sabato 1 marzo 2014

Sono un ribelle, ho l'urlo nella pelle

La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un'epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata. 
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe che prende l'aspetto di un incidente stradale.
E' un fatto che i rapporti tra i progressi dell'automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l'uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l'albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all'orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza esercitino un'autorità assoluta.
I particolari sono noti e molti li hanno più volte descritti; fanno parte integrante della nostra esperienza più intima. Qui si potrebbe obiettare che in passato sono esistite epoche di terrore, di panico apocalittico, non orchestrate o accompagnate da questo carattere di automatismo. E' questa una questione sulla quale non intendiamo soffermarci giacché l'automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, di cui anzi è lo stile precipuo, come l'insuperabile raffigurazione che ne ha dato a suo tempo Hieronymus Bosch. Che il terrore dei moderni abbia delle caratteristiche particolari, o sia semplicemente lo stile che l'angoscia cosmica adotta oggi, in uno dei suoi perenni ritorni? Non vogliamo soffermarci su questa questione, ma piuttosto rispondere alla domanda speculare che è quella che davvero ci sta a cuore: è possibile attenuare il terrore mentre l'automatismo perdura, o, come è prevedibile, mentre esso si avvicina sempre più alla perfezione? Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conservare la nostra autonomia di decisione - ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario? E' questo il problema fondamentale della nostra esistenza. 
E' anche il problema che si nasconde dietro a ogni angoscia del nostro tempo. L'uomo si chiede in che modo gli sia possibile sottrarsi all'annientamento. In questi anni, in qualsiasi parte d'Europa ci si trova a conversare, vuoi con amici vuoi con gente che non si conosce, il discorso si volge ben presto a temi generali e lascia trasparire un profondo avvilimento. Appare subito evidente che quasi tutti, uomini e donne, sono in preda a un panico che dalle nostre parti non si era più visto dagli inizi del Medioevo. In una sorta di cieco invasamento, li vediamo tuffarsi nel loro terrore, di cui esibiscono i sintomi senza pudore alcuno. Assistiamo a una gara di spiriti che discutono animatamente se sia più opportuno fuggire, nascondersi o ricorrere al suicidio, e che, pur godendo ancora della completa libertà, già congetturano con quali mezzi e astuzie sarà possibile accaparrarsi il favore della plebaglia non appena questa si sarà impadronita del potere. Con raccapriccio ci accorgiamo che a nessuna bassezza costoro non darebbero il loro assenso se gli venisse richiesta. Eppure non mancano tra loro uomini sani e vigorosi, con una bella corporatura di atleti. Viene da chiedersi a che giovi tanto sport.
Ebbene, questi uomini, oltre che pavidi, sono anche temibili. L'umore balza in essi dalla paura all'odio dichiarato non appena si accorgono che le stesse persone che poco prima incutevano timore mostrano ora qualche segno di debolezza. Siffatte congreghe non s'incontrano soltanto in Europa. Dove l'automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi. Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si rizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci. 
Naturalmente l'Est non fa eccezione: l'Occidente vive nel terrore dell'Oriente e l'Oriente vive nel terrore dell'Occidente. In tutti i luoghi della terra si vive nell'attesa di spaventose aggressioni: a cui si aggiunge, per molti, il timore della guerra civile.
Il rozzo meccanismo della politica non è l'unica fonte di tanto timore. Oltre a quello esistono innumerevoli altre forme di angoscia, che implicano tutte quell'insicurezza che si appella incessantemente a medici, messia, taumaturghi. Tutto, infatti, può dare adito al timore. E' questo, inequivocabilmente, più di qualsiasi pericolo materiale, il segno premonitore del declino.

(Ernst Junger, Trattato del ribelle. Adelphi, 1990 - 1. ed. 1951)




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