venerdì 5 settembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Un cittadino di Carcosa

Perché esistono diverse specie di morte: alcuni conservano il corpo, e di altri il corpo svanisce insieme allo spirito, ma questo di solito accade in solitudine (tale è il volere di Dio) e, non vedendo la sua fine, noi diciamo che l'uomo è morto o partito per un lungo viaggio - come infatti avviene. In una specie di morte, anche lo spirito muore, e questo può accedere pur rimanendo per molti anni il corpo vigoroso. Talora, come è testimoniato veridicamente, lo spirito muore insieme al corpo, ma dopo un certo tempo rivive nel luogo ove il corpo si è putrefatto. Hali



Stavo meditando le parole di Hali (che Dio gli dia pace) per penetrarne appieno il significato, come chi, cogliendo un'allusione, si domanda se dietro le parole non ci sia qualcosa d'altro, e non feci caso al luogo in cui mi ero smarrito. Finché un improvviso alito di vento freddo non risuscitò in me il senso di ciò che mi circondava. Con stupore osservai che nulla mi era familiare. Ai miei lati si stendevano campi desolati, fitti di alti arbusti secchi che frusciavano e stridevano nel vento autunnale, evocando suggestioni Dio sa quanto misteriose e inquietanti. In alto, a breve distanza l'uno dall'altro, si ergevano picchi cupi, che parevano aver stretto tra loro un'intesa e si scambiavano sguardi di dubbio significato, quasi levassero il capo a sorvegliare l'adempimento di un evento da lungo tempo previsto. Pochi alberi morti apparivano qua e là in quella malevola cospirazione di tacita attesa.
La giornata doveva essere vicino a concludersi. Sebbene sentissi l'aria fredda e cruda, la mia coscienza di questo fatto era più mentale che visiva; non provavo alcun senso di disagio. Su tutta la scena gravava un ammasso di nuvole basse, plumbee, come una visibile maledizione. C'era nell'aria una minaccia, il presagio di un prodigio, un che di malefico, un'allusione ad una sorte avversa. Non si vedevano uccelli, né animali, né insetti. Il vento sospirava tra i nudi rami degli alberi spogli, e l'erba verde si piegava a sospirare il suo terrificante segreto alla terra, ma nessun altro suono o movimento rompeva la spaventosa pace di quel luogo desolato. 
Osservai tra l'erba numerose pietre consumate dal tempo, palesemente tagliate con arnesi maneggiati da mano umana. Spezzate, coperte di muschio, mezzo interrate; qualcuna a terra, altre inclinate ad angolazioni diverse, nessuna verticale. Erano ovviamente pietre tombali, sebbene le tombe da lungo tempo non esistessero più, nemmeno come tumuli o depressioni del terreno: gli anni avevano tutto livellato. Sparsi qua e là, dei blocchi più massicci indicavano dove tombe pompose e ambiziosi monumenti funerari erano stati un giorno eretti, a sfida dell'oblio. Così antichi apparivano quei relitti, quei vestigi della vanità umana, quei segni di affetto e di pietà, così rovinati, macchiati, disfatti, così negletto, deserto, abbandonato il luogo che non potei fare a meno di immaginarmi nelle vesti di uno che scopre casualmente un cimitero dove è sepolta una razza d'uomini preistorici, il cui nome è da secoli estinto. 
Assorto in meditazione, per un po' dimenticai me stesso e i miei casi personali. Poi mi chiesi: "Come sono capitato qui?". Bastò un attimo di riflessione per rendermi tutto chiaro, e anche per spiegare, se pure in maniera inquietante, il singolare carattere di cui la mia fantasia rivestiva ciò che vedevo e sentivo. Io ero ammalato.
Adesso ricordavo di essere stato prostrato da una subitanea febbre. I miei familiari mi avevano raccontato come nel delirio gridassi senza sosta, chiedendo aria e libertà. Avevano dovuto legarmi al letto per impedirmi di fuggire all'aperto.  E adesso, eludendo la vigilanza di chi mi assisteva, ero riuscito ad evadere ed ero qui! Qui, dove? Non potevo nemmeno immaginarlo, privo come ero di punti di riferimento. Chiaramente, mi trovavo a notevole distanza dalla città dove abitavo, l'antica e famosa città di Carcosa. 
Non c'era intorno a me segno di vita umana, né visibilmente né auditivamente; non si levava fumo nell'aria, né abbaiavano cani, né belavano pecore, né bambini gridavano, intenti ai loro giuochi. Nulla, se non quel vecchio cimitero in rovina, con la sua aria di mistero e di incubo, dovuta certo alla mia mente turbata. Stavo delirando di nuovo, in  un posto sconosciuto, senza possibilità di aiuto? O tutto era un'illusione della mia follia, un'allucinazione? Chiamai per nome le mie mogli e i miei figli, allungai le mani in cerca delle loro, pur continuando a camminare tra tombe fatiscenti ed erba secca.
Un rumore alle mie spalle mi fece voltare. Un animale selvatico, una lince, si stava approssimando... Pensai;:"Se fuggo nel deserto, se mi torna la febbre e cado al suolo, quella bestia mi azzanna, mi divora...". Così preferii andarle incontro, gridando nella speranza di spaventarla in maniera che fosse lei a fuggire. Ma la lince trotterellò tranquilla sino a giungere a pochi passi da me, poi girò a sinistra e scomparve dietro una roccia.
Pochi minuti dopo la testa di un uomo spuntò dalla terra, non lontano dal punto in cui mi trovavo. Stava risalendo il pendio di una bassa collina la cui cresta si distingueva appena dalle ondulazioni naturali del terreno. L'uomo era mezzo nudo, i capelli arruffati, la barba lunga e incolta. Portava in una mano un arco e una freccia, e con l'altra reggeva una torcia accesa che si lasciava dietro una lunga scia di fumo nero. Camminava piano, con prudenza, come se temesse di cadere in qualche tomba aperta e nascosta tra l'erba. Questa bizzarra apparizione mi sorprese senza allarmarmi, tanto che, avvicinatomi, rivolsi all'uomo il saluto abituale: "Dio vi guardi!".
Non rispose né si fermò. Io dissi: "Sto male e mi sono perduto. Vi prego d'indicarmi la strada per Carcosa".
Invece di rispondere, l'uomo prese a cantare una specie di inno barbarico in una lingua sconosciuta, continuando a camminare, e dopo pochi minuti scomparve.
Sul ramo secco di un albero morto, una civetta emise il suo lugubre verso, e lontano un'altra civetta rispose. Alzando gli occhi, vidi uno squarcio di improvviso sereno tra le nuvole; in quel lembo azzurro, Aldebaran e le Pleiadi brillavano come diamanti! In tutto il paesaggio dominava un presagio notturno; la lince, l'uomo con la torcia accesa, la civetta... Eppure... Vedevo le stelle splendere nel cielo azzurro! Vedevo, ma apparentemente non ero visto né udito. Nelle maglie di quale sortilegio ero rimasto impigliato?
Sedetti ai piedi di un grande albero per riflettere con calma a ciò che più mi conveniva fare. Che fossi pazzo, non potevo ormai dubitare, ma nella mia convinzione sussisteva un'ombra di incertezza. La febbre era caduta, provavo anzi una sensazione di euforia e di vigore finora a me ignota; una esaltazione mentale e fisica. I miei sensi erano vigili; sentivo lo spessore dell'aria, percepivo il silenzio. 
Una grossa radice dell'albero a cui mi appoggiavo racchiudeva nelle sue volute una lastra di pietra rettangolare, e la parte inferiore di questa lastra (inferiore o superiore, come dirlo?) si protendeva in una cavità formata da un'altra radice. La pietra era così parzialmente protetta dalle intemperie, sebbene apparisse assai malridotta. Gli angli smussati, i bordi consunti, la superficie scavata. Quella lastra evidentemente ricopriva la tomba su cui l'albero era poi cresciuto. Le prepotenti radici avevano derubato la tomba, facendone prigioniera la pietra.
Di colpo, il vento fece volar via foglie secche e ramoscelli che si erano accumulati sulla lastra, ed io vidi le lettere in bassorilievo di una iscrizione. Mi chinai a leggerle. Dio del cielo! Il mio nome e cognome, la data della mia nascita, la data della mia morte!
Mentre scattavo in piedi, terrorizzato, un raggio di luce illuminò il tronco dell'albero, dal mio lato. Dall'oriente rosato stava sorgendo il sole. Io ero in piedi tra l'albero e il grande disco di fuoco, ma nessuna ombra si proiettava sul tronco.
Un coro di lupi ululanti salutava l'alba. Li vidi isolati o in gruppi, seduti sui posteriori in vetta alle piccole irregolari alture e tumuli che popolavano il deserto, sino alla linea dell'orizzonte.
E improvvisamente seppi che quelle alture, quei tumuli erano le rovine dell'antica e famosa città di Carcosa.

Questi sono i fatti rivelati al medium Bayrolles dallo spirito di Hoseib Alar Robardin. 

(Ambrose Bierce, Una cosa infernale. Del Bosco, 1972)






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