudevano gli occhi, sembrava di star sdraiati su un tappeto nero morbido e vellutato, su cui spiccavano fiammeggianti alcuni fiori rossi come rubini.
"Voglio qualcosa da mangiare" sentii che qualcuno diceva. "Cosa? Cosa? Caviale?... Sciocchezze! Mi porti... mi porti... be'... mi porti dei funghi conservati."
E tutti noi mangiammo quei funghi aspri, che nuotavano in un liquido chiaro e viscoso, aromatizzato.
Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.
Improvvisamente un acrobata dallo strano aspetto, che indossava una calzamaglia troppo grande che gli ondeggiava terribilmente addosso, si sedette al nostro tavolo, e alla sua destra era seduto un gobbo mascherato, con una parrucca color canapa. Vicino a lui c'era una donna; e tutti ridevano.
Come diavolo era arrivato lì... con quelli? Mi guardai attorno: la sala era vuota; c'eravamo solo noi. Oh, be', pensai... non importa...
Il tavolo a cui eravamo seduti era molto lungo, e la maggior parte della tovaglia splendeva, bianca come un lenzuolo... senza piatti né bicchieri.
"Monsieur Phalloides, vorrebbe ballare per noi, per favore?" disse uno dei signori, dando un colpetto sulla spalla dell'acrobata.
Dovevano conoscersi bene - mi passò per la testa in una specie di sogno - molto probabilmente è seduto qui già da molto tempo, quel... quella calzamaglia.
Poi guardai il gobbo vicino a lui, e i nostri occhi s'incontrarono. Portava una maschera lucente di lacca bianca e una giacca verdastra, sbiadita, assai malconcia e piena di pezze mal cucite. Raccattata per strada! Quando rideva, era un miscuglio fra un ansito e un rantolo.
"Crotalus... Crotalus Horridus." Mi attraversò la mente quella frase che dovevo aver sentito o letto da qualche parte; non riuscivo a ricordarne il significato, ma comunque rabbrividii, sussurrandola piano.
E poi sentii le dita di quella ragazzotta che mi toccavano le ginocchia sotto il tavolo.
"Mi chiamo Albina Veratrina" mi sussurrò esitante, come se mi stesse confidando un segreto, mentre io le prendevo la mano.
Si avvicinò molto a me; e ricordavo vagamente che una volta aveva versato un bicchiere di champagne sui miei polsini. I suoi vestiti emanavano un odore pungente; quando si muoveva, veniva quasi da starnutire.
"Si chiama Germer, naturalmente... Miss Germer, sa" disse il dottor Zitterbein ad alta voce.
A quel punto l'acrobata scoppiò in una breve risata, la guardò e scrollò le spalle, come se si sentisse in dovere di scusare il suo comportamento.
Mi dava la nausea. Aveva delle strane cicatrici sul collo, larghe come una mano, ma tutto attorno e di un colore pallido, che facevano pensare a un collare... come il collo di un fagiano. E la sua calzamaglia pendeva molle su di lui dal collo ai piedi, perché era stretto di torace e magro. Aveva un copricapo piatto e verdastro a pois bianchi, con dei bottoni. Si era alzato e stava ballando con una ragazza con una collana di bacche macchiettate.
"Sono venute qui altre donne?" chiesi a Lord Hopeless con gli occhi.
"E' solo Ignatia... mia sorella" disse Albina Veratrina, e mentre pronunciava la parola "sorella" mi strizzò l'occhio e rise istericamente.
Improvvisamente mi mostrò la lingua, e notai che nel mezzo c'era una lunga striscia rossastra, secca; ero inorridito. E' come un sintomo di avvelenamento, pensai. perché ha quella striscia rossastra? E' come un sintomo di avvelenamento! E di nuovo udii la musica che veniva da lontano:
Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
e, pur tenendo gli occhi chiusi, sapevo che tutti scuotevano il capo a quel ritmo indiavolato...
E' come un sintomo di avvelenamento, sognai... e mi svegliai con un brivido.
Il gobbo, nella sua giacca verde maculata, aveva in grembo una ragazzotta e le strappava gli abiti di dosso in una sorta di ballo di san Vito, apparentemente al ritmo di una musica che non si udiva.
Il dottor Zitterbein si alzò, e le sbottonò le spalline.
"Fra un secondo e l'altro c'è un breve intervallo, che non appartiene al tempo, ma solo all'immaginazione. Come le maglie di una rete" sentii che il gobbo declamava in tono subdolo "sono questi intervalli. Si possono sommare, ma il risultato non è ancora il tempo reale, eppure ci pensiamo... una volta, due volte, una volta ancora, e una quarta volta...
"E se viviamo solo entro questi limiti e dimentichiamo i minuti e i secondi reali, per non più ricordarli... ebbene, allora siamo morti, allora viviamo solo nella morte.
"Si vive, diciamo, cinquant'anni. Di questi la scuola ne porta via dieci: ne restano quaranta.
"E il sonno ne ruba venti: ne restano venti.
"E dieci sono pieni di preoccupazioni: ne rimangono dieci.
"Di questi, nove anni si passano nella paura del domani; così si vive solo un anno... forse!
"Perché piuttosto non morire?
"La morte è bella.
"Lì c'è il riposo, l'eterno riposo.
"E nessuna preoccupazione per il domani.
"Lì c'è l'eterno, silenzioso presente, che non si conosce; non c'è prima né dopo.
"Lì c'è il silenzioso presente, che non si conosce! Queste sono le maglie nascoste fra un secondo e l'altro nella rete del tempo."
Le parole del gobbo risonavano ancora nel mio cuore. Alzai lo sguardo e vidi che la blusa scollata della ragazzotta era caduta fino alla vita, e che stava seduta sul suo grembo, nuda. Non aveva né seni né corpo... solo una nebulosa fosforescente, dal collo ai fianchi. Il gobbo toccava quella nebulosa con le dita e ne traeva dei suoni come quelli delle corde di una viola da gamba, e da quel corpo spettrale cadevano sul pavimento con gran rumore pezzi di scorie. Così è la morte, pensai, come una melma di residui.
Lentamente il centro di quella tovaglia bianca si sollevò come un'immensa bolla... un vento gelido spazzò la stanza e fece volar via la nebulosa. Apparvero corde d'arpa scintillanti, che andavano dal collo della ragazzotta fino ai fianchi. Una creatura mezza donna e mezza arpa!
Con quella il gobbo suonò, così sognai, una canzone di morte e di lussuria, che terminava con uno strano inno:
Ogni gioia deve divenire sofferenza;
nessun piacere terreno può durare!
chi desidera la gioia, chi sceglie la gioia,
raccoglierà il dolore che porta:
chi giammai brama o aspetta la gioia,
mai ha bramato la fine del dolore.
Un inesplicabile desiderio di morte mi assalì, e desiderai morire.
Ma in cuor mio, la vita diede battaglia... l'istinto di conservazione. E la morte e la vita si schierarono minacciosamente l'una contro l'altra; questa è la catalessi.
I miei occhi erano sgranati, immobili. L'acrobata si chinò su di me, e notai la sua calzamaglia spiegazzata, il copricapo verdastro e il collare.
"Catalessi" volevo farfugliare, ma non riuscii ad aprire la bocca.
Mentre andava dall'uno all'altro e sbirciava le loro facce con un sogghigno interrogativo, sapevo che eravamo paralizzati: era come un fungo velenoso! Abbiamo mangiato funghi velenosi, cotti con veratrum album, l'erba chiamata Germer bianca.
Ma quello è solo un fantasma della notte, una chimera! Volevo gridarlo forte, ma non potevo. Volevo voltare la testa, ma non potevo.
Il gobbo con la maschera bianca laccata si alzò silenziosamente, e gli altri lo seguirono e si disposero in coppie, altrettanto silenziosamente.
L'acrobata con la tromba francese, il gobbo con l'arpa umana. Ignatia con Albina Veratrina... così penetrarono nella parete al passo saltellante di un cakewalk.
Solo una volta Albina Veratrina si voltò a guardarmi, accompagnando quello sguardo con un gesto osceno.
Volevo distogliere gli occhi o chiudere le palpebre, ma non potevo. Ero costretto a fissare sempre l'orologio a muro e le sue lancette che strisciavano sul quadrante come dita furtive.
E negli orecchi risonava sempre quel ritornello ossessivo:
Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.
e come un basso ostinato veniva dagli abissi:
Ogni gioia deve divenire sofferenza:
chi giammai brama o aspetta la gioia,
mai ha bramato la fine del dolore.
Guarii da quell'avvelenamento dopo molto, molto tempo; ma gli altri sono stati tutti sepolti.
Era troppo tardi per salvarli - così mi è stato detto - quando arrivarono i soccorsi.
Ma sospetto che non fossero realmente morti quando vennero sepolti. Anche se il dottore mi dice che la catalessi non può derivare dall'aver mangiato funghi velenosi, e che i sintomi avrebbero dovuto essere differenti, sospetto che non fossero morti, e con un brivido penso al Club Amanita e al suo strano guardiano gobbo, Spotted Aron, con la sua maschera bianca.
Nel primo quarto di questo secolo i cineasti tedeschi si occuparono di film di fantasia, e anzi furono loro che in realtà cominciarono a sviluppare quello che oggi è noto come cinema dell'orrore. Una delle prime e più famose di queste fantasie pionieristiche fu Il Golem, fatto nel 1915, e poi rifatto ancora nel 1917 e nel 1920. Tutti e tre questi film erano interpretati dal gigantesco attore tedesco Paul Wegener, nella parte dell'uomo-mostro d'argilla dall'andatura terrificante. Il film era tratto dal romanzo dallo stesso titolo di Gustav Meyrink (1868-1932), che dapprima fu pubblicato a puntate nel 1913-1914, e poi raccolto in libro nel 1915. Il libro e il film resero famosi in tutto il mondo sia Meyrink che Paul Wegener. L'autore in effetti aveva sentito parlare della secolare leggenda del Golem - il corpo senz'anima - quando viveva a Praga, e si convinse - per usare le sue stesse parole - che "qualcosa che non può morire incombe sulla città ed è in qualche modo connesso con la leggenda del Golem". Da questo spunto affascinante fu tratta la sua storia meravigliosa, e col passar del tempo il romanzo di Meyrink divenne famoso come il racconto di Mary Shelley su un'altra creatura fatta dall'uomo, "Frankenstein". Meyrink era molto attratto dal lato oscuro della natura umana, e le sue schiette opinioni fecero sì che i suoi libri fossero messi all'indice in Germania durante la prima guerra mondiale. Un'altra sua opera trasformata in film fu Il Museo delle Cere (1924), che includeva una straordinaria sequenza tratta da un racconto intitolato Bal Macabre, che Meyrink aveva scritto nel 1904. Viene ristampato in questa raccolta per la prima volta dopo più di mezzo secolo. [Sean Richard]
(Elephant Man e altri mostri. A cura di Sean Richard. Mondadori, 1991)
sabato 7 novembre 2015
The Hipster Be-bop Junkie
Burroughs Breaks
Word is Virus
Millions of Images
The Hipster Be-bop Junkie
lunedì 2 novembre 2015
La Buona Annata's Literary Supplement: Tamlin
In un tempo così antico che nessuno lo ricorda, la Regina delle Fate era solita riunire la sua corte notturna a Carterhaugh, vicino a Selkirk, nel punto dove le acque del fiume Ettrick curvano per unirsi allo Yarrow, ed entrare insieme a lui nel Tweed.
Lungo e crudele era l'inverno nelle alte e solitarie vallate della Terra di Confine, quando il vento del nord fischiava e ululava attraverso gli alberi spogli e soffiava la neve più in alto delle mura dei granai e delle case. Le ragazze dei villaggi di Ettrickdale e di Yarrow, sedute nelle loro stanze a cucire la seta, lasciavano cadere il lavoro sulle ginocchia e sospiravano pensando alla primavera, quando avrebbero potuto di nuovo incontrarsi nella pianura di Carterhaugh.
Pensavano:
"In nessun posto della Terra di Confine l'erba è verde come quella di Carterhaugh! In nessun posto le rose di campo hanno un colore così delicato, e le campanule un colore così puro, la ginestra è di un oro tanto splendente! Come è bello quando ci andiamo a raccogliere i fiori, a giocare a palla e ridere, ballare e cantare, prima di tornare a casa al tramonto, perché, noi lo sappiamo, quando è buio la pianura appartiene al Piccolo Popolo!"
Fra tutte le ragazze che giocavano, parlavano, ridevano e danzavano sull'erba verde a primavera, la più bella e coraggiosa era Lady Janet: i suoi genitori l'amavano moltissimo, e suo padre le aveva regalato la terra di Carterhaugh.
Era una luminosa mattina di maggio, e Janet giocava con altre ventiquattro ragazze, lanciando in alto una palla colorata, e ridevano sollevando le vesti di seta per correre con i piedi scalzi a riprenderla. All'improvviso, apparve in mezzo a loro la Regina delle Fate e disse con voce fredda:
- Questa è l'ultima volta che potete giocare in questo posto. Vi proibisco di rimettere i piedi sull'erba di Carterhaugh sia di giorno che di notte, perché ora appartiene al giovane Tamlin.
E in un attimo la fata scomparve.
Le ragazze, spaventate, andarono di corsa a infilarsi le pantofole, e a raccogliersi i capelli, pronte ad obbedire a quell'ordine. Solo Janet rimase ferma, e gridò con furia:
- Che diritto ha di dire che non possiamo più giocare in questo posto? Questa terra è mia, me l'ha donata mio padre. Di notte ci viene il Piccolo Popolo, ed è benvenuto, ma durante il giorno mi appartiene, e io ci verrò ogni volta che vorrò. E anche voi verrete a giocare!
- No, Janet, non verremo! - rispose una delle amiche.
- Non possiamo fare arrabbiare la Regina delle Fate! - disse un'altra.
- Ci dispiace, addio! - disse una terza.
E le ventiquattro compagne corsero alle loro case lungo lo Yarrow e l'Ettrick.
Janet, rimasta sola nella distesa verde, sospirò profondamente e se ne andò: ma quando arrivò a casa sua, a Bowhill, non raccontò niente di quello che era accaduto ai suoi genitori.
Il mattino seguente, appena sveglia, stirò le braccia verso il cielo, prese in faccia il primo raggio di sole e pensò:
"Cosa farò di bello quest'oggi? Ecco cosa farò: raccoglierò fiori per mia madre, che mi ama tanto. Raccoglierò per lei le rose di campo, che hanno quella tinta leggera così bella, e crescono sul cespuglio di rovi accanto al pozzo di Carterhaugh, la mia terra..."
Allora indossò il vestito di seta, verde come l'erba, e le pantofole, che erano rosse come bacche di sorbo, si pettinò i lunghi capelli biondi, fece una treccia, l'avvolse attorno alla testae la fissò con due pettini d'oro ornati di smeraldi, verdi come il vestito e come l'erba di Carterhaugh. Poi raccolse la lunga gonna fra le mani e corse sul prato, fino al cespuglio di rovi che cresceva accanto al pozzo.
Aveva appena raccolto il primo bocciolo di rosa, così delicatamente colorato, quando sentì una voce arrabbiata alle sue spalle che gridava:
- Chi sei? Che ci fai, tu, qui a Carterhaugh?
Janet si voltò, e si trovò davanti un cavaliere su un cavallo bianco come il latte, che aveva agli zoccoli due ferri d'argento e due d'oro. Anche il cavaliere era vestito di bianco dalla testa ai piedi, e sui capelli bruni e ricciuti portava un bel cappello dalla piuma rosa.
- Chi sei? E cosa fai qui a Carterhaugh? - domandò di nuovo il cavaliere.
- Sono Lady Janet, - rispose con orgoglio la ragazza. - Sto raccogliendo rose di campo per mia madre, perché tutta questa terra mi fu donata da mio padre, e mi appartiene.
Il cavaliere la guardò con occhi freddi e grigi come le acque dell'Ettrick in un giorno di febbraio.
- La Regina delle Fate ha dato questa terra a me, Tamlin! - gridò. - Se tu vieni in questa terra, rischi molto!
- Questa terra è tua dal tramonto all'alba, - disse lei. - Non ne hai abbastanza?
Tamlin scosse la testa, corrucciato, e il cavallo bianco nitrì, colpendo violentemente il suolo con uno zoccolo.
- Ieri ho giocato qui con ventiquattro compagne, - disse Janet. - C'era abbastanza spazio per tutte, e anche di più: oggi ci dovrebbe essere abbastanza spazio per me e per te!
Poi si voltò, e cominciò a raccogliere i bianchi boccioli spruzzati di un rosa delicato.
La rabbia allora scomparve dalla faccia di Tamlin, e il suo sguardo divenne strano e triste.
- Resta pure, per oggi, e raccogli le rose per tua madre, - disse. - Ma poi Carterhaugh sarà solo mia.
Janet non disse niente: raccolse l'ultima rosa di campo, poi guardò il cielo blu, ascoltò il trillo armonioso dell'allodola che volava sopra di lei. Anche il cavaliere bianco guardò in alto con il suo sguardo triste, e disse sospirando:
- Quanto tempo è passato, da quando ho sentito il canto dell'allodola... Era un mattino di maggio, e non ricordavo più come fosse meraviglioso!
Poi diede uno strattone alle redini, e il cavallo bianco come il latte galoppò via, mentre Janet raccoglieva la gonna di seta con la mano sinistra, e tornava lentamente verso casa.
Il mattino seguente, quando si svegliò, si stirò a lungo, e sorrise al sole appena levato, e si chiese cosa avrebbe fatto in quella giornata.
"Raccoglierò fiori per mia madre, che mi ama tanto, - pensò. - Raccoglierò anche ramoscelli di ginestra verde pieni di fiori dorati, quelli del cespuglio che cresce vicino al pozzo di Carterhaugh, che mi appartiene."
Così indossò il vestito di seta verde come l'erba e le pantofole rosse come le bacche di sorbo selvatico, pettinò i lunghi capelli biondi, fece una treccia, se l'avvolse alla testa e la fissò con due pettini d'oro ornati da smeraldi verdi come il vestito e come l'erba di Carterhaugh. Poi raccolse la gonna e corse nel prato, fino alla ginestra che cresceva accanto al pozzo. Aveva appena spezzato il primo rametto, quando sentì dietro di sé una voce arrabbiata:
- Chi sei? Cosa fai qui a Carterhaugh?
Janet si voltò: ecco il cavaliere sul cavallo bianco come il latte, con due ferri d'oro e due ferri d'argento sugli zoccoli: ma questa volta la piuma sul cappello del cavaliere era dorata come il fiore di ginestra.
- Io sono Lady Janet, - rispose tranquilla la ragazza, - e sto raccogliendo ginestra dorata per mia madre, poiché tutta questa terra mi appartiene.
- Appartiene a me! - gridò Tamlin con furia, e i suoi occhi grigi erano crudeli come il fiume Yarrow quando si scioglie la neve sulle colline, e l'acqua precipita giù a caccia di pecore affaticate o viandanti dispersi.
- Non ricordi? - disse la ragazza a bassa voce. - Ieri ho raccolto un mazzo di rose per mia madre, e abbiamo ascoltato l'allodola che cantava. C'era abbastanza spazio per tutti e due: perché non dovrebbe essercene anche oggi?
Poi si voltò, e ricominciò a raccogliere i rami verdi dai fiori dorati.
Sul volto di Tamlin la rabbia si spense, e i suoi occhi grigi si riempirono di uno sguardo triste.
- Poiché sei qui a raccogliere ginestre per tua madre, rimani pure, - disse. - Ma dopo, Carterhaugh sarà soltanto mia.
Senza parlare, la bella Janet raccolse l'ultimo rametto di ginestra dorata, e poi sedette sull'erba a guardare, oltre lo Yarrow, le lontane brughiere, ascoltando il canto lamentoso del chiurlo: e Tamlin la guardava con i suoi occhi tristi e sospirava.
- E' passato tanto tempo dall'ultima volta che ho ascoltato il chiurlo, in una mattina di maggio, che quasi avevo dimenticato come è meraviglioso, - disse, poi diede uno strattone alle redini e il cavallo bianco come latte galoppò via.
Janet si alzò, raccolse con la sinistra la gonna di seta e tornò a casa lentamente.
Il mattino dopo, al risveglio, la ragazza decise di raccogliere un mazzo di giacinti di campo per sua madre, e siccome i giacinti più belli crescevano vicino al pozzo di Carterhaugh, si vestì, si pettinò, raccolse la gonna e corse al prato.
Quando fu al pozzo, c'era Tamlin che l'aspettava sul suo cavallo bianco come il latte, e la piuma sul cappello era blu come il giacinto.
Questa volta, però, il cavaliere non fece domande, e rimase in silenzio a guardarla mentre lei raccoglieva i lunghi steli delle campanule, e quando il mazzo fu completo lui scese da cavallo e camminarono insieme fino alla sponda dello Yarrow, e là sedettero, ascoltando il grido malinconico di una pavoncella.
- Quanto tempo è passato da quando ho sentito la pavoncella gridare! - disse Tamlin guardando gli occhi di Janet. - Quasi avevo dimenticato com'è meraviglioso...
La ragazza inclinò il capo, e domandò:
- Non ci sono forse uccelli nella Terra delle Fate? Perché sospiri quando senti il canto dell'allodola, del chiurlo o della pavoncella?
- No. - lui rispose abbassando gli occhi sull'acqua del fiume. - Le Fate hanno la loro musica per danzare, e non hanno bisogno del canto degli uccelli. Ma io li ricordo ancora, perché sono nato mortale.
Lei aspettò in silenzio, guardando l'acqua come lui, finché il cavaliere riprese a raccontare:
- Mio padre era Randolph, Conte di Murray, e mia madre era la donna più dolce del mondo. Ma un giorno, mentre ero a caccia sulle colline, la Regina delle Fate mi vide, e mi volle come suo cortigiano. Chiamò dal Nord un vento freddo che mi gelò fino al midollo delle ossa, e io caddi da cavallo e restai per terra svenuto. Poi la Regina delle Fate mi fece portare su quella collina verde, laggiù, dove mi bagnò con erbe magiche e fece strani incantesimi, e mi diede da bere il latte delle capre invisibili di Nettygan... E ora sono Tamlin, il suo cavaliere prediletto, e ogni giorno che passa la mia memoria delle cose della vita scompare, come scompare un sogno lungo una giornata...
- Non sei felice di vivere nella Terra delle Fate, dove nessuno ha dolore e malattia? - chiese la bella Janet.
- Una volta lo ero, - lui rispose. - Ma adesso che ti ho incontrato, vorrei che l'incantesimo finisse per poterti sposare.
E lei rispose:
- Quello che la Regina delle Fate fa, io lo posso disfare, perché nemmeno io sarò felice finché tu non tornerai a essere mortale e io ti potrò sposare. Dimmi cosa bisogna fare, e lo farò.
Lui la guardò negli occhi e disse:
- L'incantesimo è potente, e per vincerlo dovrai essere più coraggiosa di tutte le ragazze della Terra di Confine: dovrai tornare a casa, e fare la tua vita per tutta l'estate e l'autunno, senza mai pensare a Tamlin, e senza venire mai, né di giorno né di notte, nella verde piana di Carterhaugh. Quando arriverà l'ultima notte di ottobre, la vigilia di Ognissanti, se avrai ancora il coraggio di rompere l'incantesimo, dovrai andare a Miles Cross e aspettare là, perché a mezzanotte la Regine delle Fate passerà a cavallo con tutti i suoi cavalieri, per andare a danzare sulla verde erba di Carterhaugh.
- E come potrò riconoscerti fra tanti cavalieri? - disse la bella Janet.
- Ascolta attentamente, - disse Tamlin, sfiorandole con le dita fredde il dorso della mano. - Ascolta bene, e fa esattamente quello che ti sto per dire, perché da questo dipenderà il mio destino: e per quanto la Terra delle Fate sia un incanto, io desidero solo ritornare mortale e vivere insieme a te.
Dunque, quando sarai là a Miles Cross la notte della vigilia di Ognissanti, tu sentirai per prima cosa il suono dei flauti fatati, suonati dai Folletti di Grastacombe, e poi i colpi dei tamburi fatati, suonati da quelli di Norsival, e poi verrà un portabandiera vestito di foglie d'argento, con una bandiera rossa, e guiderà la prima compagnia, chiamata degli Uomini Leggeri: ma tu non badare a loro, e non ti muovere, perché io non sarò fra quelli.
Poi arriverà un portabandiera vestito di foglie d'oro, e porterà una bandiera verde, alla testa della seconda compagnia di cavalieri, detti i Fratelli Senza Tristezza: ma tu non agitarti, non muovere un dito, perché io non sarò fra quelli.
Alla fine vedrai un portabandiera vestito di foglie rosse, che porterà una bandiera bianca, davanti alla terza compagnia, detta dei Cavalieri Del Lungo Grido, e allora cercami attentamente con gli occhi. Il primo cavaliere avrà un'armatura nera, e cavalcherà una bestia nera come la notte: non sarà Tamlin. Il secondo avrà un'armatura marrone come una castagna, e anche il suo cavallo: ma non sarà Tamlin. Il terzo cavaliere sarà bianco, con il cavallo bianco come latte: e sarò io. Porterò una stella d'oro in fronte, e avrò un guanto bianco sulla destra, ma la sinistra nuda, e in quella terrò la mano della Regina delle Fate. Appena mi vedrai, mia bella Janet, salta fuori come una volpe, afferra le redini, e tirami giù da cavallo, e tienimi stretto qualunque cosa accada, perché la Regina delle Fate si arrabbierà molto, e userà molti trucchi per fare in modo che tu mi lasci andare: e se tu mi lascerai andare, sarà per sempre.
- Farò come hai detto, Tamlin, o che io abbia un dolore per ogni capello della mia testa, - promise la bella Janet.
Così se ne andò, e per tutta l'estate e tutto l'autunno non ritornò più nel verde prato di Carterhaugh, e si teneva la mente occupata tessendo e filando, per non pensare al cavaliere bianco.
Quando arrivò l'ultima notte di ottobre, vigilia di Ognissanti, Janet si avvolse nel mantello verde erba, e si mise in cammino alla luce della luna verso Miles Cross.
C'era un silenzio terribile, e nel cuore della ragazza c'era il gelo della paura, perché molte cose terribili erano avvenute in quel tratto di campagna, o almeno si raccontava che fossero avvenute.
Era nel piccolo cimitero della chiesetta di Saint George, per esempio, che Mary Gull la lavandaia, cento anni prima, era stata trascinata in una tomba da magre e bianche mani.
Era sul muretto del ponte di Castlefrog, si diceva, che i diavoli più cattivi dell'inferno venivano ad arrotare i loro denti neri.
Era dai rami della quercia di Pendritt Place che, si raccontava, si allungavano nella notte corde viscide, alla ricerca di colli viventi.
Ma nonostante quel nocciolo di terrore nel cuore, e nonostante sentisse la radice di ogni capello tirarle sulla testa, Janet camminava, perché doveva essere la più coraggiosa, per liberare il cavaliere bianco.
Finalmente arrivò a Miles Cross, e si mise ad aspettare. C'era ancora silenzio, ma la paura del cuore se n'era andata, e i capelli non tiravano più, e si muovevano appena a un leggero vento notturno.
Ed ecco, sentì un lontano rumore di flauti, e poi di tamburi fatati, e capì che stava arrivando la processione della Regina delle Fate, per andare a danzare sul verde di Carterhaugh.
Per primo arrivò il portabandiera con la bandiera rossa, ma la ragazza restò ferma e nascosta, e lasciò passare quella compagnia, perché non era quella di Tamlin.
Poi passò il portabandiera con la bandiera verde, e di nuovo la bella Janet non si mosse, perché non era quella la compagnia del suo amico.
Ma quando arrivò il portabandiera con la bandiera bianca, con il cuore che le batteva forte, lasciò passare il cavaliere dall'armatura nera, sul suo cavallo colore della notte, e lasciò passare il cavaliere marrone: ma quando vide il cavaliere bianco, con la stella d'oro in fronte, sul suo cavallo colore del latte, e il guanto sulla destra, e la sinistra nuda, che reggeva la mano della Regina delle Fate che cavalcava accanto a lui, Janet prese un fondo respiro, corse avanti, afferrò le redini bianche, prese la mano guantata di Tamlin e lo tirò giù dalla sella, stringendolo forte tra le braccia.
Le fate che seguivano la Regina cominciarono a strillare, e la Regina fermò il cavallo, e guardò la ragazza con la furia negli occhi. Le Fate sono belle, ma quando si infuriano possono fare più paura delle streghe.
- Pensi di poter scappare, Tamlin? - gridò, e alzò un dito della mano destra. Subito il cavaliere bianco si trasformò in una grande lucertola verde che tremava e si agitava per liberarsi: ma Janet guardò negli occhi dolci della creatura, e la tenne stretta contro di sé.
La Regina delle Fate era ancora più furiosa. Alzò la mano destra, e Tamlin si trasformò in un serpente verde che si contorceva e si dimenava per liberarsi: ma Janet lo guardava negli occhi tristi e lo tenne stretto.
- Dunque vuoi sfidare la Regina delle Fate! - gridò la Regina, e alzò il braccio destro: subito Tamlin divenne un cervo selvaggio che scalciava e combatteva per liberarsi, ma Janet guardava i suoi occhi grigi, e lo teneva.
Allora la Regina delle Fate capì che l'incantesimo era rotto, e che non poteva fare più niente per tenere Tamlin al suo servizio. Lentamente sollevò la mano sinistra e ridiede al giovane l'aspetto umano. Subito Janet lo coprì con il suo mantello verde, e rimasero insieme accanto alla strada mentre la processione proseguiva verso la piana di Carterhaugh.
Il giorno dopo, a Ognissanti, Janet e Tamlin si fecero la promessa di matrimonio, e il primo giorno dell'anno nuovo le campane della chiesa di Selkirk suonarono a festa, annunciando a tutta la gente che viveva fra lo Yarrow e l'Ettrick che Tamlin, figlio del Conte di Murray, aveva sposato la bella Lady Janet, che con il suo amore e il suo coraggio lo aveva liberato.
- Ascolta attentamente, - disse Tamlin, sfiorandole con le dita fredde il dorso della mano. - Ascolta bene, e fa esattamente quello che ti sto per dire, perché da questo dipenderà il mio destino: e per quanto la Terra delle Fate sia un incanto, io desidero solo ritornare mortale e vivere insieme a te.
Dunque, quando sarai là a Miles Cross la notte della vigilia di Ognissanti, tu sentirai per prima cosa il suono dei flauti fatati, suonati dai Folletti di Grastacombe, e poi i colpi dei tamburi fatati, suonati da quelli di Norsival, e poi verrà un portabandiera vestito di foglie d'argento, con una bandiera rossa, e guiderà la prima compagnia, chiamata degli Uomini Leggeri: ma tu non badare a loro, e non ti muovere, perché io non sarò fra quelli.
Poi arriverà un portabandiera vestito di foglie d'oro, e porterà una bandiera verde, alla testa della seconda compagnia di cavalieri, detti i Fratelli Senza Tristezza: ma tu non agitarti, non muovere un dito, perché io non sarò fra quelli.
Alla fine vedrai un portabandiera vestito di foglie rosse, che porterà una bandiera bianca, davanti alla terza compagnia, detta dei Cavalieri Del Lungo Grido, e allora cercami attentamente con gli occhi. Il primo cavaliere avrà un'armatura nera, e cavalcherà una bestia nera come la notte: non sarà Tamlin. Il secondo avrà un'armatura marrone come una castagna, e anche il suo cavallo: ma non sarà Tamlin. Il terzo cavaliere sarà bianco, con il cavallo bianco come latte: e sarò io. Porterò una stella d'oro in fronte, e avrò un guanto bianco sulla destra, ma la sinistra nuda, e in quella terrò la mano della Regina delle Fate. Appena mi vedrai, mia bella Janet, salta fuori come una volpe, afferra le redini, e tirami giù da cavallo, e tienimi stretto qualunque cosa accada, perché la Regina delle Fate si arrabbierà molto, e userà molti trucchi per fare in modo che tu mi lasci andare: e se tu mi lascerai andare, sarà per sempre.
- Farò come hai detto, Tamlin, o che io abbia un dolore per ogni capello della mia testa, - promise la bella Janet.
Così se ne andò, e per tutta l'estate e tutto l'autunno non ritornò più nel verde prato di Carterhaugh, e si teneva la mente occupata tessendo e filando, per non pensare al cavaliere bianco.
Quando arrivò l'ultima notte di ottobre, vigilia di Ognissanti, Janet si avvolse nel mantello verde erba, e si mise in cammino alla luce della luna verso Miles Cross.
C'era un silenzio terribile, e nel cuore della ragazza c'era il gelo della paura, perché molte cose terribili erano avvenute in quel tratto di campagna, o almeno si raccontava che fossero avvenute.
Era nel piccolo cimitero della chiesetta di Saint George, per esempio, che Mary Gull la lavandaia, cento anni prima, era stata trascinata in una tomba da magre e bianche mani.
Era sul muretto del ponte di Castlefrog, si diceva, che i diavoli più cattivi dell'inferno venivano ad arrotare i loro denti neri.
Era dai rami della quercia di Pendritt Place che, si raccontava, si allungavano nella notte corde viscide, alla ricerca di colli viventi.
Ma nonostante quel nocciolo di terrore nel cuore, e nonostante sentisse la radice di ogni capello tirarle sulla testa, Janet camminava, perché doveva essere la più coraggiosa, per liberare il cavaliere bianco.
Finalmente arrivò a Miles Cross, e si mise ad aspettare. C'era ancora silenzio, ma la paura del cuore se n'era andata, e i capelli non tiravano più, e si muovevano appena a un leggero vento notturno.
Ed ecco, sentì un lontano rumore di flauti, e poi di tamburi fatati, e capì che stava arrivando la processione della Regina delle Fate, per andare a danzare sul verde di Carterhaugh.
Per primo arrivò il portabandiera con la bandiera rossa, ma la ragazza restò ferma e nascosta, e lasciò passare quella compagnia, perché non era quella di Tamlin.
Poi passò il portabandiera con la bandiera verde, e di nuovo la bella Janet non si mosse, perché non era quella la compagnia del suo amico.
Ma quando arrivò il portabandiera con la bandiera bianca, con il cuore che le batteva forte, lasciò passare il cavaliere dall'armatura nera, sul suo cavallo colore della notte, e lasciò passare il cavaliere marrone: ma quando vide il cavaliere bianco, con la stella d'oro in fronte, sul suo cavallo colore del latte, e il guanto sulla destra, e la sinistra nuda, che reggeva la mano della Regina delle Fate che cavalcava accanto a lui, Janet prese un fondo respiro, corse avanti, afferrò le redini bianche, prese la mano guantata di Tamlin e lo tirò giù dalla sella, stringendolo forte tra le braccia.
Le fate che seguivano la Regina cominciarono a strillare, e la Regina fermò il cavallo, e guardò la ragazza con la furia negli occhi. Le Fate sono belle, ma quando si infuriano possono fare più paura delle streghe.
- Pensi di poter scappare, Tamlin? - gridò, e alzò un dito della mano destra. Subito il cavaliere bianco si trasformò in una grande lucertola verde che tremava e si agitava per liberarsi: ma Janet guardò negli occhi dolci della creatura, e la tenne stretta contro di sé.
La Regina delle Fate era ancora più furiosa. Alzò la mano destra, e Tamlin si trasformò in un serpente verde che si contorceva e si dimenava per liberarsi: ma Janet lo guardava negli occhi tristi e lo tenne stretto.
- Dunque vuoi sfidare la Regina delle Fate! - gridò la Regina, e alzò il braccio destro: subito Tamlin divenne un cervo selvaggio che scalciava e combatteva per liberarsi, ma Janet guardava i suoi occhi grigi, e lo teneva.
Allora la Regina delle Fate capì che l'incantesimo era rotto, e che non poteva fare più niente per tenere Tamlin al suo servizio. Lentamente sollevò la mano sinistra e ridiede al giovane l'aspetto umano. Subito Janet lo coprì con il suo mantello verde, e rimasero insieme accanto alla strada mentre la processione proseguiva verso la piana di Carterhaugh.
Il giorno dopo, a Ognissanti, Janet e Tamlin si fecero la promessa di matrimonio, e il primo giorno dell'anno nuovo le campane della chiesa di Selkirk suonarono a festa, annunciando a tutta la gente che viveva fra lo Yarrow e l'Ettrick che Tamlin, figlio del Conte di Murray, aveva sposato la bella Lady Janet, che con il suo amore e il suo coraggio lo aveva liberato.
(Storie di meraviglia. Scelte da Berlie Doherty. Edizioni EL, 2000)
sabato 31 ottobre 2015
lunedì 26 ottobre 2015
Magia nel sonno profondo
Non siamo soliti dedicare particolare attenzione ad avvenimenti che si ripetono dovunque e tutti i giorni: per lo meno, non li consideriamo meritevoli di una ricerca approfondita.
Tutti gli esseri viventi dormono; lo fanno persino le piante quando arriva il momento. Magari, neppure il fatto che le pietre non russino, ci autorizza a ritenere che non dormano.
La considerazione che sin dalla nascita alterniamo di continuo veglia e sonno, non permette che in noi sorga un sentimento di meraviglia, allorché impariamo ad avvederci che, spesso senza un motivo in apparenza sufficiente, perdiamo in pochissimi minuti conoscenza e la riprendiamo al risveglio altrettanto rapidamente. E' molto raro che il tale o il talaltro un bel momento si chieda: cosa mi accade esattamente durante il sonno profondo?
La questione non è risolvibile di primo acchito e così si lascia la risposta al... medico! La si potrebbe lasciare altrettanto bene ad un avvocato. Chi non indaga di persona in questo campo o in campi simili, non conquisterà mai la conoscenza; al massimo arricchirà, nel corso del tempo, il suo patrimonio linguistico di quella terminologia greca che caratterizza le scienze psicologiche e fisiologiche.
Si riderebbe in faccia a chi affermasse che, nel regno del sonno profondo, son sopite le cause prime da cui provengono quelle azioni che portiamo a compimento durante la veglia. L'erudito obietterà: se così fosse, coloro che non dormono da lungo tempo - e sono noti i casi di persone che non hanno dormito per anni! - piomberebbero nell'abulia più totale.
Una tale confutazione è corretta solo in apparenza; chi vi rifletta con attenzione, sarà in grado da solo di comprendere perché essa non può reggere. Anzitutto, se un essere umano è in grado di dimostrare inconfutabilmente di non aver mai dormito nel corso della propria vita, si dovrebbe sottoscrivere la convinzione corrente che il sonno sia semplicemente un riposarsi e null'altro! Esistono, al contrario, innumerevoli indagini - riproposte in ogni epoca - che dimostrano come, almeno in certe condizioni, durante il sonno si conseguano risultati superiori, addirittura sul piano della pura razionalità, di quanto si sia in grado di fare durante la limpida coscienza di veglia.
Per far qui un esempio a tutti ben noto: uno studente - credo che più tardi divenne una personalità molto in vista - si alzò, una notte, in stato di sonnambulismo e risolse un compito di matematica che aveva lasciato sul suo tavolo la sera prima. Lo fece in modo così perfetto che gli sarebbe stato impossibile durante la veglia, viste le scarse cognizioni che possedeva sulla materia. Alzatosi, il mattino seguente, ritenne che qualcun altro avesse portato a termine il lavoro; lo riconobbe come di sua mano solo dalla calligrafia: a tal punto aveva del tutto dimenticato ciò che aveva fatto fisicamente durante il sonno.
La convinzione corrente che il sonno abbia, come scopo esclusivo, il superamento della stanchezza corporea, è totalmente falsa.
I sonnambuli si svegliano - come mi sono potuto convincere ripetutamente, persino dopo faticosissimi vagabondaggi notturni di parecchie ore - altrettanto freschi dell'uomo più sano del mondo, se non addirittura molto più riposati.
Il vecchio adagio che dice: "quando l'uomo terreno chiude gli occhi, li apre quello spirituale", oltre al noto consiglio espresso dal proverbio: "dormici sopra prima di decidere", ed a molte altre sentenze, indicazioni e cenni pratici, mi hanno, già dalla prima giovinezza, rafforzato nella vaga convinzione che vi possano essere sorgenti di forza e sapere magici talmente lontani dalla nostra coscienza di veglia da costringerci ad immergerci profondamente nei recessi del sonno, se vogliamo accostarci ad esse.
Il perno è nel sonno profondo: lì è il punto d'appoggio dell'universo, sul quale può essere poggiata la leva di Archimede per far uscire le stelle dalle loro orbite. Questo è però uno dei compiti più difficili che ci si trova dinanzi, sul sentiero dell'autodominio. Sono necessari, per raggiungerlo, determinati ausili di pensiero. Su dieci esperimenti ne son falliti, per quanto mi riguarda, nove buoni.
Voglio qui descrivere due casi in cui gli esperimenti ebbero successo.
Una sera - si era nel 1895 a Praga, mi coricai con il proposito di recarmi "spiritualmente" durante il sonno (o di trasferirmici) nell'appartamento, a me sconosciuto, di un mio amico, il pittore Arthur von Rimay, che allora frequentavo molto e che, come me, era particolarmente nel campo dei problemi metafisici. Volevo, così mi ripromisi, far risuonare a distanza nella sua camera alcuni colpi di bastone.
A tal scopo - o, più precisamente, per poter meglio immergermi nell'autosuggestione che mi ero riproposto - mi misi a letto, tenendo un bastone da passeggio stretto in mano e sforzandomi, al tempo stesso, di addormentarmi.
Avevo la sensazione di dover calmare il battito cardiaco, se volevo trattenere un pensiero.
Questo lo si può ottenere facilmente, grazie alla via traversa della regolazione del respiro e del sentimento.
Grazie ad un "caso" mi riuscì di addormentarmi di colpo. Seguì un sonno breve, profondo, completamente privo di sogni, simile alla catalessi. Un senso di terrore quasi folle mi assalì d'un tratto e mi risvegliò dopo circa dieci minuti. Ero in un bagno di sudore freddo ed il cuore martellava in modo talmente forte da darmi il soffocamento. Al tempo stesso, ebbi la singolare certezza interiore che l'esperimento fosse riuscito.
Guardai l'orologio e annotai l'ora. Mi sforzai dunque per ore di frugare nella memoria, alla ricerca di qualche ricordo che mi potesse dare un chiarimento su come avessi agito a distanza: tutto era immerso in un'oscurità impenetrabile: "Quindi ho trovato il perno!", dissi a me stesso. Ero talmente curioso da no riuscire ad attendere che si facesse giorno.
Verso le dieci di mattina mi recai, come al solito, dal mio amico. Stavo in agguato, attendevo che mi comunicasse qualcosa, Invano: parlava di tutto, tranne che di eventi notturni di qualsiasi genere. Dopo un po' gli chiesi titubante: "Non hai per caso sognato qualcosa di strano, stanotte, o...?".
"Allora eri tu!" m'interruppe il mio amico. Lo lasciai raccontare, senza pronunziare una sola parola. Mi disse: "Stanotte, poco dopo l'una (e l'ora era quella che risultava anche a me), mi sono improvvisamente svegliato, spaventato da un forte rumore proveniente dalla camera vicina; era come se qualcuno stesse battendo sul tavolo con un bastone a intervalli regolari. Quando il rumore divenne più forte saltai dal letto, corsi nella camera accanto e accesi la luce.
"Si era appena fatto chiaro che anche il rumore prese tosto un timbro diverso; era ancora molto forte, ma aveva un tono come di distanza, quasi un'eco. I colpi provenivano dal grande tavolo che si trovava nel centro della stanza. Non si notava nulla di strano. Alcuni minuti più tardi sono arrivate mia madre e la vecchia governante, in un comprensibile stato di angoscia. Erano state anche loro destate dal rumore e credevano che ci fossero i ladri in casa. Dopo un po', il rumore si fece sempre più debole, sino a che tacque del tutto. Scuotendo il capo ci rimettemmo infine a dormire".
Così il racconto del mio amico Arthur von Rimay, che oggi vive a Vienna e può confermare in qualsiasi momento che quanto scrivo è la pura verità.
"Ma perché non mi hai raccontato tutto questo subito, da solo? Perché hai aspettato che ne parlassi io, per quanto solo per vaghi accenni? E' abbastanza strano, no?" domandai.
"Riesco a spiegarmi la cosa, a questo punto, soltanto in un modo", fu la risposta esitante. "E cioè che la profonda impressione che mi aveva provocato il fatto, si sia stranamente dileguata nel corso delle ore di sonno che l'hanno seguito; direi quasi di avere l'impressione di aver soltanto sognato (adesso sento la cosa così distante da me) se non ne avessi parlato, appena un paio d'ore fa, a colazione con mia madre. Di' un po', hai veramente fatto risuonare i colpi di bastone a distanza grazie ad un'azione della volontà?"
Per dimostrarlo gli mostrai un biglietto sul quale avevo annotato, durante la notte, in brevi frasi, quanto avevo in animo di tentare.
Per quanto singolare fosse il fatto in sé, mi sembra ancor più significativa la circostanza concomitante che la cosa era rimasta impressa nella memoria del mio amico in maniera completamente diversa da come avviene per i fatti della vita di tutti i giorni. A rigore, si dovrebbe ritenere che essa, proprio grazie alla sua straordinarietà, sarebbe dovuta rimanere invece ben più profondamente impressa nel ricordo!Più tardi potei constatare che in casi simili, ed in particolare nelle sedute spiritiche e medianiche, gli avvenimenti magici sono poco ancorati nella memoria o mostrano la tendenza a dileguarsi rapidamente.
Alcuni anni più tardi mi ammalai gravemente. Mi stavo spostando, una volta, col treno, dal santuario Lahmann, vicino Dresda, verso Praga. Si era nei pressi di Pirna, quando, nello scompartimento, mi venne, con mio grande rincrescimento, improvvisamente in mente che mi ero dimenticato di scrivere qualcosa di molto importante per il rapporto con la mia fidanzata - oggi mia moglie - ed oltretutto avevo indirizzato la lettera al suo indirizzo, invece che, come usavo fare, al fermo posta. Ambedue gli errori potevano distruggere il nostro futuro.
Inviare un telegramma era impossibile, per diversi motivi. La fronte mi si coprì di sudore. Impossibile trovare una scappatoia a tale situazione! Mi ritornò in mente quell'esperimento con il mio amico Arthur. Ciò che allora era riuscito, poteva funzionare un'altra volta!
No, doveva funzionare, dato che v'era in gioco tutto! Mi ripromisi di apparirle dinanzi... alla luce del giorno! Ma come? Allo specchio, mi venne l'idea. Voglio comparirle davanti e le comparirò - decisi - con la mano alzata in cenno di ammonizione e le trasmetterò il pensiero: devi fare questo e quest'altro!
Espressi l'ordine in chiare parole, rappresentandomele impresse in lettere di fuoco, ad occhi chiusi, sino a che non potessero più scomparire dall'immaginazione.
A questo punto non rimaneva che addormentarsi il più rapidamente possibile e trasferirsi a Praga!
Fare del cuore un apparecchio trasmittente, rallentandone i battiti: questa era la chiave, ed al tempo stesso astrarre i sensi dal mondo circostante! Gli occhi si possono chiudere facilmente, ma come fare con le orecchie, quando a destra ed a sinistra ci sono delle donnette schiamazzanti?
Implorai risolutamente il mio cervello: fa dunque che diventi sordo, vecchio mio! Ma sembrava che anche lui fosse sordo. Alla fine fu il cuore, così mi parve, a togliermi dì'impaccio, dato che un'altra volta, come allora, piombai d'un colpo in un sonno profondo.
Mi risvegliai dopo pochi minuti. Il mio polso era questa volta straordinariamente lento: contai non più di quaranta battiti! Contemporaneamente provai un sentimento di vittoria, così consolante e rasserenante, come raramente mi è capitato di provare in tutta la mia vita! Volli provare a far sorgere nel mio petto un mezzo sentimento di dubbio, per mettere alla prova tanta sicurezza interiore; da tutto il mio corpo sgorgò una risata, come se esultasse in me ogni goccia di sangue.
Appena giunto a Praga mi precipitai dalla mia fidanzata. la trasmissione di pensiero aveva ottenuto pieno successo! Così mi riferì la cosa lei: "Quel pomeriggio, ad una certa ora, circa mezz'ora dopo pranzo, mi ero coricata sul divano, quando fui vinta da una singolare sonnolenza. Mi ero appena assopita, quando mi sentii scuotere e mi risvegliai. Il mio sguardo si posò...".
"Sullo specchio!" la interruppi.
"No, non ci sono specchi in camera mia", ribatté la fidanzata. "No, su di un mobile lucido vicino al sofà. Sulla sua superficie riflettente vidi una figura alta circa due spanne, avvolta in un mantello chiaro, con la mano alzata in tono di ammonizione. L'immagine svanì poco dopo".
Dalla conversazione più dettagliata che nacque da ciò, risultò che mia moglie aveva fatto tutto ciò che io desideravo; solo che l'aveva fatto molto più compiutamente e meglio di quanto io avessi immaginato. E ciò che doveva fare non era punto facile, né le sarebbe venuto in mente senza il mio avvertimento, dato che avrebbe dovuto essere a conoscenza di certi particolari, che effettivamente ignorava. "Ho come ubbidito ad un'ispirazione", fu il suo commento.
Il mago medievale Agrippa di Nettesheim pronunziò la frase: "Nos habitat non tartara sed nec sidera coeli: spiritus in nobis qui viget, illa facis".
All'incirca: "Né le stelle del cielo, né l'inferno: in noi è solo lo spirito a tutto operare... ".
Questo motto è divenuto per me una guida per la mia intera esistenza. (Magie im Tiefschlaf, in Die Gegenwert, Literatur & Unterhaltungsbeil, Der Saarbrucker Zeitung, 18 febbraio 1928)
(Gustav Meyrink, Il diagramma magico. Basaia, 1983)
martedì 20 ottobre 2015
La Buona Annata's Literary Supplement: Solo andata
Joe Gibson era in qualche posto più in su dell'inferno, ma non sapeva affatto dove, e non gliene importava un accidente finché quel bancone del bar restava davanti a lui. Ora stava ridendo, mentre qualcuno cantava con voce triste e lontana. Lui disse: "Sì, un altro", e poi...
Ecco comparirgli davanti quel tipo col soprabito marrone.
Uno strano tipo dall'aria un po' pazza: teneva le mani ficcate in tasca, il bavero sollevato e la falda del cappello abbassata, come un gangster da strapazzo in un film poliziesco.
Il pazzoide stava parlando, ma ci volle un buon minuto prima che le parole raggiungessero il cervello di Gibson e acquistassero un senso.
"Il tuo guaio, amico, è che hai bisogno di un po' di vacanza", diceva il pazzoide. "Diciamo che devi cambiar aria".
"Certo, certo", annuì Gibson, cercando il bicchiere. Lo aveva perso da qualche parte in mezzo alla nebbia.
"Ti ho osservato, amico", continuò il pazzoide. "Mi son detto: ecco un uomo nei guai. Ecco un uomo che ha bisogno di tirarsi fuori da qui. Tu mi sembri perso, amico".
"Certo", disse Gibson. "Certo, sono un'anima persa. Vuol bere qualcosa oppure togliersi cortesemente dai piedi?".
Quel piccolo pazzoide non gli diede minimamente retta.
Continuò a parlare con voce tremendamente seria. Una vecchia zitella.
"Lavoro per la Ace Travel Bureau, socio. Ti piacerebbe comprarti un biglietto?".
"Per dove?", chiese Gibson, come se gliene importasse.
Il pazzoide in soprabito marrone scrollò le spalle: "Che ne diresti di un biglietto per Marte?", propose.
Gibson lasciò che la cosa gli galleggiasse nel cervello per un buon minuto. Poi sorrise: "Marte, eh? Quanto mi verrebbe a costare?".
"Oh, non so. Per te poco. Diciamo due dollari e ottantotto".
"Due dollari e ottantotto fino a Marte? Mi sembra molto ragionevole". Gibson fece una pausa. "Andata e ritorno o solo andata?".
Il pazzoide tossicchiò come per scusarsi.
"Uhm... solo andata. Vedi, non siamo ancora riusciti a trovare il modo di organizzare il viaggio di ritorno".
"Immagino che non venderete molti biglietti", commentò Gibson.
"Abbiamo i nostri clienti", disse il tizio in soprabito. "T'interessa, allora?".
"No, non credo", Gibson trovò il bicchiere. Lo sollevò attraverso la nebbia e ingollò lo scotch con un brivido.
"Allora t'interesserà qualche altra occasione, forse", insisté il pazzoide.
"Senta, lei... ", sbottò Gibson all'improvviso.
"E' da un po' di tempo che ho il tuo nome sulla lista, amico, bofonchiò il pazzoide. Sembrò non essersi accorto che Gibson aveva stretto la mano a pugno intorno al bicchiere.
"So che presto o tardi faremo affari".
"E se li facessimo subito?", disse Gibson, tra i denti.
Tirò indietro la mano, ruotando il corpo, pronto a spaccare il muso al pazzoide. Tese i muscoli e pregustò l'attimo in cui avrebbe colpito il segno, duramente. Il pugno scattò... e volò via al di là delle stelle, nell'abisso di tenebra. Joe Gibson seguì il pugno e precipitò attraverso le tenebre in un tunnel, sempre più giù, più giù.
"Ah! Ma che bella botta ti sei preso, ieri sera", esclamò Maxie, agitando la tazza prima di avvicinarla alle labbra di Joe Gibson. "Sbronzo eri... sbronzo marcio".
"Chiudi il becco", disse Gibson.
"Il grugno contro il pavimento del bar, K.O.", insisté Maxie, obbligando la gola riluttante di Gibson a ingurgitare il contenuto della tazza.
"Dimenticatene", disse lui, non appena poté parlare di nuovo.
Maxie scrollò le spalle.
"D'accordo, amico", annuì. "Io me ne dimenticherò. Meglio così... Ti organizzo un affare da cinquecento alla settimana con l'orchestra jazz più in voga del circondario, e tu che cosa mi combini? Te ne vai in giro a farti veder ciucco da mezza città, e poi vai giù lungo disteso come il tizio che fa la parte principale in Billboard. E mi dici di dimenticare. A questo punto sono disposto a dimenticare tutto, il che comprende anche te".
Gibson si rizzò a sedere sul letto. Si mosse molto svelto per un uomo in preda ai postumi di una sbornia.
"No, Maxie", esclamò, "non intendevo farlo. Davvero non volevo. Mi spiace, non avrei mai preso a pugni quel tizio se non avesse cominciato a fare lo scemo con quella storia di Marte. Io me ne stavo lì a farmi i fatti miei, quando lui si avvicina e comincia quello sproloquio su un viaggio. Così gli ho tirato un cazzotto e sono caduto sulla faccia".
Maxie lo fissò.
"Ho visto mentre succedeva, Joe", mormorò. "Tu eri in piedi al banco del bar, e non c'era nessuno intorno a te per un raggio di tre metri. Hai cominciato a borbottare, fra te e te, poi ti sei girato di scatto, hai mollato un pugno e sei crollato giù per il conto a dieci, dopo avere sventagliato l'aria".
"Ma quello svitato col soprabito marrone... ", cominciò Gibson.
"Non ho visto nessuno svitato con un soprabito marrone", fece Maxie, lentamente. "Tutto quello che ho visto, è stato uno svitato di nome Joe Gibson che è finito lungo disteso a terra, ubriaco fradicio".
Gibson sospirò: "E' così che è andata?".
"Proprio così".
"Ho avuto le traveggole", e rabbrividì.
Maxie si sedette sul letto.
"Ti ricordi i vecchi tempi, Joe?, gli chiese. "Tu eri un disgraziato venuto da Kansas City, quando ti tirai fuori da quel buco del Rialto. Suonavi alle festicciole a tariffe non sindacali. Io ti scoprii e ti procurai gli ingaggi. Ti feci lavorare. Feci emergere il tuo stile".
"Dove tieni il violino?", replicò Gibson. "Le tue parole hanno bisogno di un bello sfondo di musica zuccherosa".
"Non ti sto sviolinando", ribatté Maxie. "Ti sto semplicemente dicendo... ".
"Che cosa mi stai dicendo?", Joe si drizzò completamente, scostando la mano che Maxie gli aveva appoggiato sulla spalla. "D'accordo, allora. Mi hai tirato fuori dalla fogna e hai fatto di me un cornettista super. Non un comprimario, un super. Grosso quanto basta per un Goodman, uno Shaw, un Miller, chiunque, insomma. Ma certo che l'hai fatto! Sono proprio io quel Joe Gibson, il tizio che soffia il proprio cuore fuori dal tubo. Tu sei senz'altro capace di distinguere qualcosa di buono quando ti capita a portata di mano, perciò d'accordo, sei tu che mi hai fatto. Ma ti prendi il tuo dieci per cento, no? Sono io il musicista. Tu sei soltanto uno spacciatore di carne umana".
Maxie non batté ciglio, ma il suo sorriso era triste.
"Non è questo, Joe", sospirò. "Non voglio niente di più di quanto mi spetti. Tu eri un bravo ragazzo. Hai lavorato duro. Ma non più, adesso".
Si alzò dal letto. "Non capisco", proseguì. "Prima c'è stato quel numero fuori programma a Scranton, quando ti sei presentato ubriaco sul podio. E il modo con cui quasi tagliavi la corda da quell'orchestra che avevo messo su per la Rainbow Room. E quella volta che ti ho tirato fuori da quel pasticcio a Chicago, quando non ti sei presentato per la registrazione alla Decca. Fra quella tua pupattola sballata e il whisky ti stai facendo una bella reputazione... "Joe Gibson, uno dei migliori trombettisti sulla piazza! Ma non impegnate denaro su di lui, perché si è fatto un nome anche con le pupattole bionde e il bourbon".
Joe Gibson era quasi piegato in due sulla sedia. Teneva la testa china e singhiozzava.
"Va bene", concluse Maxie. "Non so che cosa ti abbia preso. Non so che cosa ti faccia paura. Forse ne uscirai tutto all'improvviso. Non farmi promesse, però. Vedrò che cosa potrò fare. Forse riuscirò a sistemare quell'ingaggio, il resto dipende da te. Prenditi un po' di riposo, verrò da te domani".
Maxie uscì. Lui scivolò sotto le coperte. Il suo volto smise un po' per volta di contrarsi. Si preparò a dormire.
E il telefono squillò. Gibson fece scivolare la mano sul ricevitore, dal lato del letto.
"Pronto", disse una voce familiare. Gibson non riuscì a identificarla e grugnì sommesso.
"Stavo ripensando", disse la voce, "alla nostra piccola conversazione della scorsa notte. Non hai ancora deciso niente per quel viaggetto su Marte?".
Lui sbatté giù il ricevitore con un colpo secco. La sua testa scomparve sotto le coperte, e giacque lì, rabbrividendo e singhiozzando a lungo.
La serata inaugurale fu perfetta.
Doveva esserlo, la settimana precedente era stata un vero inferno. Maxie aveva lavorato come un cane per ricucire il contratto. Durante le prove Joe Gibson aveva sudato tanto da eliminare l'alcool dal suo organismo.
Ora sedeva sul podio dell'orchestra in attesa della prima battuta, e stringeva la cornetta in grembo, pronto. Sapeva che tutto stava andando per il meglio.
C'era soltanto una cosa sbagliata: i suoi occhi. A Gibson facevano male gli occhi. Gli facevano male a causa di tutte le volte che li aveva strizzati nel corso della settimana precedente. Li aveva strizzati per fissare i volti tra la folla, le facce che vedeva dall'imperiale degli autobus o attraverso i finestrini.
Joe Gibson cercava qualcuno, un piccolo pazzoide con un soprabito marrone. E aveva paura di vederlo. E per qualche ragione aveva ancora più paura perché finora non l'aveva ancora visto.
Ora guardò giù, verso la pista da ballo in penombra, accecato dai riflettori proprio sopra la sua testa, e strizzò un'altra volta gli occhi.
Dunque, gli occhi gli facevano male, anche se per tutto il tempo continuò a illudere se stesso che ogni cosa andasse bene, e che quella era soltanto un'altra serata inaugurale fra le tante. Però spasimava in attesa del momento in cui avrebbe portato la tromba alla bocca, soffiando via tutte le paure e le preoccupazioni, l'ossessione di dover strizzare gli occhi e i pensieri che si celavano sotto quelle strizzate.
Le mani che stringevano la tromba tremarono e stille di sudore comparvero sulla superficie dello strumento.
Un ultimo sguardo frettoloso alle tavole che circondavano la pista da ballo: nessun soprabito marrone.
La battuta d'inizio.
Joe Gibson sollevò la sua tromba.
Allora era tutto a posto. Davvero.
La gente ballava. Joe Gibson smise di preoccuparsi di cercare nella calca. Teneva gli occhi chiusi, era fuori da questo mondo. Cavalcava verso le stelle su una tromba, innalzandosi in volo a tempo di boogie.
Era eccitante, meraviglioso, qualcosa a cui aggrapparsi. Si avvinghiò a ogni nota, riluttante a farsela scappare. Voleva una cavalcata solitaria, voleva suonare la sua tromba, tenere gli occhi chiusi, tenere il cervello chiuso a qualunque cosa fuorché alla musica. Fuori da questo mondo.
Tutto andò bene. Tutto liscio e perfetto fino all'intervallo.
Poi Gibson si accorse che la sua camicia e il suo falso sparato erano inzuppati di sudore e lo smoking era strappato sotto l'ascella sinistra. Fino a quel momento era stato troppo eccitato per accorgersene. Gli altri ragazzi stavano lasciando il palco per andarsi a fare una fumata e la folla stava sgomberando la pista da ballo.
Gibson si alzò. Vide Maxie che lo aspettava lì accanto, mise la tromba nella custodia, si raddrizzò e si avviò in fretta verso i gradini dietro il palco.
Diede un'occhiata alla pista deserta... La pista deserta non era del tutto deserta.
Una macchia marrone roteò fuori, oltre il bagliore delle luci... Una figura danzava intessendo un assolo. Con un'impeccabile scivolata la figura fu all'improvviso vicina la podio, e lui riconobbe il volto sotto la falda abbassata del cappello e poi sentì il mellifluo bisbiglio: "Mi sono goduto la tua musica. Credo che adesso tu sia quasi pronto per il viaggio fino a Marte".
Gibson si precipitò giù dal podio con un solo balzo. Ma non fu abbastanza rapido... Il soprabito marrone scomparve ondeggiando fra i tavoli. nessuno sembrò accorgersi dell'altro, ma tutti videro Joe Gibson saltar giù dal podio e correre urlando fuori dalla sala, in strada.
Joe si sentì tranquillo finché Maxie restò nella stanza con lui, ma poi quel mediconzolo disse a Maxie di uscire, e cominciò a parlare a Joe da solo.
Il mediconzolo era un tipo dalla voce calma e affabile, che sembrava conoscere il suo lavoro. Maxie aveva detto che era il miglior psichiatra disponibile, e Maxie di queste cose se ne intendeva.
Ma adesso Maxie era uscito, Joe era disteso sul divano con una luce abbagliante davanti agli occhi, e il mediconzolo gli diceva di rilassarsi, di prenderla con calma, di smettere di pensare e di dire, semplicemente, qualunque cosa gli fosse venuta in mente.
A Joe ciò ricordava troppo quei film di gangster dove il protagonista veniva sottoposto al terzo grado. Ma, a pensarci bene, era sempre meglio starsene distesi piuttosto che il mediconzolo si mettesse a battergli il martelletto sul ginocchio, facendogli magari stendere le braccia a occhi chiusi. Quello sarebbe servito a controllare i suoi riflessi, ma a Gibson non importava niente dei suoi riflessi. Lui aveva paura dell'uomo col soprabito marrone, l'uomo che si era letteralmente volatilizzato in strada la notte in cui gli aveva dato la caccia fuori dal night, rimettendoci il posto.
Cominciò a spiegare tutto questo al mediconzolo, scegliendo cautamente le parole, poiché non voleva assolutamente che quello psichiatra si mettesse in testa che lui soffriva veramente di qualcosa.
Lui non sentiva voci, o cose del genere. Non c'era niente di sbagliato nella sua testa. Soltanto, continuava a vedere quel pazzoide.
Ma il mediconzolo insisté con le sue domande, e ben presto riuscì a far ammettere a Joe ogni genere di cose... non tanto ammettere, in verità, quanto ricordare. Un bel po' di faccende confuse e pasticciate di quando lui era bambino. Assurdità .
Come, ad esempio, la sua abitudine di sgattaiolare nella cantina piena di carbone quando il suo vecchio litigava con la vecchia. Laggiù, lui finiva per addormentarsi, e sognava di non trovarsi affatto nella cantina: non si trovava, in effetti, in nessun luogo. In quei sogni non c'era nessuna cantina col carbone, e neppure il primo e il secondo piano della casa. Non c'era un "fuori", e neppure gente. C'erano soltanto il buio e Joe Gibson.
Joe riferì al mediconzolo un sacco di cose confuse come quella. Più restava lì, con quella vivida luce negli occhi, più riusciva a ricordarne. Raccontò di quando aveva avuto la sua prima tromba, e di come aveva continuato a esercitarsi in casa, dimenticando del tutto le bande dei ragazzi con cui aveva giocato in strada.
Raccontò di come aveva ottenuto il primo lavoro, e di come era scappato via senza ritirare la paga. Poi passò a spiegare perché gli piaceva la musica... soprattutto quella del tipo in cui non si dovevano leggere le note, ma bastava suonarla fuori dalla propria testa, una musica che ti sparava su di giri più e meglio di qualunque alcoolico.
Poi si rese conto che la storia della sua vita si stava avvicinando troppo al presente, e che lui avrebbe dovuto raccontare dell'uomo col soprabito marrone, ma non voleva farlo, e perciò prese a parlare a voce più alta, diffondendosi in mille particolari, ma non funzionò, perché finì per sputar fuori tutto, e il mediconzolo cominciò a sparagli una domanda dopo l'altra a bassa voce, e lui disse, sì, che aveva visto quell'uomo al bar, e no, non aveva uno strano aspetto, e sì, l'aveva visto in viso, e quell'uomo aveva la pelle intorno alla bocca come un fazzoletto di carta spiegazzato.
Buffo... Joe non si era mai ricordato di com'era la pelle intorno alla bocca di quel pazzoide col soprabito marrone, fino a quando il mediconzolo non gliel'aveva chiesto.
Ora provò un vivo sollievo, come se si fosse tolto un grosso peso dallo stomaco. Perciò raccontò anche il resto, quello che lui aveva risposto, l'informazione che il tizio lavorava per l'Ace Travel Bureau, e che il biglietto per Marte costava due dollari e ottantotto, solo andata. Gli disse degli altri clienti di cui quel tizio gli aveva parlato, e di come lui era svenuto, crollando a terra, quando aveva tentato di dargli un pugno.
Gli riferì anche della telefonata, e della nuova comparsa del tizio sulla pista da ballo. E continuò a insistere col mediconzolo che, quest'ultima volta, non aveva toccato alcool, eppure aveva visto quel piccolo pazzoide dal soprabito marrone con identica chiarezza, perciò non era pazzo.
Il mediconzolo sorrise, rassicurò Joe e chiamò dentro Maxie. Poi uscirono insieme e parlottarono a lungo nella stanza accanto, senza che Joe riuscisse a capire che cosa dicevano.
Il mediconzolo rientrò e gli fece vedere un elenco telefonico con le Pagine Gialle. Lo aprì sulle pagine delle agenzie di viaggio, e non c'era nessuna Ace Travel Bureau sulla lista.
Questo fece sentire un po' meglio Joe, fino a quando il mediconzolo non cominciò a chiedergli che cosa sapesse del pianeta Marte. Quasi subito capì a che cosa stava mirando quel tizio, e si chiuse come un'ostrica. Il mediconzolo gli chiese che cosa significasse per lui il numero 288, e Joe fece il finto tonto.
Allora lo strizzacervelli sorrise e lo invitò ad alzarsi. Gli disse che avrebbe dovuto ritornare un paio di giorni dopo per sottoporsi ad alcuni test.
Maxie disse a Joe di recarsi all'albergo da solo, lui sarebbe arrivato quasi subito, dopo aver saldato il conto allo psichiatra.
Così Joe si alzò e uscì.
C'era un paziente nella sala di attesa, immerso nella lettura del National Geographic, ma quando Joe attraversò la stanza, il paziente mise giù la rivista e Joe vide l'ometto col soprabito marrone.
"Ti ho fatto preparare il biglietto", disse quel pazzoide. "Puoi partire oggi stesso, se vuoi".
Joe non disse nulla. Restò lì a fissare la pelle increspata intorno alla bocca del tizio, e i minuscoli occhi protetti dalla falda abbassata del cappello. Fissò il soprabito marrone tutto coperto di macchie e i buchi delle tarme sul bavero logoro.
Respirò profondamente e percepì l'odore del soprabito e qualcos'altro, qualcosa di vecchio e stantio.
Così Joe seppe che non soltanto poteva vedere e sentire, ma anche annusare quell'essere; per tutto il tempo il piccoletto aveva continuato a sorridergli e adesso s'infilò la mano in tasca. Joe seppe che stava cercando il suo biglietto per Marte.
Questa volta Joe era pronto. Gli balzò addosso in un lampo, sentì le sue dita chiudersi intorno a qualcosa, e strinse, strinse, strinse, per strangolare; tutto divenne rosso, e nero, e ancora rosso, e qualcuno urlava, molto in distanza, ed era lui, Joe, che urlava, ma ben presto non seppe più nulla perché perse i sensi.
Quando Joe Gibson si risvegliò, giaceva di nuovo a letto e si sentiva bene, molto bene.
Sulle prime non ricordò che cosa fosse successo, poi gli ritornò in mente tutto. Lui era saltato addosso a quell'ometto dal soprabito marrone, naturalmente. Si chiese se non l'avesse ucciso. Ma no, non poteva averlo fatto, altrimenti adesso si sarebbe trovato in prigione, e non nella sua stanza d'albergo.
Tuttavia, si sentiva bene. Avrebbe voluto far festa.
Maxie entrò nella stanza. Lui non aveva l'aria di stare granché bene.
Joe cominciò a dirgli che adesso tutto era a posto, ma Maxie borbottò qualcosa su un attacco che aveva avuto nello studio del mediconzolo. Joe, che proprio lì, nella sala d'attesa, aveva avuto la prova di non esser pazzo, ammise di aver avuto l'attacco, ma non disse niente sul fatto che aveva stretto le mani intorno alla gola del pazzoide col soprabito marrone.
"Credo che ora mi vestirò e andrò fuori a fare una passeggiata", disse Joe.
Sapeva che a Maxie l'idea non sarebbe piaciuta, ma si sentiva troppo bene perché gl'importassero le opinioni dell'altro.
Ma Maxie non cercò di fermarlo. Disse invece: "D'accordo", e si sedette sul letto, accendendosi un sigaro mentre lui si vestiva. Fissò il tappeto e si accigliò, quando Joe cominciò a fischiettare.
"Joe", disse Maxie.
"Sì?".
"Tu non andrai a fare nessuna passeggiata".
"Chi lo dice?".
"Devi prendere le cose con calma".
"Certo, le sto prendendo con calma. Rientrerò fra un'ora".
"No. Non è questo che intendo, Joe. Te ne starai a letto a riposare, invece. In una clinica".
"Che cosa diavolo... ".
"Ho parlato col dottore. Verranno a prenderti fra mezz'ora. Ma non è niente di cui tu ti debba preoccupare, sarai fuori di nuovo in... ".
Ah, pensò Joe, era così che andavano le cose! Ora capiva.
Si avvicinò allo scrittoio.
"Che cosa fai?".
"Prendo le sigarette. Non preoccuparti. Tutto è a posto. Ho capito tutto".
"E' per il tuo bene", riprese Maxie, senza guardare Joe.
"Certo che lo è", disse lui, e aprì il cassetto.
"Nessun rancore?", chiese Maxie.
"Nessun rancore", disse Joe.
Si girò di scatto e sparò due volte a Maxie con la pistola che aveva tirato fuori dal cassetto, centrandolo allo stomaco.
Lui non era pazzo, e non si era mai sentito meglio in vita sua, altrimenti non avrebbe capito così perfettamente come stavano andando le cose.
Scese al piano terra e pagò il conto coi soldi che aveva trovato addosso a Maxie, poi prese un tassì. Se fosse riuscito ad arrivare nel Jersey all'ora di punta prima di cena, non avrebbero mai più potuto ritrovarlo.
Così andò alla stazione, fece il biglietto e agguantò il treno delle 17 e 14, quando il convoglio aveva già cominciato a muoversi. Mentre percorreva il corridoio scoppiò a ridere, perché si ricordò che il piccolo svitato dal soprabito marrone era morto. Ora non c'era nulla di cui preoccuparsi, eccetto quella folla, tutta quella gente. Lui voleva star solo per un po' e pensar bene alla prossima mossa.
perciò cercò il gabinetto all'estremità della carrozza, aprì la porta ed entrò. La lampadina non funzionava. Faceva buio là dentro, ma Joe poteva vedere fuori dal finestrino.
Gli ci volle un buon minuto perché i suoi occhi riuscissero a mettere a fuoco la scena, ma poi vide quello che c'era fuori. Soltanto una grande distesa di vuoto con le stelle che sfrecciavano, abbaglianti.
Poi la porta si aprì. Il controllore, pensò Joe. Ma il controllore indossava un soprabito marrone e il suo cappello aveva la falda abbassata. Una mano si protese a prendere il biglietto di Joe.
Lui fissò il biglietto alla luce delle stelle e lesse il suo nome e il prezzo e la destinazione, e poi non gli restò altro che starsene lì ad aspettare, mentre continuava a sfrecciare via, fuori da questo mondo.
Maxie non batté ciglio, ma il suo sorriso era triste.
"Non è questo, Joe", sospirò. "Non voglio niente di più di quanto mi spetti. Tu eri un bravo ragazzo. Hai lavorato duro. Ma non più, adesso".
Si alzò dal letto. "Non capisco", proseguì. "Prima c'è stato quel numero fuori programma a Scranton, quando ti sei presentato ubriaco sul podio. E il modo con cui quasi tagliavi la corda da quell'orchestra che avevo messo su per la Rainbow Room. E quella volta che ti ho tirato fuori da quel pasticcio a Chicago, quando non ti sei presentato per la registrazione alla Decca. Fra quella tua pupattola sballata e il whisky ti stai facendo una bella reputazione... "Joe Gibson, uno dei migliori trombettisti sulla piazza! Ma non impegnate denaro su di lui, perché si è fatto un nome anche con le pupattole bionde e il bourbon".
Joe Gibson era quasi piegato in due sulla sedia. Teneva la testa china e singhiozzava.
"Va bene", concluse Maxie. "Non so che cosa ti abbia preso. Non so che cosa ti faccia paura. Forse ne uscirai tutto all'improvviso. Non farmi promesse, però. Vedrò che cosa potrò fare. Forse riuscirò a sistemare quell'ingaggio, il resto dipende da te. Prenditi un po' di riposo, verrò da te domani".
Maxie uscì. Lui scivolò sotto le coperte. Il suo volto smise un po' per volta di contrarsi. Si preparò a dormire.
E il telefono squillò. Gibson fece scivolare la mano sul ricevitore, dal lato del letto.
"Pronto", disse una voce familiare. Gibson non riuscì a identificarla e grugnì sommesso.
"Stavo ripensando", disse la voce, "alla nostra piccola conversazione della scorsa notte. Non hai ancora deciso niente per quel viaggetto su Marte?".
Lui sbatté giù il ricevitore con un colpo secco. La sua testa scomparve sotto le coperte, e giacque lì, rabbrividendo e singhiozzando a lungo.
La serata inaugurale fu perfetta.
Doveva esserlo, la settimana precedente era stata un vero inferno. Maxie aveva lavorato come un cane per ricucire il contratto. Durante le prove Joe Gibson aveva sudato tanto da eliminare l'alcool dal suo organismo.
Ora sedeva sul podio dell'orchestra in attesa della prima battuta, e stringeva la cornetta in grembo, pronto. Sapeva che tutto stava andando per il meglio.
C'era soltanto una cosa sbagliata: i suoi occhi. A Gibson facevano male gli occhi. Gli facevano male a causa di tutte le volte che li aveva strizzati nel corso della settimana precedente. Li aveva strizzati per fissare i volti tra la folla, le facce che vedeva dall'imperiale degli autobus o attraverso i finestrini.
Joe Gibson cercava qualcuno, un piccolo pazzoide con un soprabito marrone. E aveva paura di vederlo. E per qualche ragione aveva ancora più paura perché finora non l'aveva ancora visto.
Ora guardò giù, verso la pista da ballo in penombra, accecato dai riflettori proprio sopra la sua testa, e strizzò un'altra volta gli occhi.
Dunque, gli occhi gli facevano male, anche se per tutto il tempo continuò a illudere se stesso che ogni cosa andasse bene, e che quella era soltanto un'altra serata inaugurale fra le tante. Però spasimava in attesa del momento in cui avrebbe portato la tromba alla bocca, soffiando via tutte le paure e le preoccupazioni, l'ossessione di dover strizzare gli occhi e i pensieri che si celavano sotto quelle strizzate.
Le mani che stringevano la tromba tremarono e stille di sudore comparvero sulla superficie dello strumento.
Un ultimo sguardo frettoloso alle tavole che circondavano la pista da ballo: nessun soprabito marrone.
La battuta d'inizio.
Joe Gibson sollevò la sua tromba.
Allora era tutto a posto. Davvero.
La gente ballava. Joe Gibson smise di preoccuparsi di cercare nella calca. Teneva gli occhi chiusi, era fuori da questo mondo. Cavalcava verso le stelle su una tromba, innalzandosi in volo a tempo di boogie.
Era eccitante, meraviglioso, qualcosa a cui aggrapparsi. Si avvinghiò a ogni nota, riluttante a farsela scappare. Voleva una cavalcata solitaria, voleva suonare la sua tromba, tenere gli occhi chiusi, tenere il cervello chiuso a qualunque cosa fuorché alla musica. Fuori da questo mondo.
Tutto andò bene. Tutto liscio e perfetto fino all'intervallo.
Poi Gibson si accorse che la sua camicia e il suo falso sparato erano inzuppati di sudore e lo smoking era strappato sotto l'ascella sinistra. Fino a quel momento era stato troppo eccitato per accorgersene. Gli altri ragazzi stavano lasciando il palco per andarsi a fare una fumata e la folla stava sgomberando la pista da ballo.
Gibson si alzò. Vide Maxie che lo aspettava lì accanto, mise la tromba nella custodia, si raddrizzò e si avviò in fretta verso i gradini dietro il palco.
Diede un'occhiata alla pista deserta... La pista deserta non era del tutto deserta.
Una macchia marrone roteò fuori, oltre il bagliore delle luci... Una figura danzava intessendo un assolo. Con un'impeccabile scivolata la figura fu all'improvviso vicina la podio, e lui riconobbe il volto sotto la falda abbassata del cappello e poi sentì il mellifluo bisbiglio: "Mi sono goduto la tua musica. Credo che adesso tu sia quasi pronto per il viaggio fino a Marte".
Gibson si precipitò giù dal podio con un solo balzo. Ma non fu abbastanza rapido... Il soprabito marrone scomparve ondeggiando fra i tavoli. nessuno sembrò accorgersi dell'altro, ma tutti videro Joe Gibson saltar giù dal podio e correre urlando fuori dalla sala, in strada.
Joe si sentì tranquillo finché Maxie restò nella stanza con lui, ma poi quel mediconzolo disse a Maxie di uscire, e cominciò a parlare a Joe da solo.
Il mediconzolo era un tipo dalla voce calma e affabile, che sembrava conoscere il suo lavoro. Maxie aveva detto che era il miglior psichiatra disponibile, e Maxie di queste cose se ne intendeva.
Ma adesso Maxie era uscito, Joe era disteso sul divano con una luce abbagliante davanti agli occhi, e il mediconzolo gli diceva di rilassarsi, di prenderla con calma, di smettere di pensare e di dire, semplicemente, qualunque cosa gli fosse venuta in mente.
A Joe ciò ricordava troppo quei film di gangster dove il protagonista veniva sottoposto al terzo grado. Ma, a pensarci bene, era sempre meglio starsene distesi piuttosto che il mediconzolo si mettesse a battergli il martelletto sul ginocchio, facendogli magari stendere le braccia a occhi chiusi. Quello sarebbe servito a controllare i suoi riflessi, ma a Gibson non importava niente dei suoi riflessi. Lui aveva paura dell'uomo col soprabito marrone, l'uomo che si era letteralmente volatilizzato in strada la notte in cui gli aveva dato la caccia fuori dal night, rimettendoci il posto.
Cominciò a spiegare tutto questo al mediconzolo, scegliendo cautamente le parole, poiché non voleva assolutamente che quello psichiatra si mettesse in testa che lui soffriva veramente di qualcosa.
Lui non sentiva voci, o cose del genere. Non c'era niente di sbagliato nella sua testa. Soltanto, continuava a vedere quel pazzoide.
Ma il mediconzolo insisté con le sue domande, e ben presto riuscì a far ammettere a Joe ogni genere di cose... non tanto ammettere, in verità, quanto ricordare. Un bel po' di faccende confuse e pasticciate di quando lui era bambino. Assurdità .
Come, ad esempio, la sua abitudine di sgattaiolare nella cantina piena di carbone quando il suo vecchio litigava con la vecchia. Laggiù, lui finiva per addormentarsi, e sognava di non trovarsi affatto nella cantina: non si trovava, in effetti, in nessun luogo. In quei sogni non c'era nessuna cantina col carbone, e neppure il primo e il secondo piano della casa. Non c'era un "fuori", e neppure gente. C'erano soltanto il buio e Joe Gibson.
Joe riferì al mediconzolo un sacco di cose confuse come quella. Più restava lì, con quella vivida luce negli occhi, più riusciva a ricordarne. Raccontò di quando aveva avuto la sua prima tromba, e di come aveva continuato a esercitarsi in casa, dimenticando del tutto le bande dei ragazzi con cui aveva giocato in strada.
Raccontò di come aveva ottenuto il primo lavoro, e di come era scappato via senza ritirare la paga. Poi passò a spiegare perché gli piaceva la musica... soprattutto quella del tipo in cui non si dovevano leggere le note, ma bastava suonarla fuori dalla propria testa, una musica che ti sparava su di giri più e meglio di qualunque alcoolico.
Poi si rese conto che la storia della sua vita si stava avvicinando troppo al presente, e che lui avrebbe dovuto raccontare dell'uomo col soprabito marrone, ma non voleva farlo, e perciò prese a parlare a voce più alta, diffondendosi in mille particolari, ma non funzionò, perché finì per sputar fuori tutto, e il mediconzolo cominciò a sparagli una domanda dopo l'altra a bassa voce, e lui disse, sì, che aveva visto quell'uomo al bar, e no, non aveva uno strano aspetto, e sì, l'aveva visto in viso, e quell'uomo aveva la pelle intorno alla bocca come un fazzoletto di carta spiegazzato.
Buffo... Joe non si era mai ricordato di com'era la pelle intorno alla bocca di quel pazzoide col soprabito marrone, fino a quando il mediconzolo non gliel'aveva chiesto.
Ora provò un vivo sollievo, come se si fosse tolto un grosso peso dallo stomaco. Perciò raccontò anche il resto, quello che lui aveva risposto, l'informazione che il tizio lavorava per l'Ace Travel Bureau, e che il biglietto per Marte costava due dollari e ottantotto, solo andata. Gli disse degli altri clienti di cui quel tizio gli aveva parlato, e di come lui era svenuto, crollando a terra, quando aveva tentato di dargli un pugno.
Gli riferì anche della telefonata, e della nuova comparsa del tizio sulla pista da ballo. E continuò a insistere col mediconzolo che, quest'ultima volta, non aveva toccato alcool, eppure aveva visto quel piccolo pazzoide dal soprabito marrone con identica chiarezza, perciò non era pazzo.
Il mediconzolo sorrise, rassicurò Joe e chiamò dentro Maxie. Poi uscirono insieme e parlottarono a lungo nella stanza accanto, senza che Joe riuscisse a capire che cosa dicevano.
Il mediconzolo rientrò e gli fece vedere un elenco telefonico con le Pagine Gialle. Lo aprì sulle pagine delle agenzie di viaggio, e non c'era nessuna Ace Travel Bureau sulla lista.
Questo fece sentire un po' meglio Joe, fino a quando il mediconzolo non cominciò a chiedergli che cosa sapesse del pianeta Marte. Quasi subito capì a che cosa stava mirando quel tizio, e si chiuse come un'ostrica. Il mediconzolo gli chiese che cosa significasse per lui il numero 288, e Joe fece il finto tonto.
Allora lo strizzacervelli sorrise e lo invitò ad alzarsi. Gli disse che avrebbe dovuto ritornare un paio di giorni dopo per sottoporsi ad alcuni test.
Maxie disse a Joe di recarsi all'albergo da solo, lui sarebbe arrivato quasi subito, dopo aver saldato il conto allo psichiatra.
Così Joe si alzò e uscì.
C'era un paziente nella sala di attesa, immerso nella lettura del National Geographic, ma quando Joe attraversò la stanza, il paziente mise giù la rivista e Joe vide l'ometto col soprabito marrone.
"Ti ho fatto preparare il biglietto", disse quel pazzoide. "Puoi partire oggi stesso, se vuoi".
Joe non disse nulla. Restò lì a fissare la pelle increspata intorno alla bocca del tizio, e i minuscoli occhi protetti dalla falda abbassata del cappello. Fissò il soprabito marrone tutto coperto di macchie e i buchi delle tarme sul bavero logoro.
Respirò profondamente e percepì l'odore del soprabito e qualcos'altro, qualcosa di vecchio e stantio.
Così Joe seppe che non soltanto poteva vedere e sentire, ma anche annusare quell'essere; per tutto il tempo il piccoletto aveva continuato a sorridergli e adesso s'infilò la mano in tasca. Joe seppe che stava cercando il suo biglietto per Marte.
Questa volta Joe era pronto. Gli balzò addosso in un lampo, sentì le sue dita chiudersi intorno a qualcosa, e strinse, strinse, strinse, per strangolare; tutto divenne rosso, e nero, e ancora rosso, e qualcuno urlava, molto in distanza, ed era lui, Joe, che urlava, ma ben presto non seppe più nulla perché perse i sensi.
Quando Joe Gibson si risvegliò, giaceva di nuovo a letto e si sentiva bene, molto bene.
Sulle prime non ricordò che cosa fosse successo, poi gli ritornò in mente tutto. Lui era saltato addosso a quell'ometto dal soprabito marrone, naturalmente. Si chiese se non l'avesse ucciso. Ma no, non poteva averlo fatto, altrimenti adesso si sarebbe trovato in prigione, e non nella sua stanza d'albergo.
Tuttavia, si sentiva bene. Avrebbe voluto far festa.
Maxie entrò nella stanza. Lui non aveva l'aria di stare granché bene.
Joe cominciò a dirgli che adesso tutto era a posto, ma Maxie borbottò qualcosa su un attacco che aveva avuto nello studio del mediconzolo. Joe, che proprio lì, nella sala d'attesa, aveva avuto la prova di non esser pazzo, ammise di aver avuto l'attacco, ma non disse niente sul fatto che aveva stretto le mani intorno alla gola del pazzoide col soprabito marrone.
"Credo che ora mi vestirò e andrò fuori a fare una passeggiata", disse Joe.
Sapeva che a Maxie l'idea non sarebbe piaciuta, ma si sentiva troppo bene perché gl'importassero le opinioni dell'altro.
Ma Maxie non cercò di fermarlo. Disse invece: "D'accordo", e si sedette sul letto, accendendosi un sigaro mentre lui si vestiva. Fissò il tappeto e si accigliò, quando Joe cominciò a fischiettare.
"Joe", disse Maxie.
"Sì?".
"Tu non andrai a fare nessuna passeggiata".
"Chi lo dice?".
"Devi prendere le cose con calma".
"Certo, le sto prendendo con calma. Rientrerò fra un'ora".
"No. Non è questo che intendo, Joe. Te ne starai a letto a riposare, invece. In una clinica".
"Che cosa diavolo... ".
"Ho parlato col dottore. Verranno a prenderti fra mezz'ora. Ma non è niente di cui tu ti debba preoccupare, sarai fuori di nuovo in... ".
Ah, pensò Joe, era così che andavano le cose! Ora capiva.
Si avvicinò allo scrittoio.
"Che cosa fai?".
"Prendo le sigarette. Non preoccuparti. Tutto è a posto. Ho capito tutto".
"E' per il tuo bene", riprese Maxie, senza guardare Joe.
"Certo che lo è", disse lui, e aprì il cassetto.
"Nessun rancore?", chiese Maxie.
"Nessun rancore", disse Joe.
Si girò di scatto e sparò due volte a Maxie con la pistola che aveva tirato fuori dal cassetto, centrandolo allo stomaco.
Lui non era pazzo, e non si era mai sentito meglio in vita sua, altrimenti non avrebbe capito così perfettamente come stavano andando le cose.
Scese al piano terra e pagò il conto coi soldi che aveva trovato addosso a Maxie, poi prese un tassì. Se fosse riuscito ad arrivare nel Jersey all'ora di punta prima di cena, non avrebbero mai più potuto ritrovarlo.
Così andò alla stazione, fece il biglietto e agguantò il treno delle 17 e 14, quando il convoglio aveva già cominciato a muoversi. Mentre percorreva il corridoio scoppiò a ridere, perché si ricordò che il piccolo svitato dal soprabito marrone era morto. Ora non c'era nulla di cui preoccuparsi, eccetto quella folla, tutta quella gente. Lui voleva star solo per un po' e pensar bene alla prossima mossa.
perciò cercò il gabinetto all'estremità della carrozza, aprì la porta ed entrò. La lampadina non funzionava. Faceva buio là dentro, ma Joe poteva vedere fuori dal finestrino.
Gli ci volle un buon minuto perché i suoi occhi riuscissero a mettere a fuoco la scena, ma poi vide quello che c'era fuori. Soltanto una grande distesa di vuoto con le stelle che sfrecciavano, abbaglianti.
Poi la porta si aprì. Il controllore, pensò Joe. Ma il controllore indossava un soprabito marrone e il suo cappello aveva la falda abbassata. Una mano si protese a prendere il biglietto di Joe.
Lui fissò il biglietto alla luce delle stelle e lesse il suo nome e il prezzo e la destinazione, e poi non gli restò altro che starsene lì ad aspettare, mentre continuava a sfrecciare via, fuori da questo mondo.
(Robert Bloch, Il dio che uscì dalla tomba. SIAD, 1979)
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