martedì 17 novembre 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: Bal Macabre

Lord Hopeless mi invitò ad unirmi agli altri che erano seduti al suo tavolo, e mi presentò alcuni di quei signori.
Era passata da molto la mezzanotte, e ho dimenticato la maggior parte dei loro nomi.
Il dottor Zitterbein l'avevo già conosciuto.
"Sta sempre seduto da solo. E' un vero peccato" disse, stringendomi la mano. "Perché se ne sta sempre da solo?"
So che non avevamo bevuto molto. Ciò nonostante, eravamo sotto l'incantesimo di quella delicata e impalpabile ebrezza che dà l'impressione che alcune parole vengano da lontano, uno stato d'animo tipico di quelle ore tarde, quando siamo cullati dal fumo delle sigarette, dalle risate delle donne e da musica scadente.
Strano che da una simile atmosfera da night club, col suo miscuglio di musica zingaresca, cakewalk e champagne nascesse una discussione sulle cose soprannaturali! Lord Hopeless stava raccontando una storia.
Di uomini e donne che si supponeva fossero realmente esistiti - o meglio di cadaveri, o apparenti cadaveri - che appartenevano alla migliore società e che, secondo la testimonianza dei viventi, erano morti da molto tempo, e avevano perfino lapidi e tombe con i loro nomi e le date della loro morte, ma che in realtà giacevano da qualche parte in città, dentro un vecchio palazzo, in uno stato di ininterrotta catalessi, inanimati, ma protetti dalla decomposizione e ben sistemati in una serie di cassetti. Si diceva che se occupasse un domestico gobbo con le scarpe con la fibbia e la parrucca incipriata, soprannominato Spotted Aron. In certe notti le loro labbra emanavano una debole fosforescenza, un segnale per il gobbo che era ora di fare una misteriosa manipolazione sulle vertebre cervicali delle persone affidate alle sue cure. Così disse.
Le loro anime potevano allora vagare senza intralci, temporaneamente libere dai loro corpi, e indulgere ai vizi della città, con un'avidità e un'intensità che superavano l'immaginazione del più audace libertino.
Fra le altre cose, sapevano come attaccarsi, a mo' di vampiri, a quei reprobi viventi che passano barcollando di vizio in vizio... succhiando, rubando, arricchendosi di strane sensazioni a spese delle masse viventi. Questo club, che fra l'altro aveva il curioso nome di Amanita, possedeva anche statuti, regolamenti e severe condizioni concernenti l'ammissione di nuovi membri. Ma questi erano circondati da un impenetrabile velo di segretezza.

Non riuscii a capire le ultime parole di Lord Hopeless, a causa del fragoroso baccano dei musicisti e dei cantanti, che ammannivano una moderna canzone di successo:

Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.

Le grottesche contorsioni di una coppia di mulatti, che accompagnava la musica con una sorta di cancan negro, accentuavano, come la canzone, lo spiacevole effetto che quella storia aveva avuto su di me.
In quel night club, fra prostitute truccate, camerieri provetti e magnaccia tempestati di diamanti, l'intera impressione mi parve che diventasse piuttosto frammentaria, storpiata, finché non restò nella mia mente solo come un'immagine raccapricciante, distorta e quasi irreale.
Come se all'improvviso, in momenti di disattenzione, il tempo si affretta con passi spediti e silenziosi, e le ore si riducono nella cenere di pochi secondi per uno che è ebbro... secondi che volano via dall'anima come scintille, per illuminare una ripugnante ragnatela di sogni curiosi e audaci, intessuti in una confusa mescolanza di passato e futuro.
Così, nel mio vago ricordo, mi pare ancora di sentire una voce che disse: "Dovremmo mandare un messaggio al Club Amanita".
A giudicare da questo, pare che la nostra conversazione vertesse ripetutamente sullo stesso tema. Fra un discorso e l'altro mi pare di ricordare frammenti di brevi osservazioni, un bicchiere di champagne che si era rotto, un fischio... e poi, che una cocotte francese mi si era seduta in grembo, mi aveva baciato, aveva soffiato il fumo della sigaretta nella mia bocca e infilato la sua lingua appuntita nel mio orecchio. Più tardi, una cartolina piena di firme venne sospinta verso di me, con la richiesta che anch'io vi mettessi il mio nome... la matita mi cadde di mano... e poi non riuscii di nuovo, perché una ragazzotta mi aveva versato un bicchiere di champagne sui polsini.
Mi ricordo distintamente che tutti noi divenimmo improvvisamente sobri; cercammo nelle nostre tasche, sopra e sotto il tavolo e sulle sedie la cartolina, che Lord Hopeless voleva riavere a tutti i costi, ma era svanita, e non si vide più...

Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore.

I violini ripetevano con suono stridulo il ritornello, sommergendo di nuovo la nostra coscienza nel buio. Se si chiudevano gli occhi, sembrava di star sdraiati su un tappeto nero morbido e vellutato, su cui spiccavano fiammeggianti alcuni fiori rossi come rubini.
"Voglio qualcosa da mangiare" sentii che qualcuno diceva. "Cosa? Cosa? Caviale?... Sciocchezze! Mi porti... mi porti... be'... mi porti dei funghi conservati."
E tutti noi mangiammo quei funghi aspri, che nuotavano in un liquido chiaro e viscoso, aromatizzato.

Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.

Improvvisamente un acrobata dallo strano aspetto, che indossava una calzamaglia troppo grande che gli ondeggiava terribilmente addosso, si sedette al nostro tavolo, e alla sua destra era seduto un gobbo mascherato, con una parrucca color canapa. Vicino a lui c'era una donna; e tutti ridevano.
Come diavolo era arrivato lì... con quelli? Mi guardai attorno: la sala era vuota; c'eravamo solo noi. Oh, be', pensai... non importa...
Il tavolo a cui eravamo seduti era molto lungo, e la maggior parte della tovaglia splendeva, bianca come un lenzuolo... senza piatti né bicchieri.
"Monsieur Phalloides, vorrebbe ballare per noi, per favore?" disse uno dei signori, dando un colpetto sulla spalla dell'acrobata.
Dovevano conoscersi bene - mi passò per la testa in una specie di sogno - molto probabilmente è seduto qui già da molto tempo, quel... quella calzamaglia.
Poi guardai il gobbo vicino a lui, e i nostri occhi s'incontrarono. Portava una maschera lucente di lacca bianca e una giacca verdastra, sbiadita, assai malconcia e piena di pezze mal cucite. Raccattata per strada! Quando rideva, era un miscuglio fra un ansito e un rantolo.
"Crotalus... Crotalus Horridus." Mi attraversò la mente quella frase che dovevo aver sentito o letto da qualche parte; non riuscivo a ricordarne il significato, ma comunque rabbrividii, sussurrandola piano.
E poi sentii le dita di quella ragazzotta che mi toccavano le ginocchia sotto il tavolo.
"Mi chiamo Albina Veratrina" mi sussurrò esitante, come se mi stesse confidando un segreto, mentre io le prendevo la mano.
Si avvicinò molto a me; e ricordavo vagamente che una volta aveva versato un bicchiere di champagne sui miei polsini. I suoi vestiti emanavano un odore pungente; quando si muoveva, veniva quasi da starnutire.
"Si chiama Germer, naturalmente... Miss Germer, sa" disse il dottor Zitterbein ad alta voce.
A quel punto l'acrobata scoppiò in una breve risata, la guardò e scrollò le spalle, come se si sentisse in dovere di scusare il suo comportamento.
Mi dava la nausea. Aveva delle strane cicatrici sul collo, larghe come una mano, ma tutto attorno e di un colore pallido, che facevano pensare a un collare... come il collo di un fagiano. E la sua calzamaglia pendeva molle su di lui dal collo ai piedi, perché era stretto di torace e magro. Aveva un copricapo piatto e verdastro a pois bianchi, con dei bottoni. Si era alzato e stava ballando con una ragazza con una collana di bacche macchiettate.
"Sono venute qui altre donne?" chiesi a Lord Hopeless con gli occhi.
"E' solo Ignatia... mia sorella" disse Albina Veratrina, e mentre pronunciava la parola "sorella" mi strizzò l'occhio e rise istericamente.
Improvvisamente mi mostrò la lingua, e notai che nel mezzo c'era una lunga striscia rossastra, secca; ero inorridito. E' come un sintomo di avvelenamento, pensai. perché ha quella striscia rossastra? E' come un sintomo di avvelenamento! E di nuovo udii la musica che veniva da lontano:

Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,

e, pur tenendo gli occhi chiusi, sapevo che tutti scuotevano il capo a quel ritmo indiavolato...
E' come un sintomo di avvelenamento, sognai... e mi svegliai con un brivido.
Il gobbo, nella sua giacca verde maculata, aveva in grembo una ragazzotta e le strappava gli abiti di dosso in una sorta di ballo di san Vito, apparentemente al ritmo di una musica che non si udiva.
Il dottor Zitterbein si alzò, e le sbottonò le spalline.

"Fra un secondo e l'altro c'è un breve intervallo, che non appartiene al tempo, ma solo all'immaginazione. Come le maglie di una rete" sentii che il gobbo declamava in tono subdolo "sono questi intervalli. Si possono sommare, ma il risultato non è ancora il tempo reale, eppure ci pensiamo... una volta, due volte, una volta ancora, e una quarta volta...
"E se viviamo solo entro questi limiti e dimentichiamo i minuti e i secondi reali, per non più ricordarli... ebbene, allora siamo morti, allora viviamo solo nella morte.
"Si vive, diciamo, cinquant'anni. Di questi la scuola ne porta via dieci: ne restano quaranta.
"E il sonno ne ruba venti: ne restano venti.
"E dieci sono pieni di preoccupazioni: ne rimangono dieci.
"Di questi, nove anni si passano nella paura del domani; così si vive solo un anno... forse!
"Perché piuttosto non morire?
"La morte è bella.
"Lì c'è il riposo, l'eterno riposo.
"E nessuna preoccupazione per il domani.
"Lì c'è l'eterno, silenzioso presente, che non si conosce; non c'è prima né dopo.
"Lì c'è il silenzioso presente, che non si conosce! Queste sono le maglie nascoste fra un secondo e l'altro nella rete del tempo."

Le parole del gobbo risonavano ancora nel mio cuore. Alzai lo sguardo e vidi che la blusa scollata della ragazzotta era caduta fino alla vita, e che stava seduta sul suo grembo, nuda. Non aveva né seni né corpo... solo una nebulosa fosforescente, dal collo ai fianchi. Il gobbo toccava quella nebulosa con le dita e ne traeva dei suoni come quelli delle corde di una viola da gamba, e da quel corpo spettrale cadevano sul pavimento con gran rumore pezzi di scorie. Così è la morte, pensai, come una melma di residui.
Lentamente il centro di quella tovaglia bianca si sollevò come un'immensa bolla... un vento gelido spazzò la stanza e fece volar via la nebulosa. Apparvero corde d'arpa scintillanti, che andavano dal collo della ragazzotta fino ai fianchi. Una creatura mezza donna e mezza arpa!
Con quella il gobbo suonò, così sognai, una canzone di morte e di lussuria, che terminava con uno strano inno:

Ogni gioia deve divenire sofferenza;
nessun piacere terreno può durare!
chi desidera la gioia, chi sceglie la gioia,
raccoglierà il dolore che porta:
chi giammai brama o aspetta la gioia, 
mai ha bramato la fine del dolore.

Un inesplicabile desiderio di morte mi assalì, e desiderai morire.
Ma in cuor mio, la vita diede battaglia... l'istinto di conservazione. E la morte e la vita si schierarono minacciosamente l'una contro l'altra; questa è la catalessi.
I miei occhi erano sgranati, immobili. L'acrobata si chinò su di me, e notai la sua calzamaglia spiegazzata, il copricapo verdastro e il collare.
"Catalessi" volevo farfugliare, ma non riuscii ad aprire la bocca.
Mentre andava dall'uno all'altro e sbirciava le loro facce con un sogghigno interrogativo, sapevo che eravamo paralizzati: era come un fungo velenoso! Abbiamo mangiato funghi velenosi, cotti con veratrum album, l'erba chiamata Germer bianca.
Ma quello è solo un fantasma della notte, una chimera! Volevo gridarlo forte, ma non potevo. Volevo voltare la testa, ma non potevo.
Il gobbo con la maschera bianca laccata si alzò silenziosamente, e gli altri lo seguirono e si disposero in coppie, altrettanto silenziosamente.
L'acrobata con la tromba francese, il gobbo con l'arpa umana. Ignatia con Albina Veratrina... così penetrarono nella parete al passo saltellante di un cakewalk.
Solo una volta Albina Veratrina si voltò a guardarmi, accompagnando quello sguardo con un gesto osceno.
Volevo distogliere gli occhi o chiudere le palpebre, ma non potevo. Ero costretto a fissare sempre l'orologio a muro e le sue lancette che strisciavano sul quadrante come dita furtive.
E negli orecchi risonava sempre quel ritornello ossessivo:

Ho preso il più bianco fio-ore
per rallegrare le mie scure o-ore,
tra-la, tra-la, tra-la,
tra - la-la-la - tra-la.

e come un basso ostinato veniva dagli abissi:

Ogni gioia deve divenire sofferenza:
chi giammai brama o aspetta la gioia,
mai ha bramato la fine del dolore.

Guarii da quell'avvelenamento dopo molto, molto tempo; ma gli altri sono stati tutti sepolti.
Era troppo tardi per salvarli - così mi è stato detto - quando arrivarono i soccorsi.
Ma sospetto che non fossero realmente morti quando vennero sepolti. Anche se il dottore mi dice che la catalessi non può derivare dall'aver mangiato funghi velenosi, e che i sintomi avrebbero dovuto essere differenti, sospetto che non fossero morti, e con un brivido penso al Club Amanita e al suo strano guardiano gobbo, Spotted Aron, con la sua maschera bianca.




Nel primo quarto di questo secolo i cineasti tedeschi si occuparono di film di fantasia, e anzi furono loro che in realtà cominciarono a sviluppare quello che oggi è noto come cinema dell'orrore. Una delle prime e più famose di queste fantasie pionieristiche fu Il Golem, fatto nel 1915, e poi rifatto ancora nel 1917 e nel 1920. Tutti e tre questi film erano interpretati dal gigantesco attore tedesco Paul Wegener, nella parte dell'uomo-mostro d'argilla dall'andatura terrificante. Il film era tratto dal romanzo dallo stesso titolo di Gustav Meyrink (1868-1932), che dapprima fu pubblicato a puntate nel 1913-1914, e poi raccolto in libro nel 1915. Il libro e il film resero famosi in tutto il mondo sia Meyrink che Paul Wegener. L'autore in effetti aveva sentito parlare della secolare leggenda del Golem - il corpo senz'anima - quando viveva a Praga, e si convinse - per usare le sue stesse parole - che "qualcosa che non può morire incombe sulla città ed è in qualche modo connesso con la leggenda del Golem". Da questo spunto affascinante fu tratta la sua storia meravigliosa, e col passar del tempo il romanzo di Meyrink divenne famoso come il racconto di Mary Shelley su un'altra creatura fatta dall'uomo, "Frankenstein". Meyrink era molto attratto dal lato oscuro della natura umana, e le sue schiette opinioni fecero sì che i suoi libri fossero messi all'indice in Germania durante la prima guerra mondiale. Un'altra sua opera trasformata in film fu Il Museo delle Cere (1924), che includeva una straordinaria sequenza tratta da un racconto intitolato Bal Macabre, che Meyrink aveva scritto nel 1904. Viene ristampato in questa raccolta per la prima volta dopo più di mezzo secolo. [Sean Richard]

(Elephant Man e altri mostri. A cura di Sean Richard. Mondadori, 1991)







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