In un'inclemente giornata sul far dell'autunno, feci sosta durante la mia passeggiata in un frutteto del Surrey a osservare una curiosa scena di vita degli insetti: l'avrei potuta definire una graziosa commediola di insetti, se non mi avesse richiamato alla memoria i tempi andati, quando avevo la mente offuscata dai dubbi, e i comportamenti di certi insetti, specialmente delle vespe, erano un pensiero ricorrente. A più di una tempesta che ci squassa scampiamo e ce ne dimentichiamo; ma molto tempo dopo una cosa da niente - il profumo di un fiore, il richiamo di un uccello selvatico, anche la vista di un insetto - basterà a riaccenderne il ricordo e a far rivivere una sensazione che sembrava morta e sepolta.
Nel frutteto c'era un vecchio pero che dava grosse pere tardive, e tra i frutti che il vento di settembre aveva fatto cadere quel mattino, ce n'era uno assai maturo con una profonda cavità a forma di coppa scavata dalle vespe. Dentro la cavità sei o sette vespe gozzovigliavano nel succo zuccherino, appiattite e immobili, ammassate insieme. Fuori la cavità, sulla pera, si erano adunati trenta o quaranta mosconi azzurri, avidi del succo, ma evidentemente non osavano attaccare a nutrirsene; indugiavano d'intorno in una massa compatta, gli ultimi che incalzavano e si accalcavano a ridosso degli altri: eppure, nonostante l'incalzare, la prima fila di mosconi rifiutava di avanzare oltre il bordo esterno della parte scavata. Ogni tanto uno dallo spirito più temerario allungava la proboscide e iniziava a succhiare sul margine; il leggero movimento esitante era immediatamente scoperto da una vespa, che si voltava rapida ad affrontare il moscone insolente, le ali sollevate in atteggiamento minaccioso, e il moscone doveva ritrarre la proboscide dal bordo della coppa. A momenti la fame vinceva la paura; si verificava un sommovimento generale dei mosconi, e parecchi iniziavano assieme a succhiare, allora la vespa, ritenendo che in tale frangente ci volesse più di un semplice sguardo o gesto intimidatorio, insorgeva con un ronzio rabbioso, e l'intera massa di mosconi fuggiva turbinando tutt'intorno in una piccola nube azzurra con un sonoro animato brusio, per tornare a posarsi dopo pochi istanti sulla grande pera gialla, riprendendo ad ammassarsi attorno alla buca come prima.
Mai una volta, nel tempo trascorso a osservarli, la vespa guardiana allentò la vigilanza. Quando abbassava il capo per succhiare con le altre, i suoi occhi riuscivano ancora a rispecchiare nel piccolo malevolo cervello ogni sommovimento nella massa circostante di mosconi. Strisciassero pure a piacere lungo il bordo, ma bastava che uno attaccasse a succhiare e in un attimo quella era già in assetto di guerra.
La domanda che mi sono posto è stata: quanto di questo comportamento è imputabile all'istinto e quanto all'intelligenza e al temperamento? La vespa ha certamente indole vespigna, un rancore fulmineo, ed è quanto mai malevola e tirannica nei confronti di altri insetti inoffensivi. E', per giunta, una che li assassina e li divora, così come si ciba con loro di nettare e succhi zuccherini, ma quando uccide, quando la vespa solitaria paralizza ragni, bruchi e insetti vari, li stipa in cellette per fornire un macabro cibo alle larve che infine nasceranno dalle uova non ancora deposte, la vespa allora agisce automaticamente, o per istinto, spinta, per così dire, da una forza estranea. In un caso come quello del comportamento della vespa sulla pera, e in innumerevoli altri casi che si possono leggere o constatare di persona, la mente sembra apportare un contributo non indifferente. Senza dubbio essa è presente in tutti gli insetti, ma in misura diversa; e alcuni Ordini paiono più intelligenti di altri. Perciò, chiunque sia solito osservare gli insetti da vicino e notare i loro piccoli atti probabilmente dirà che rispetto agli altri insetti gli scarafaggi hanno una mente inferiore e gli Imenotteri una mente superiore, e anche che in quest'ultimo Ordine le vespe si pongono sul gradino più alto.
La scena nel frutteto è servita anche a farmi ricordare di uno stuolo di vespe, estremamente diverse per dimensioni, colore e abitudini, sebbene molto simili quanto a temperamento tirannico, che ero solito osservare nell'infanzia e giovinezza in una terra remota. Mi attraevano più, forse, di ogni altro insetto a causa della loro singolare e brillante livrea e del loro formidabile carattere. Erano belle creature, ma cagione di dolore; il dolore che mi cagionavano era in primo luogo fisico, quando mi intromettevo nelle loro faccende o le trattavo senza i dovuti riguardi, e passava presto; poi mentale e più duraturo.
Per i giovanissimi il colore è senza dubbio la caratteristica più attraente in natura, e questi insetti erano smaltati di colori che li facevano rivaleggiare con le farfalle e con gli scintillanti metallici scarafaggi. C'erano vespe con anelli neri e gialli e con anelli neri e scarlatti; vespe di un'uniforme bruno-dorata; altre simili alla nostra libellula che parevano appena uscite da un bagno di uno splendido blu metallico; altre con corpi blu acciaio e ali rosso acceso; altre con corpi cremisi, testa e zampe gialle, e ali blu brillante; altre nere e oro, con testa e zampe rosa; e così via per decine e centinaia di specie "come la Natura si diverte a giocare con i suoi piccoli", tanto da rimanere stupefatti di fronte a una così grande varietà, a così singolari e bei contrasti, prodotti da una mezza dozzina di colori vivaci.
Fu quando iniziai a scoprire i comportamenti delle vespe con gli altri insetti, di cui nutrono i loro piccoli, che il piacere che mi procuravano si mischiò al dolore. Poiché non uccidevano subito la loro preda, come fanno ragni, formiche, libellule, cicindelidi e altre specie rapaci, ma la paralizzavano pungendone i centri nervosi per renderla incapace di resistenza, e la stipavano in una celletta chiusa, cosicché la larva prossima alla nascita avesse carne fresca per nutrirsi: non macellata di fresco ma carne viva.
Perciò l'antica dibattuta questione - come conciliare questi fatti con l'idea che un Essere caritatevole abbia progettato tutto ciò - non mi venne dalle letture, né dai maestri, perché non ne ho mai avuti, ma mi fu imposta dalla natura stessa. Sebbene fosse giunta in quel modo imperativo, io, come molti altri, riuscii a rimuovere la dolorosa domanda e ad attenermi alle vecchie tradizioni. Il clamore della battaglia dell'Evoluzione, che durava da anni, mi raggiunse a malapena, era solo un mormorio quasi impercettibile, come di tempeste incommensurabilmente distanti "su stranieri lidi". La cosa non poteva durare.
Un giorno un mio fratello maggiore, di ritorno da un viaggio in terre lontane, mi mise in mano una copia della celebre Origine delle Specie, consigliandomi di leggerla. Una volta letto il libro, mi chiese cosa ne pensassi. "E' falso!" esclamai su tutte le furie, e lui rise, non sapendo quanto fosse importante per me la faccenda, e mi disse che se volevo potevo tenerlo. Io lo presi senza ringraziare, lo rilessi, meditai a lungo, e riuscii nondimeno a respingerne gli insegnamenti per anni, solo perché non sopportavo di separarmi da una filosofia di vita, se così mi è consentito definirla, che non avrebbe potuto essere logicamente sostenuta, qualora Darwin avesse avuto ragione, e senza la quale la vita non valeva la pena di essere vissuta. Così pensavo all'epoca; è un'illusione tipica della mente umana, perché ci accorgiamo che il bene che per noi conta tanto ci viene strappato con la forza, ma ci riprendiamo dalla partita e andiamo avanti più o meno come prima.
Ora è curioso vedere che Darwin stesso fu il primo a consolare quelli che, convinti loro malgrado, agognavano scoprire una qualche via di scampo che non comportasse il totale abbandono delle loro più care credenze. Comunque sia avanzò l'ipotesi - e gli spiriti religiosi furono pronti a farla propria - che la nuova spiegazione dell'origine delle innumerevoli forme di vita che popolano la terra a partire da uno o da alcuni organismi primordiali, ci fornisse una concezione della mente creativa più nobile di quella tradizionale. L'ipotesi non regge a una verifica, probabilmente scaturisce dai sentimenti miti e compassionevoli dell'autore piuttosto che dalle sue facoltà di raziocinio; ma procurò un sollievo momentaneo e servì allo scopo. A dire il vero per alcuni, forse per moltissimi, serva ancora da rifugio: questo misero riparo messo su alla meglio con un po' di paglia, che lascia entrare e pioggia e vento, ma che a costoro sembra meglio di niente.
Ma per me il più impressionante dei brani intenzionalmente consolatori del libro, è quello dove Darwin accenna agli istinti e all'adattamento, come nel caso della vespa, che i naturalisti sono soliti descrivere, in un modo che sembra più che giusto e naturale, come diabolici. Come nel caso del piccolo di cuculo che espelle dal nido i fratellastri; delle formiche che crescono schiavi, e delle larve di Ichneumonidae che si nutrono dei tessuti vivi dei bruchi nei cui corpi sono nate. Dice che non sarà una conclusione logica, ma gli pare più convincente ritenere certe cose "non istinti connaturati o acquisiti, ma effetti trascurabili di una stessa legge generale" - la legge della variazione e della sopravvivenza del più forte. [William Henry Hudson, Wasps, 1905]
La scena nel frutteto è servita anche a farmi ricordare di uno stuolo di vespe, estremamente diverse per dimensioni, colore e abitudini, sebbene molto simili quanto a temperamento tirannico, che ero solito osservare nell'infanzia e giovinezza in una terra remota. Mi attraevano più, forse, di ogni altro insetto a causa della loro singolare e brillante livrea e del loro formidabile carattere. Erano belle creature, ma cagione di dolore; il dolore che mi cagionavano era in primo luogo fisico, quando mi intromettevo nelle loro faccende o le trattavo senza i dovuti riguardi, e passava presto; poi mentale e più duraturo.
Per i giovanissimi il colore è senza dubbio la caratteristica più attraente in natura, e questi insetti erano smaltati di colori che li facevano rivaleggiare con le farfalle e con gli scintillanti metallici scarafaggi. C'erano vespe con anelli neri e gialli e con anelli neri e scarlatti; vespe di un'uniforme bruno-dorata; altre simili alla nostra libellula che parevano appena uscite da un bagno di uno splendido blu metallico; altre con corpi blu acciaio e ali rosso acceso; altre con corpi cremisi, testa e zampe gialle, e ali blu brillante; altre nere e oro, con testa e zampe rosa; e così via per decine e centinaia di specie "come la Natura si diverte a giocare con i suoi piccoli", tanto da rimanere stupefatti di fronte a una così grande varietà, a così singolari e bei contrasti, prodotti da una mezza dozzina di colori vivaci.
Fu quando iniziai a scoprire i comportamenti delle vespe con gli altri insetti, di cui nutrono i loro piccoli, che il piacere che mi procuravano si mischiò al dolore. Poiché non uccidevano subito la loro preda, come fanno ragni, formiche, libellule, cicindelidi e altre specie rapaci, ma la paralizzavano pungendone i centri nervosi per renderla incapace di resistenza, e la stipavano in una celletta chiusa, cosicché la larva prossima alla nascita avesse carne fresca per nutrirsi: non macellata di fresco ma carne viva.
Perciò l'antica dibattuta questione - come conciliare questi fatti con l'idea che un Essere caritatevole abbia progettato tutto ciò - non mi venne dalle letture, né dai maestri, perché non ne ho mai avuti, ma mi fu imposta dalla natura stessa. Sebbene fosse giunta in quel modo imperativo, io, come molti altri, riuscii a rimuovere la dolorosa domanda e ad attenermi alle vecchie tradizioni. Il clamore della battaglia dell'Evoluzione, che durava da anni, mi raggiunse a malapena, era solo un mormorio quasi impercettibile, come di tempeste incommensurabilmente distanti "su stranieri lidi". La cosa non poteva durare.
Un giorno un mio fratello maggiore, di ritorno da un viaggio in terre lontane, mi mise in mano una copia della celebre Origine delle Specie, consigliandomi di leggerla. Una volta letto il libro, mi chiese cosa ne pensassi. "E' falso!" esclamai su tutte le furie, e lui rise, non sapendo quanto fosse importante per me la faccenda, e mi disse che se volevo potevo tenerlo. Io lo presi senza ringraziare, lo rilessi, meditai a lungo, e riuscii nondimeno a respingerne gli insegnamenti per anni, solo perché non sopportavo di separarmi da una filosofia di vita, se così mi è consentito definirla, che non avrebbe potuto essere logicamente sostenuta, qualora Darwin avesse avuto ragione, e senza la quale la vita non valeva la pena di essere vissuta. Così pensavo all'epoca; è un'illusione tipica della mente umana, perché ci accorgiamo che il bene che per noi conta tanto ci viene strappato con la forza, ma ci riprendiamo dalla partita e andiamo avanti più o meno come prima.
Ora è curioso vedere che Darwin stesso fu il primo a consolare quelli che, convinti loro malgrado, agognavano scoprire una qualche via di scampo che non comportasse il totale abbandono delle loro più care credenze. Comunque sia avanzò l'ipotesi - e gli spiriti religiosi furono pronti a farla propria - che la nuova spiegazione dell'origine delle innumerevoli forme di vita che popolano la terra a partire da uno o da alcuni organismi primordiali, ci fornisse una concezione della mente creativa più nobile di quella tradizionale. L'ipotesi non regge a una verifica, probabilmente scaturisce dai sentimenti miti e compassionevoli dell'autore piuttosto che dalle sue facoltà di raziocinio; ma procurò un sollievo momentaneo e servì allo scopo. A dire il vero per alcuni, forse per moltissimi, serva ancora da rifugio: questo misero riparo messo su alla meglio con un po' di paglia, che lascia entrare e pioggia e vento, ma che a costoro sembra meglio di niente.
Ma per me il più impressionante dei brani intenzionalmente consolatori del libro, è quello dove Darwin accenna agli istinti e all'adattamento, come nel caso della vespa, che i naturalisti sono soliti descrivere, in un modo che sembra più che giusto e naturale, come diabolici. Come nel caso del piccolo di cuculo che espelle dal nido i fratellastri; delle formiche che crescono schiavi, e delle larve di Ichneumonidae che si nutrono dei tessuti vivi dei bruchi nei cui corpi sono nate. Dice che non sarà una conclusione logica, ma gli pare più convincente ritenere certe cose "non istinti connaturati o acquisiti, ma effetti trascurabili di una stessa legge generale" - la legge della variazione e della sopravvivenza del più forte. [William Henry Hudson, Wasps, 1905]
(Palinsesto del cervello umano. A cura di Ottavio Fatica. Il melangolo, 1995)
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