Certo l'uomo non può evitare di essere molle.
(Girolamo Cardano)
Se quella notte un agente di polizia si fosse trovato in boulevard de Courcelles, molto probabilmente avrebbe pensato di essere pazzo; perché alla parola "uomo" un poliziotto vede subito qualcosa di massiccio e di duro al quale ci si può abbrancare, che bisogna "avvinghiare alla vita", secondo l'espressione professionale, che si atterra a colpi di randello sul cranio e del quale si diventa padroni col gioco classico delle manette ai polsi. L'eroe di questa piccola storia avrebbe riso parecchio se avessero cercato di infilargli le manette, ma non c'erano agenti, ed eccolo comparire all'angolo di rue de Courcelles, di fronte all'omonima stazione del métro, per avviarsi in fretta sul viale in direzione della rotonda.
Il marciapiede che qui costeggia la cancellata del parco Monceau dopo mezzanotte è uno dei luoghi più deserti della capitale. Piccoli borghesi ordinati, professori, funzionari compongono quasi tutta la popolazione di questo quartiere, ove gli edifici più noti, una piscina, alcuni istituti di insegnamento privato nei quali ci si alza troppo presto per vegliare fino a tardi, non hanno vita notturna. Le belle di notte vanno piuttosto a caccia dalle parti del boulevard des Batignolles, o dell'avenue de Wagram, che si vede sfavillare dopo place des Ternes, mentre le cocottes di rue de Chazalle sono a Montmartre coi loro protettori. Infine, la mancanza di traffico fa sì che non vi siano mendicanti e non si saprebbe dire, a filo di logica, perché il luogo sia ritenuto pericoloso, dal momento che gli algerini della Chapelle, che qualche volta giocano al rasoio fra il fumo dei treni del Nord e dell'Est, non si avventurano mai più giù del métro d'Anvers.
In realtà da quella solitudine si sprigiona un'aria sgradevole, che proviene, probabilmente, dalle sbarre molto alte, disposte in lunga fila, serrate l'una con l'altra e dorate sulle punte, dietro le quali si scorgono vaghe le sagome di statue o di opere decorative, che spiccano sulla massa cupa della verzura sopra lo specchio fangoso di qualche stagno. Più lontano, per la pesantezza della sua cupola grigia, la rotonda Monceau evoca l'ingresso di un cimitero monumentale in Italia.
Il nostro personaggio si lascerà commuovere dall'atmosfera funerea del luogo? Invece di affrettare il passo, come fanno solitamente gli inquieti, ecco che si ferma, a metà strada dalla rotonda, per lanciare un lungo sguardo intorno a sé. Si afferra la testa con ambedue le mani, grida qualcosa in tono di scherno, lancia nel rivo il cappello di feltro. Poi, con la fretta di coloro che paventano d'essere sorpresi a svestirsi all'aperto, si strappa, più che togliersi, tutti gli abiti, e li arrotola nell'impermeabile deposto sul muro di sostegno della cancellata.
Fin qui, ancora nulla di straordinario. I commissariati sono avvezzi a gente di questo genere, che portano lì prima dell'alba, inebetiti e tremanti dal freddo perché nudi sotto una mantellina azzurra, troppo corta per avvilupparli con la minima decenza: ubriachi, invasati, folli mistici che credono di avere sentito le trombe dell'ultimo giudizio, ce n'è di tutte le specie, e il più delle volte li si lascia andare senza tante formalità, oppure li si restituisce a che viene a reclamarli dopo che hanno trascorso la mattinata in guardina.
L'uomo nudo ora fa uno sgraziato fagotto della sua roba, annodando quattro o cinque volte, un nodo sopra l'altro, le maniche dell'impermeabile e (crede forse, con l'abbandono di questi rifiuti, di ritrovare nel seno materno della notte un'innocenza altrettanto insolita sul boulevard de Courcelles quanto una criniera di cavallo che all'improvviso schizzasse fuori, fitta, dai muri bianchi di calce di una cella monastica?) getta il tutto dall'altra parte della cancellata, nelle tenebre del parco. L'ampiezza di quest'ultimo gesto sarebbe apparsa singolare a un osservatore; più che gettato, non sarebbe meglio dire, se la cosa fosse possibile, che il pacco si è trovato "deposto", a lunghezza di braccio, dietro la cancellata?
Ma, nello stesso istante, l'uomo si issa sull'orlo del muretto, e l'osservatore - se ne esiste uno da qualche parte - può pur dimenticare tutto questo preludio davanti allo spettacolo veramente fantastico di un braccio di rispettabile rotondità che si insinua, senza sforzo apparente, fra due sbarre accostate in modo da contenere appena una canna per innaffiare.
Abbiamo visto, forse, un serpente che si allunga, e il ventre gli diventa così sottile da seguire nei buchi più stretti il piccolo cranio; abbiamo visto lumache appiattirsi smoderatamente per andare a collocarsi nel cavo di un sasso; abbiamo visto il corpo della piovra modellarsi sul rilievo della caverna ove il mollusco è rannicchiato. C'è un po' di tutto questo, ma c'è ancora ben altro, nella deformazione di quel braccio umano sul quale si arrotola, come un'onda che risalga verso la spalla, un cuscinetto di pelle che sempre più si gonfia a mano a mano che progredisce il morso della cancellata. L'uomo nudo contempla con interesse lo svolgimento del fenomeno, e le sue labbra emettono un fischio nel quale forse si riconosce una melodia che deve trovarsi nelle "Nozze di Figaro". La spalla segue il braccio senza la minima difficoltà. La testa diventa simile a un disco enorme e assai piatto, e si può ancora distinguere un volto che assomiglia a quello della luna sui manifesti di un ben noto lucido per le scarpe. Il fischiettio si è attenuato, ma continua debolmente anche se non c'è più un pollice di spessore fra la bocca e la nuca. Ora si distingue senza ombra di dubbio l'aria del farfallone amoroso. Nel frattempo, la testa e l'altro braccio passano a loro volta dietro le sbarre, e il resto del corpo li segue, aspirato a poco a poco come nei rulli inesorabili di un laminatoio.
Dall'altro lato della cancellata, quel corpo, ridotto così come si è visto in dischi, in lastre, in lunghi nastri di carne, riprende immediatamente la sua forma con una elasticità che avremmo ritenuto privilegio di quelle Miss Caucciù, che gli artisti giapponesi spediscono per tutto il mondo entro casse ben foderate, e le cui grazie attirano una clientela di amatori verso le serrande color rosolaccio di certi piccoli negozi segreti nel quartiere delle Folies-Bergère... Ma lasciamo stare questi misteri, che sono di Parigi come di tante altre città e che, tutto sommato, sono soltanto spaventosamente volgari. Torniamo piuttosto al nostro malleabile eroe, davanti al quale la notte non troppo oscura rivela un parco Monceau assai più strano di quello dei monelli e delle balie di cui brulica durante il giorno.
Pochi passi sono bastati per fargli perdere di vista l'infilata di sbarre e, dietro quelle, le luci del boulevard. E' ora in un fitto boschetto di laurocerasi, che scavato a guisa di conca presenta all'interno un ampio vuoto dove i giardinieri ripongono, al riparo dagli sguardi, ciò che probabilmente sembra loro vergognoso o superfluo. Come un gran cumulo di letame che hanno appena portato via e che ha lasciato sulla terra nera un rettangolo chiaro fatto di mille germogli bianchi simili ad invidia e attorcigliati a guisa di gracili serpenti su una lastra di piombo; come una piramide di poltrone e di seggiole in fil di ferro giallo rizzante verso il cielo un tale arruffio di piedi da far pensare a una macchina per captare i fulmini, e all'opera di un demente. Di fianco, sul manico di una vanga conficcata per terra, una moltitudine di corone di paglia come degli ex-voto; e le banalità di un innaffiatoio di rame e di rastrelli coi denti in aria - se vi camminate sopra, il manico vi colpirà il viso - non dissiperanno facilmente la prima impressione di stupore all'idea del cerimoniale bizzarro che cercate di immaginare, in atto di svolgere la sua pompa sul palcoscenico di quel luogo appartato. Conosciamo davvero la religione dei giardinieri? Dove trovare il minimo ragguaglio su questi uomini che potremmo toccare con la mano ogni giorno, e che ci rimangono più stranieri degli zigani o dei pigmei dell'Equatore? Dove sono le opere sapienti, i libri dotti, gli atlanti con tavole? Chi scriverà quel trattato, che tanto ci manca, sui costumi dei giardinieri e sulle loro abitudini notturne? Non esiste niente di tutto questo, e la scienza si interessa soltanto alle cose lontane. Nella penombra, campane proteggenti piccoli vegetali di lusso, brillano i seni di ricambio di una colossale figura di vetro.
Ancora qualche passo; l'uomo nudo esce dal boschetto e si siede sul pendio assai leggero di un prato abbastanza vasto nel quale altro non si vede, qua e là, se non statue irrigidite nella pietra e nel bronzo. Le stelle tremano sopra il suo capo. E' un momento ideale per quella antica tristezza pagana, che spesso fa gemere coloro il cui destino è di essere unici al cospetto di tutte le specie del mondo.
"Perché non sono piuttosto monco delle gambe" - esclama - "accosciato sotto i miei rancidi stracci fra le anticaglie di un mercato di roba vecchia sciorinate all'aperto?! Perché non sono un tronco umano che si mette sotto vetro, cinto di fiori d'arancio, fra due bei candelabri d'argento?! Potrei, almeno, piacere a una di quelle dolci donne bianche e rosa il cui volto di porcellana da infermiera anglosassone si illumina, come a un raggio di sole, allo spettacolo affascinante di un uomo minorato nella propria carne."
Tace, poi lo si vede arrovesciarsi all'indietro, impugnare i piedi fra le mani e tendere tutto il corpo in un cerchio assolutamente perfetto. Ecco all'improvviso la ruota umana, quel capriccio di qualche incisore del Rinascimento, ritta in equilibrio sull'erba corta; la testa è strettamente incollata alle braccia, il naso è rientrato nel viso, nessuna sporgenza rompe la levigatezza del battistrada, ma gli occhi sono un po' arretrati da una parte e dall'altra di questo, e la schiena, all'interno della ruota, conserva tutte le sue forme intatte.
La stupefacente creatura si dondola, compie un giro d'orizzonte facendo perno sul proprio asse verticale e si appiattisce due o tre volte per prendere slancio, fin quando uno scatto, brutale come quello di una molla, la arrotonda di nuovo mandandola nello stesso tempo a rotolare lontano sui fianchi erbosi del prato. Corre con una velocità che ha del prodigioso, batterebbe un cavallo al gran galoppo, e, quando sembra che il movimento stia per rallentare, una deformazione appena sensibile le ridà nuove forze. Anche i rigonfiamenti, che rendono gibboso un po' ovunque il terreno, non la fermano; sale su quei piccoli monticelli con la stessa leggerezza con la quale la si vede calare a valle dei loro pendii. Quando incontra gli archetti di ferro che fiancheggiano il prato, li supera di un facile balzo, e si ha quasi l'impressione di sentirla ridere; è pure in questa guisa che affronta il marciapiede dell'avenue Ferdousi, la grande carrozzabile attraverso cui l'avenue Ruysdael si congiunge a rue de Phalsbourg, e allora penetra nella seconda metà del parco, verso l'avenue Velasquez. Un momento, corre sulla riva dello stagno romantico sfiorando l'edera che qui adorna con le sue pesanti trecce alcune rovine dall'aspetto artificioso, vestigia, a quanto si dice, del grande mausoleo della regina Caterina, poi, dopo qualche andirivieni in quello scenario polveroso, eccola spuntare all'angolo di un cespuglio di pruni, davanti alla spaventosa colata di biancheria sporca che a tutte le ore è la figura della Notte sul monumento a Fryderyk Chopin. Vacilla come un cerchio che stia per cadere a terra, ma non cade, e attraversa ancora il ruscello su un fragile ponte di legno prima di fermarsi, oscillando, dall'altro lato dell'acqua.
La ruota si disfa all'istante. Quelle carni così ben applicate a comporre il più raro e il più matematico dei mostri, così ben saldate insieme che il più accanito anatomista non saprebbe decidersi alla loro dissezione, si staccano senza alcuna fatica visibile. Ancora una volta è l'uomo nudo, nostra vecchia conoscenza, che stira il suo gran corpo nel mezzo della notte, solo spazzando col rovescio della mano l'erba schiacciata che l'ha sporcato, durante la corsa, dalla testa agli alluci.
Tuttavia, proprio a fianco del luogo ove ha cessato di essere rotondo, un Laocoonte attira i suoi sguardi, e le contorsioni del gruppo gli appaiono come altrettante sfide da raccogliere immantinente, altrettanti inviti a giochi di pietra e di pelle che il tepore della notte e il chiarore delle stelle renderanno incantevoli. Non gli ci vuole molto tempo a scavalcare il bordo di un'aiuola, ove il marrone rossiccio delle violaciocche nane disegna una mediocre scacchiera su un incerto fogliame grigio.
"Stupida genia dei giardinieri paesaggisti," brontola, "artisti floreali, bestie degne di mangiare il vostro concime! Non potevate mettere primule auricole sotto i miei piedi nudi, con un po' di eliotropio, almeno, per avvolgere d'un profumo che gli si convenga questo buon amico dei serpenti?"
E si issa sullo stretto zoccolo della statua.
Si direbbe, per una curiosa illusione dei sensi, che il gruppo si sia animato a contatto dell'uomo nudo. Eppure la pietra resta pietra, e non c'è mai altro prodigio che quella natura un po' bizzarra che permette al nostro eroe di spezzare la sua forma abituale per sciogliersi in tutte quelle che gli piacciono, alla sola condizione di non cambiare di volume.
Vedete come si allunga, adesso? Si è di nuovo trasformato in una spirale vertiginosa che si avvinghia intorno al nobile vecchio; in certi momenti, non è più altro, per l'occhio abbagliato, se non un malstrom di riflessi pallidamente dorati che corrono sul marmo come se stessero per inabissarvisi; poi è un filo sferzante, simile a quei sottili rettili arboricoli dell'Insulindia, che pende sotto i muscoli ben modellati della statua; e si ispessisce fino a diventare una specie di idra, o di calamaro: nidiata di grossi serpenti nati dalle braccia, dalle gambe, dall'intero corpo dell'uomo ridotto al calibro dei suoi modelli pietrificati. Nessuno oserebbe mettere la mano su quelle spire rapide, che si immaginano viscide e fredde al tatto; non se ne vorrebbe sentire il rumore incessante che evoca l'urto di corregge, ma quel rumore, quel movimento affascinano, e i passeri svegliati popolano di acute grida la ramatura che copre la riva.
Una carpa, o qualche altro pesante pesce divoratore di zanzare, è saltata fuori dallo stagno. La sua molle caduta, nell'acqua che si chiude con un gran colpo di lingua e una pioggia di sparpagliate goccioline, produce un effetto inatteso, perché ogni movimento cessa, tutti i serpenti si irrigidiscono ai fianchi del marmo. Se si vuole contemplare il più raro dei Laocoonti, bisogna affrettarsi, e forse riconosceremo, all'estremità di un tentacolo ritto sulla fronte del sacerdote di Nettuno, due occhi che la ruota umana ci aveva già mostrato, ma che qui sono così ravvicinati da costituirne pressoché uno solo sotto un lungo corno villoso. Tosto questo ritorna al suo primo stato di cranio, la statua ritrova le sue millenarie convulsioni, e l'uomo, ancora agghiacciato dagli abbracci del marmo, fugge, senza neppure pensare a tornare ruota, verso le smerlettature di un boschetto intravisto sulla sinistra di un caos di false rupi simulanti una grotta di montagna.
L'assurda emozione che l'aveva invaso - e per così poca cosa come il rumore d'un pesce - è scomparsa, ma è un rifugio poco amabile, durante la notte, quando si è nudi, una macchia di pruni e di agrifoglio. Ora si tratta di uscirne. Un viale serpentino, ove corre il nostro uomo a lunghi passi sferzati dai rami, lo conduce davanti a una povera parvenza di piramide, nerastra, tristemente vigilata da due sfingi, che, senza saperne il motivo, i custodi del parco chiamano sempre la tomba etrusca, anche se lo stile è piuttosto egiziano. Sotto la porta, che tuttavia sembra un'ingannevole prospettiva in pieno giorno, brilla un raggio di luce - fessura così sottile che vi passerebbe una cimice e forse un lombrico, ma certo non uno scarafaggio.
L'uomo nudo si corica sulla sabbia del viale. Nessuno si stupirà di vederlo appiattirsi in modo da risultare in breve come una larga pelle tesa sul suolo, ma viva, e attraverso la quale si possono distinguere il cuore, il fegato, i polmoni e tutti gli organi ancora funzionanti per quanto deformata sia la loro struttura. Basterebbero quattro chiodi, conficcati in questo istante, per fissarlo sul terreno come una rana laminata sul tavolo sperimentale. L'osservatore li conficcherebbe senza scrupoli, se potesse uscire dal suo ruolo per intervenire in modo concreto. Immaginarsi la sorpresa dei ragazzi, la mattina dopo, davanti a quel giocattolo straordinario, i loro divertimenti crudeli e tutto l'inedito di cui si abbellirebbero le regole del croquet, delle biglie o del gioco del mondo, i soldatini di piombo all'assalto di rabbrividenti trincee, il fuoco dei petardi accesi nel vivo del campo di battaglia! Una mano guantata di spini non sta per emergere fuori dal boschetto, alzando in aria i chiodi e il martello? Ci si augurerebbe di vederla, e che desse bene il colpo. Ma null'altro si muove se non l'epidermide appiccicata alla sabbia, semplice macchia chiara che striscia verso la porta della tomba.
Inutile, naturalmente, ripetere con quale facilità siano superati tutti gli ostacoli. L'uomo nudo, ridotto a due dimensioni, scivola sotto la porta come farebbe una pellicola untuosa, e quando riprende l'aspetto ordinario si trova in una piccola sala a tre pareti, che ha la forma della piramide esterna. I muri obliqui danno una penosa impressione di schiacciamento per la materia di un aspro grigio di cui sono rivestiti, e che è probabilmente ardesia o piombo. Davanti all'uomo, mormora una fontana capricciosa ove, su pietruzze e conchiglie d'argento che salgono più in alto della sua testa, una moltitudine di piccoli insetti muniti di proboscide riversano migliaia di fili d'acqua cui danno color d'arcobaleno i fulgori di luce riflessi dalle loro ali frementi; l'oscurità del fondo e la mancanza di specchi aumentano lo splendore di quegli automi, come se giocassero su tende di fuliggine.
Dopo aver gustato per qualche istante il divertente spettacolo, l'uomo nudo vede aprirsi nel pavimento una porta orizzontale a guisa di trappola. Ne esce un uomo, il primo che venga a rompere la solitudine in cui è rimasto fino ad ora il nostro eroe, e piega davanti a costui il suo volto color del mattone, con la bocca leggermente sorridente, gli occhi un po' stretti verso il profilo fuggente delle tempie. L'atteggiamento del nuovo venuto testimonia un grande rispetto, ma non mostra la minima espressione di sorpresa.
"Da lungo tempo la aspettavamo, Signor Molle," dice. "Da lungo tempo parlavamo delle sue nozze col grande Gatto Mammone. Tutti, qui, si rallegreranno per un arrivo che mette in festa le nostre dimore sotterranee; è in nome di costoro che la prego di volermi seguire."
E prima lo conduce al piano inferiore, in uno stanzino lastricato di un mosaico ove frammenti di gusci d'uova si mescolano a chiodi d'oro e a turchesi fra le più splendide che mai siano uscite dalle miniere della Persia, illuminato da una lumiera pentagonale costituita da cinque carcasse di pollastri puliti in modo da lasciarli intatti fino alle più fragili cartilagini, foderate di mussolina azzurro pallido intorno alle lampadine e cinte di piume di struzzo. Lì, due persone vecchissime più aggrinzite della madre del tempo, e delle quali non si potrebbe dire esattamente se siano donne, anche se di altro non sono vestite se non della loro pelle caduca, si affrettano intorno all'uomo nudo per lavargli il corpo e profumarlo.
L'altro rimane in un angolo e di lì le guarda, il braccio appoggiato su una mensola che si potrebbe credere tagliata da uno scultore dell'età barocca nel vivo della carne di una medusa gigantesca, poiché il mobile panciuto, di un azzurro traslucido, trema al minimo tocco come una massa di gelatina.
"Conosce," ripiglia, "la storia di quel mercante arabo che fu lo sposo di una fanciulla della reggia? Aveva osato accarezzare la moglie dopo il pranzo di nozze, senza essere prima passato attraverso tutte le abluzioni rituali. Per punirlo, lei gli fece immediatamente mozzare a colpi di rasoio i quattro pollici dei piedi e delle mani, e in seguito a ciò egli fu per lunghi anni il più ardente e rispettoso dei mariti. Non creda che noi siamo caduti così in basso nell'imitazione delle Mille e una notte, ma qualche misura di pulizia non le sarà inutile dopo che i giochi all'aria aperta che si possono indovinare dalle tracce lasciate su di lei, e poi questi olii di valeriana, coi quali la massaggiamo, hanno un profumo che piace al nostro padrone."
L'uomo nudo non risponde, accecato com'è dai getti di lozioni, stordito dallo stridore rugginoso dei vaporizzatori, rudemente strigliato da strumenti puntuti che infuriano nelle mani delle due vecchie creature; e la guida continua, con frasi indifferenti.
"Mi chiamano il Fiorentino, e io lo lascio dire, anche se il mio paese natio è piuttosto dalle parti di Volterra. Tutti quei Concini, quei Galigai, quei Medici, quei Lulli, hanno fatto tanto che ormai vi sono soltanto fiorentini nel parco Monceau, persino fra i còrsi di place Clichy. Ma la mia storia non può avere molto interesse per lei; d'altronde credo che lei sia a buon punto."
Ciò detto, si avvicina, e discosta le due orribili vecchie che, rovesciato il loro paziente in una rete di guerra, ve lo tengono a discrezione. Gaudiose per la sua elasticità, gli avviluppano insieme le gambe e le braccia ripiegate dietro la schiena, e ne fanno una molle treccia, che tirano attraverso le maglie di bronzo della rete. Il Fiorentino le incatena allacciando loro alla nuca due forti collari irti di punte simili a quelli che si mettono agli alani tedeschi. La sua destrezza è così rapida che quelle sferragliano contro il muro prima di aver capito quello che gli succede, ma quando si vedono l'un l'altra così maltrattate, urlano, furiose, mentre egli ridà la libertà all'uomo nudo senza ascoltare le loro preghiere frammiste a maledizioni. Esse fanno un tale baccano che gli uomini non riuscirebbero a dire una parola, e decidono di uscire dalla piccola stanza attraverso una porta aperta dal Fiorentino, di fronte a quella di cui si sono serviti per entrare.
Tutti e due, allora, si inoltrano in un lungo corridoio sotterraneo che scende una china assai ripida - una scala sarebbe più comoda, e si rimpiange la mancanza di gradini. Sotto un'illuminazione irregolare proveniente da una moltitudine di quelle conchiglie dette porcellane o veneri, appese alla volta e piene di lucciole che aleggiano anche vicino alle fessure, s'innalzano a destra e a sinistra alte colonne nerastre, irte di un crine più duro del pelo dell'elefante e mosse da assai lente ondulazioni. L'uomo nudo, che ha incespicato, vuole riprendere sostegno appoggiandosi alla più vicina, ma questa gli si contrae nella mano, ed egli si stupisce di sentirla bruciante. Inerpicate su scale di vimini, belle ragazze dai quindici ai diciassette anni, brune come meticce, seminude sotto fragili vestaglie di seta color arancio porpora, accarezzano le colonne con le dita e la lingua quasi fossero fantastici strumenti musicali; e in realtà, passando, vi si sentono risonare lunghi e teneri muggiti.
"Cazzi di cervi marini", dice il Fiorentino; "bellini, non è vero? Le piccole si adoprano a farli stare diritti e rigidi, perché quelli sopportano tutto il peso della vòlta. Se cedessero anche solo un momento, che catastrofe!"
A quest'idea poco rassicurante, i due uomini si affrettano. Subito sono dabbasso, davanti a una tiepida muraglia ove non si vede alcun varco, ma due battenti nascosti si aprono sotto la mano del Fiorentino, e l'uomo nudo, spinto in avanti dal compagno, si trova in una grande sala a forma di rotonda che sembra costruita all'interno di un immenso cuscino. Nessun angolo retto; il pavimento, i muri e il soffitto, confusi dalle loro forme tondeggianti, sono egualmente rivestiti da una lanuginosa imbottitura nella quale si affonda senza trovare sostegno.
Il Fiorentino è scomparso. L'uomo nudo vacilla, barcolla da ogni parte, e non si capisce quali molle invisibili lo facciano comunque muovere per spingerlo alla fine fra le zampe del Gatto Mammone, che, nel centro della stanza, troneggia come un ammasso colossale di pelo dorato, montagna ronfante e calda la quale si chiude sull'uomo con un rumore di trappola.
Le colonne, nel corridoio, sembrano colte da furia convulsa. Ovunque crepitano rumori d'organo, gorgoglii spaventosi, e le giovani musicanti, precipitate a terra dalle loro scale rovesciate, corrono in quel disordine con stridi da pappagallo. Poi le colonne si mischiano, si avvinghiano orribilmente, e quei nodi flaccidi si accasciano su blocchi di pietra ruzzolando giù dalla china. Tutto, allora, crolla. Tutto si fa buio intorno all'uomo nudo, che ha occhi, naso, bocca pieni di pelo rosso e di odore. La sua pelle non è più che un brulichio di artigli che penetrano, accarezzando, ed egli perde coscienza, felice come se annegasse in seno a un mare di pelliccia.
Dall'altro lato della cancellata, quel corpo, ridotto così come si è visto in dischi, in lastre, in lunghi nastri di carne, riprende immediatamente la sua forma con una elasticità che avremmo ritenuto privilegio di quelle Miss Caucciù, che gli artisti giapponesi spediscono per tutto il mondo entro casse ben foderate, e le cui grazie attirano una clientela di amatori verso le serrande color rosolaccio di certi piccoli negozi segreti nel quartiere delle Folies-Bergère... Ma lasciamo stare questi misteri, che sono di Parigi come di tante altre città e che, tutto sommato, sono soltanto spaventosamente volgari. Torniamo piuttosto al nostro malleabile eroe, davanti al quale la notte non troppo oscura rivela un parco Monceau assai più strano di quello dei monelli e delle balie di cui brulica durante il giorno.
Pochi passi sono bastati per fargli perdere di vista l'infilata di sbarre e, dietro quelle, le luci del boulevard. E' ora in un fitto boschetto di laurocerasi, che scavato a guisa di conca presenta all'interno un ampio vuoto dove i giardinieri ripongono, al riparo dagli sguardi, ciò che probabilmente sembra loro vergognoso o superfluo. Come un gran cumulo di letame che hanno appena portato via e che ha lasciato sulla terra nera un rettangolo chiaro fatto di mille germogli bianchi simili ad invidia e attorcigliati a guisa di gracili serpenti su una lastra di piombo; come una piramide di poltrone e di seggiole in fil di ferro giallo rizzante verso il cielo un tale arruffio di piedi da far pensare a una macchina per captare i fulmini, e all'opera di un demente. Di fianco, sul manico di una vanga conficcata per terra, una moltitudine di corone di paglia come degli ex-voto; e le banalità di un innaffiatoio di rame e di rastrelli coi denti in aria - se vi camminate sopra, il manico vi colpirà il viso - non dissiperanno facilmente la prima impressione di stupore all'idea del cerimoniale bizzarro che cercate di immaginare, in atto di svolgere la sua pompa sul palcoscenico di quel luogo appartato. Conosciamo davvero la religione dei giardinieri? Dove trovare il minimo ragguaglio su questi uomini che potremmo toccare con la mano ogni giorno, e che ci rimangono più stranieri degli zigani o dei pigmei dell'Equatore? Dove sono le opere sapienti, i libri dotti, gli atlanti con tavole? Chi scriverà quel trattato, che tanto ci manca, sui costumi dei giardinieri e sulle loro abitudini notturne? Non esiste niente di tutto questo, e la scienza si interessa soltanto alle cose lontane. Nella penombra, campane proteggenti piccoli vegetali di lusso, brillano i seni di ricambio di una colossale figura di vetro.
Ancora qualche passo; l'uomo nudo esce dal boschetto e si siede sul pendio assai leggero di un prato abbastanza vasto nel quale altro non si vede, qua e là, se non statue irrigidite nella pietra e nel bronzo. Le stelle tremano sopra il suo capo. E' un momento ideale per quella antica tristezza pagana, che spesso fa gemere coloro il cui destino è di essere unici al cospetto di tutte le specie del mondo.
"Perché non sono piuttosto monco delle gambe" - esclama - "accosciato sotto i miei rancidi stracci fra le anticaglie di un mercato di roba vecchia sciorinate all'aperto?! Perché non sono un tronco umano che si mette sotto vetro, cinto di fiori d'arancio, fra due bei candelabri d'argento?! Potrei, almeno, piacere a una di quelle dolci donne bianche e rosa il cui volto di porcellana da infermiera anglosassone si illumina, come a un raggio di sole, allo spettacolo affascinante di un uomo minorato nella propria carne."
Tace, poi lo si vede arrovesciarsi all'indietro, impugnare i piedi fra le mani e tendere tutto il corpo in un cerchio assolutamente perfetto. Ecco all'improvviso la ruota umana, quel capriccio di qualche incisore del Rinascimento, ritta in equilibrio sull'erba corta; la testa è strettamente incollata alle braccia, il naso è rientrato nel viso, nessuna sporgenza rompe la levigatezza del battistrada, ma gli occhi sono un po' arretrati da una parte e dall'altra di questo, e la schiena, all'interno della ruota, conserva tutte le sue forme intatte.
La stupefacente creatura si dondola, compie un giro d'orizzonte facendo perno sul proprio asse verticale e si appiattisce due o tre volte per prendere slancio, fin quando uno scatto, brutale come quello di una molla, la arrotonda di nuovo mandandola nello stesso tempo a rotolare lontano sui fianchi erbosi del prato. Corre con una velocità che ha del prodigioso, batterebbe un cavallo al gran galoppo, e, quando sembra che il movimento stia per rallentare, una deformazione appena sensibile le ridà nuove forze. Anche i rigonfiamenti, che rendono gibboso un po' ovunque il terreno, non la fermano; sale su quei piccoli monticelli con la stessa leggerezza con la quale la si vede calare a valle dei loro pendii. Quando incontra gli archetti di ferro che fiancheggiano il prato, li supera di un facile balzo, e si ha quasi l'impressione di sentirla ridere; è pure in questa guisa che affronta il marciapiede dell'avenue Ferdousi, la grande carrozzabile attraverso cui l'avenue Ruysdael si congiunge a rue de Phalsbourg, e allora penetra nella seconda metà del parco, verso l'avenue Velasquez. Un momento, corre sulla riva dello stagno romantico sfiorando l'edera che qui adorna con le sue pesanti trecce alcune rovine dall'aspetto artificioso, vestigia, a quanto si dice, del grande mausoleo della regina Caterina, poi, dopo qualche andirivieni in quello scenario polveroso, eccola spuntare all'angolo di un cespuglio di pruni, davanti alla spaventosa colata di biancheria sporca che a tutte le ore è la figura della Notte sul monumento a Fryderyk Chopin. Vacilla come un cerchio che stia per cadere a terra, ma non cade, e attraversa ancora il ruscello su un fragile ponte di legno prima di fermarsi, oscillando, dall'altro lato dell'acqua.
La ruota si disfa all'istante. Quelle carni così ben applicate a comporre il più raro e il più matematico dei mostri, così ben saldate insieme che il più accanito anatomista non saprebbe decidersi alla loro dissezione, si staccano senza alcuna fatica visibile. Ancora una volta è l'uomo nudo, nostra vecchia conoscenza, che stira il suo gran corpo nel mezzo della notte, solo spazzando col rovescio della mano l'erba schiacciata che l'ha sporcato, durante la corsa, dalla testa agli alluci.
Tuttavia, proprio a fianco del luogo ove ha cessato di essere rotondo, un Laocoonte attira i suoi sguardi, e le contorsioni del gruppo gli appaiono come altrettante sfide da raccogliere immantinente, altrettanti inviti a giochi di pietra e di pelle che il tepore della notte e il chiarore delle stelle renderanno incantevoli. Non gli ci vuole molto tempo a scavalcare il bordo di un'aiuola, ove il marrone rossiccio delle violaciocche nane disegna una mediocre scacchiera su un incerto fogliame grigio.
"Stupida genia dei giardinieri paesaggisti," brontola, "artisti floreali, bestie degne di mangiare il vostro concime! Non potevate mettere primule auricole sotto i miei piedi nudi, con un po' di eliotropio, almeno, per avvolgere d'un profumo che gli si convenga questo buon amico dei serpenti?"
E si issa sullo stretto zoccolo della statua.
Si direbbe, per una curiosa illusione dei sensi, che il gruppo si sia animato a contatto dell'uomo nudo. Eppure la pietra resta pietra, e non c'è mai altro prodigio che quella natura un po' bizzarra che permette al nostro eroe di spezzare la sua forma abituale per sciogliersi in tutte quelle che gli piacciono, alla sola condizione di non cambiare di volume.
Vedete come si allunga, adesso? Si è di nuovo trasformato in una spirale vertiginosa che si avvinghia intorno al nobile vecchio; in certi momenti, non è più altro, per l'occhio abbagliato, se non un malstrom di riflessi pallidamente dorati che corrono sul marmo come se stessero per inabissarvisi; poi è un filo sferzante, simile a quei sottili rettili arboricoli dell'Insulindia, che pende sotto i muscoli ben modellati della statua; e si ispessisce fino a diventare una specie di idra, o di calamaro: nidiata di grossi serpenti nati dalle braccia, dalle gambe, dall'intero corpo dell'uomo ridotto al calibro dei suoi modelli pietrificati. Nessuno oserebbe mettere la mano su quelle spire rapide, che si immaginano viscide e fredde al tatto; non se ne vorrebbe sentire il rumore incessante che evoca l'urto di corregge, ma quel rumore, quel movimento affascinano, e i passeri svegliati popolano di acute grida la ramatura che copre la riva.
Una carpa, o qualche altro pesante pesce divoratore di zanzare, è saltata fuori dallo stagno. La sua molle caduta, nell'acqua che si chiude con un gran colpo di lingua e una pioggia di sparpagliate goccioline, produce un effetto inatteso, perché ogni movimento cessa, tutti i serpenti si irrigidiscono ai fianchi del marmo. Se si vuole contemplare il più raro dei Laocoonti, bisogna affrettarsi, e forse riconosceremo, all'estremità di un tentacolo ritto sulla fronte del sacerdote di Nettuno, due occhi che la ruota umana ci aveva già mostrato, ma che qui sono così ravvicinati da costituirne pressoché uno solo sotto un lungo corno villoso. Tosto questo ritorna al suo primo stato di cranio, la statua ritrova le sue millenarie convulsioni, e l'uomo, ancora agghiacciato dagli abbracci del marmo, fugge, senza neppure pensare a tornare ruota, verso le smerlettature di un boschetto intravisto sulla sinistra di un caos di false rupi simulanti una grotta di montagna.
L'assurda emozione che l'aveva invaso - e per così poca cosa come il rumore d'un pesce - è scomparsa, ma è un rifugio poco amabile, durante la notte, quando si è nudi, una macchia di pruni e di agrifoglio. Ora si tratta di uscirne. Un viale serpentino, ove corre il nostro uomo a lunghi passi sferzati dai rami, lo conduce davanti a una povera parvenza di piramide, nerastra, tristemente vigilata da due sfingi, che, senza saperne il motivo, i custodi del parco chiamano sempre la tomba etrusca, anche se lo stile è piuttosto egiziano. Sotto la porta, che tuttavia sembra un'ingannevole prospettiva in pieno giorno, brilla un raggio di luce - fessura così sottile che vi passerebbe una cimice e forse un lombrico, ma certo non uno scarafaggio.
L'uomo nudo si corica sulla sabbia del viale. Nessuno si stupirà di vederlo appiattirsi in modo da risultare in breve come una larga pelle tesa sul suolo, ma viva, e attraverso la quale si possono distinguere il cuore, il fegato, i polmoni e tutti gli organi ancora funzionanti per quanto deformata sia la loro struttura. Basterebbero quattro chiodi, conficcati in questo istante, per fissarlo sul terreno come una rana laminata sul tavolo sperimentale. L'osservatore li conficcherebbe senza scrupoli, se potesse uscire dal suo ruolo per intervenire in modo concreto. Immaginarsi la sorpresa dei ragazzi, la mattina dopo, davanti a quel giocattolo straordinario, i loro divertimenti crudeli e tutto l'inedito di cui si abbellirebbero le regole del croquet, delle biglie o del gioco del mondo, i soldatini di piombo all'assalto di rabbrividenti trincee, il fuoco dei petardi accesi nel vivo del campo di battaglia! Una mano guantata di spini non sta per emergere fuori dal boschetto, alzando in aria i chiodi e il martello? Ci si augurerebbe di vederla, e che desse bene il colpo. Ma null'altro si muove se non l'epidermide appiccicata alla sabbia, semplice macchia chiara che striscia verso la porta della tomba.
Inutile, naturalmente, ripetere con quale facilità siano superati tutti gli ostacoli. L'uomo nudo, ridotto a due dimensioni, scivola sotto la porta come farebbe una pellicola untuosa, e quando riprende l'aspetto ordinario si trova in una piccola sala a tre pareti, che ha la forma della piramide esterna. I muri obliqui danno una penosa impressione di schiacciamento per la materia di un aspro grigio di cui sono rivestiti, e che è probabilmente ardesia o piombo. Davanti all'uomo, mormora una fontana capricciosa ove, su pietruzze e conchiglie d'argento che salgono più in alto della sua testa, una moltitudine di piccoli insetti muniti di proboscide riversano migliaia di fili d'acqua cui danno color d'arcobaleno i fulgori di luce riflessi dalle loro ali frementi; l'oscurità del fondo e la mancanza di specchi aumentano lo splendore di quegli automi, come se giocassero su tende di fuliggine.
Dopo aver gustato per qualche istante il divertente spettacolo, l'uomo nudo vede aprirsi nel pavimento una porta orizzontale a guisa di trappola. Ne esce un uomo, il primo che venga a rompere la solitudine in cui è rimasto fino ad ora il nostro eroe, e piega davanti a costui il suo volto color del mattone, con la bocca leggermente sorridente, gli occhi un po' stretti verso il profilo fuggente delle tempie. L'atteggiamento del nuovo venuto testimonia un grande rispetto, ma non mostra la minima espressione di sorpresa.
"Da lungo tempo la aspettavamo, Signor Molle," dice. "Da lungo tempo parlavamo delle sue nozze col grande Gatto Mammone. Tutti, qui, si rallegreranno per un arrivo che mette in festa le nostre dimore sotterranee; è in nome di costoro che la prego di volermi seguire."
E prima lo conduce al piano inferiore, in uno stanzino lastricato di un mosaico ove frammenti di gusci d'uova si mescolano a chiodi d'oro e a turchesi fra le più splendide che mai siano uscite dalle miniere della Persia, illuminato da una lumiera pentagonale costituita da cinque carcasse di pollastri puliti in modo da lasciarli intatti fino alle più fragili cartilagini, foderate di mussolina azzurro pallido intorno alle lampadine e cinte di piume di struzzo. Lì, due persone vecchissime più aggrinzite della madre del tempo, e delle quali non si potrebbe dire esattamente se siano donne, anche se di altro non sono vestite se non della loro pelle caduca, si affrettano intorno all'uomo nudo per lavargli il corpo e profumarlo.
L'altro rimane in un angolo e di lì le guarda, il braccio appoggiato su una mensola che si potrebbe credere tagliata da uno scultore dell'età barocca nel vivo della carne di una medusa gigantesca, poiché il mobile panciuto, di un azzurro traslucido, trema al minimo tocco come una massa di gelatina.
"Conosce," ripiglia, "la storia di quel mercante arabo che fu lo sposo di una fanciulla della reggia? Aveva osato accarezzare la moglie dopo il pranzo di nozze, senza essere prima passato attraverso tutte le abluzioni rituali. Per punirlo, lei gli fece immediatamente mozzare a colpi di rasoio i quattro pollici dei piedi e delle mani, e in seguito a ciò egli fu per lunghi anni il più ardente e rispettoso dei mariti. Non creda che noi siamo caduti così in basso nell'imitazione delle Mille e una notte, ma qualche misura di pulizia non le sarà inutile dopo che i giochi all'aria aperta che si possono indovinare dalle tracce lasciate su di lei, e poi questi olii di valeriana, coi quali la massaggiamo, hanno un profumo che piace al nostro padrone."
L'uomo nudo non risponde, accecato com'è dai getti di lozioni, stordito dallo stridore rugginoso dei vaporizzatori, rudemente strigliato da strumenti puntuti che infuriano nelle mani delle due vecchie creature; e la guida continua, con frasi indifferenti.
"Mi chiamano il Fiorentino, e io lo lascio dire, anche se il mio paese natio è piuttosto dalle parti di Volterra. Tutti quei Concini, quei Galigai, quei Medici, quei Lulli, hanno fatto tanto che ormai vi sono soltanto fiorentini nel parco Monceau, persino fra i còrsi di place Clichy. Ma la mia storia non può avere molto interesse per lei; d'altronde credo che lei sia a buon punto."
Ciò detto, si avvicina, e discosta le due orribili vecchie che, rovesciato il loro paziente in una rete di guerra, ve lo tengono a discrezione. Gaudiose per la sua elasticità, gli avviluppano insieme le gambe e le braccia ripiegate dietro la schiena, e ne fanno una molle treccia, che tirano attraverso le maglie di bronzo della rete. Il Fiorentino le incatena allacciando loro alla nuca due forti collari irti di punte simili a quelli che si mettono agli alani tedeschi. La sua destrezza è così rapida che quelle sferragliano contro il muro prima di aver capito quello che gli succede, ma quando si vedono l'un l'altra così maltrattate, urlano, furiose, mentre egli ridà la libertà all'uomo nudo senza ascoltare le loro preghiere frammiste a maledizioni. Esse fanno un tale baccano che gli uomini non riuscirebbero a dire una parola, e decidono di uscire dalla piccola stanza attraverso una porta aperta dal Fiorentino, di fronte a quella di cui si sono serviti per entrare.
Tutti e due, allora, si inoltrano in un lungo corridoio sotterraneo che scende una china assai ripida - una scala sarebbe più comoda, e si rimpiange la mancanza di gradini. Sotto un'illuminazione irregolare proveniente da una moltitudine di quelle conchiglie dette porcellane o veneri, appese alla volta e piene di lucciole che aleggiano anche vicino alle fessure, s'innalzano a destra e a sinistra alte colonne nerastre, irte di un crine più duro del pelo dell'elefante e mosse da assai lente ondulazioni. L'uomo nudo, che ha incespicato, vuole riprendere sostegno appoggiandosi alla più vicina, ma questa gli si contrae nella mano, ed egli si stupisce di sentirla bruciante. Inerpicate su scale di vimini, belle ragazze dai quindici ai diciassette anni, brune come meticce, seminude sotto fragili vestaglie di seta color arancio porpora, accarezzano le colonne con le dita e la lingua quasi fossero fantastici strumenti musicali; e in realtà, passando, vi si sentono risonare lunghi e teneri muggiti.
"Cazzi di cervi marini", dice il Fiorentino; "bellini, non è vero? Le piccole si adoprano a farli stare diritti e rigidi, perché quelli sopportano tutto il peso della vòlta. Se cedessero anche solo un momento, che catastrofe!"
A quest'idea poco rassicurante, i due uomini si affrettano. Subito sono dabbasso, davanti a una tiepida muraglia ove non si vede alcun varco, ma due battenti nascosti si aprono sotto la mano del Fiorentino, e l'uomo nudo, spinto in avanti dal compagno, si trova in una grande sala a forma di rotonda che sembra costruita all'interno di un immenso cuscino. Nessun angolo retto; il pavimento, i muri e il soffitto, confusi dalle loro forme tondeggianti, sono egualmente rivestiti da una lanuginosa imbottitura nella quale si affonda senza trovare sostegno.
Il Fiorentino è scomparso. L'uomo nudo vacilla, barcolla da ogni parte, e non si capisce quali molle invisibili lo facciano comunque muovere per spingerlo alla fine fra le zampe del Gatto Mammone, che, nel centro della stanza, troneggia come un ammasso colossale di pelo dorato, montagna ronfante e calda la quale si chiude sull'uomo con un rumore di trappola.
Le colonne, nel corridoio, sembrano colte da furia convulsa. Ovunque crepitano rumori d'organo, gorgoglii spaventosi, e le giovani musicanti, precipitate a terra dalle loro scale rovesciate, corrono in quel disordine con stridi da pappagallo. Poi le colonne si mischiano, si avvinghiano orribilmente, e quei nodi flaccidi si accasciano su blocchi di pietra ruzzolando giù dalla china. Tutto, allora, crolla. Tutto si fa buio intorno all'uomo nudo, che ha occhi, naso, bocca pieni di pelo rosso e di odore. La sua pelle non è più che un brulichio di artigli che penetrano, accarezzando, ed egli perde coscienza, felice come se annegasse in seno a un mare di pelliccia.
(A. Pieyre de Mandiargues, Il museo nero. Bompiani, 1968)
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