lunedì 15 dicembre 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Cuori strappati

Nel mese di settembre dell'anno 1811 una corriera andò a fermarsi davanti all'ingresso di Aswarby Hall, nel cuore del Lincolnshire. Ne era unico passeggero un ragazzo, che saltò giù appena quella si fu fermata e, durante il breve intervallo di tempo che trascorse dal momento in cui ebbe suonato il campanello a quello in cui la porta d'ingresso venne aperta, si guardò in giro con la più viva curiosità. Ebbe così modo di vedere un edificio alto, quadrato, in mattoni rossi, risalente all'epoca della Regina Anna; nel classico e più puro stile 1790 v'era stato poi aggiunto un portico a colonne di pietra e le finestre, numerose, erano alte e strette, con vetri a pannelli piccoli e intelaiatura pesante e bianca. La facciata si concludeva in un frontone con finestrella rotonda. A destra e a sinistra, due ali erano collegate al corpo principale mediante due insolite gallerie a vetri e colonnati: indubbiamente, le stalle e i servizi della casa erano ospitati in queste due ali, le quali erano sormontate, a scopo ornamentale, ognuna da una cupola sulla quale oscillava una banderuola dorata.
L'ultima luce del giorno batteva sulla facciata, facendo brillare come altrettante fiamme i vetri delle finestre. Sul davanti, staccato da questa Aswarby Hall, si stendeva un semplice parco punteggiato di querce e costeggiato da abeti. L'orologio del campanile, nascosto tra gli alberi oltre il parco, e con la sola ventaruola rifulgente alla luce, stava battendo in quel momento le sei; il suono gradito dei rintocchi fu portato dal vento leggero: un effetto decisamente piacevole, ancorché velato da quella sorta di melanconia che s'addice a una sera d'inizio d'autunno e che fu puntualmente destata agli occhi e al cuore del fanciullo, fermo lì sul portico in attesa che gli venisse aperto.
La corriera lo aveva portato sin lì dal Warwickshire, dov'egli, circa sei mesi prima, era rimasto orfano e solo. Grazie alla generosa offerta dell'anziano cugino Abney, era ora venuto a vivere ad Aswarby. Offerta generosa quanto inaspettata, perché chiunque conosceva, sia pure da lontano, il cugino Abney non poteva non considerarlo una specie di austero eremita nella cui metodica vita domestica la comparsa di un fanciullo introduceva un elemento nuovo e, stando alle apparenze, illogico. La verità è che in giro ben poco si sapeva degli interessi, e del carattere, del cugino Abney. Sul suo conto, a quanto pareva, il professore di greco di Cambridge aveva dichiarato che nessuno era più esperto del signore di Aswarby in fatto di credenze religiose dei tardi pagani; e, sta di fatto, la sua biblioteca contava tutti i libri a quell'epoca reperibili sui Misteri, i poemi orfici, il culto di Mitra e i neoplatonici. Nel vestibolo, pavimentato di marmo, c'era un'ottima scultura rappresentante Mitra che ammazza un toro, dispendiosamente fatta venire dal Levante dal proprietario di Aswarby Hall, il quale ne aveva anche offerto descrizione in un suo articolo sul Gentleman's Magazine, oltre ad aver collaborato al Critical Museum con un'interessante serie di saggi sulle superstizioni dei romani del tardo Impero. In breve, il cugino Abney era generalmente considerato uno studioso dedito ai suoi libri, e il fatto che avesse sentito parlare del proprio cugino orfano, Stephen Elliott e, ancor più, che lo avesse di propria spontanea volontà invitato a dividere la sua vita lì ad Aswarby Hall, era argomento di grande sorpresa tra i suoi vicini.
Quale che fosse lo stupore di costoro, tuttavia, sta di fatto che il cugino Abney - l'alto, il sottile, l'austero - sembrò deciso ad offrire al giovane parente un'accoglienza calorosa. Nell'attimo stesso in cui la porta d'ingresso fu aperta egli schizzò fuori dal suo studio stropicciandosi le mani con aria soddisfatta.
"Come va figliolo? Come stai? Quanti anni hai?" esclamò. "Non sarai, spero, troppo stanco del viaggio per consumare la cena?"
"Grazie no, signore," rispose il giovane Elliott; "sto benissimo."
"Bene bene, ragazzo mio," continuò il cugino Abney. "Quanti anni hai, figliolo?"
Il fatto che ripetesse due volte la domanda, nei primi due minuti del loro incontro, risultava indubbiamente un po' strano.
"Compirò dodici anni il prossimo compleanno, signore," annunciò Stephen.
"E quand'è il tuo compleanno, mio caro ragazzo? L'undici settembre, eh? Bene bene... benissimo. Manca ancora un anno , o quasi, non è così? Ah, ah! Vorrò annotare tutto questo nel mio libro. Sicuro che siano dodici? Sei certo?" 
"Sicurissimo, signore."
"Bene bene! Accompagnalo nella stanza della signora Bunch, Parkes. E che gli sia servito il tè... o la cena... quel che dev'essere, insomma."
"Sì, signore," rispose il nominato Parkes; e condusse Stephen verso il quartiere della servitù.
La signora Bunch si rivelò la persona più simpatica e umana tra quelle sinora incontrate da Stephen lì ad Aswarby, e lo mise immediatamente a suo agio. In un quarto d'ora erano già grandi amici: e grandi amici rimasero. Questa signora Bunch era nata nelle vicinanze di Aswarby, qualcosa come cinquantacinque anni prima del giorno dell'arrivo di Stephen, e sino a quella data contava ormai vent'anni di permanenza lì alla Hall. Di conseguenza, se c'era qualcuno che conosceva vita e miracoli della casa e di tutto il circondario, questi era proprio la signora Bunch; la quale non era affatto portata a far misteri di ciò che sapeva.
D'altro canto, certamente non eran poche le cose riguardanti la Hall e i suoi giardini sulle quali Stephen, portato com'era all'avventura e alla curiosità, desiderava spiegazioni. "Chi ha costruito il tempietto in fondo al viale d'alloro? Chi è il vecchio raffigurato nel quadro appeso sulla scala, seduto a un tavolo e con la mano poggiata su un teschio?" Questi e altri simili interrogativi furono chiariti grazie alla notevole memoria della signora Bunch. Per alcuni, tuttavia, furono fornite spiegazioni meno soddisfacenti.
Una sera di novembre, Stephen stava seduto accanto al fuoco nella stanza della governante e rifletteva sul nuovo ambiente che lo circondava.
"Il cugino Abney è buono? Andrà in paradiso?" chiese all'improvviso, con la tipica fiducia che posseggono i ragazzi nell'abilità dei grandi a risolvere siffatti problemi, in merito ai quali si ritiene, invece, che ogni decisione spetti a ben altri tribunali.
"Buono?... Benedetto figliolo!" esclamò la signora Bunch. "In vita mia non ho conosciuto anima più gentile del padrone! Le ho mai raccontato del ragazzo che egli raccolse praticamente dalla strada, sette anni fa esatti? E della bambina, due anni dopo che ero qui?"
"No. Me ne parli, signora Bunch... Adesso, subito!"
"Bene, non credo di ricordare molto della bambina. So che un giorno il padrone tornò dalla sua passeggiata portandosi dietro questa bambina e che diede ordini alla signora Ellis, che a quel tempo era la governante, di prendersi ogni cura di lei. La povera creatura non aveva nessuno al mondo - e questo me lo confidò proprio lei - e visse qui con noi qualcosa come tre settimane. Poi, o che avesse sangue zingaro o chissà cos'altro, fatto sta che una mattina era giù fuori dal letto prima che uno solo di noi avesse aperto un solo occhio, e d'allora non una traccia, che dico?, un minimo segno della sua presenza qui m'è capitato sott'occhio. Il padrone era pieno di meraviglia, e fece asciugare tutti gli stagni; ma secondo me quella se n'era andata con quegli zingari, perché la notte che scomparve per quasi un'ora si sentì cantare intorno alla casa, e Parkes, lui, dice di aver sentito chiamare nella boscaglia durante tutto il pomeriggio. Gran Dio, era una strana bambina quella, taciturna, a suo modo, e tutto il resto, e non finiva mai di sorprendermi, tant'era ben costumata... Straordinario."
"E il ragazzo?"
"Ah, quel poveretto!" esclamò con un sospiro la signora Bunch. "Era un forestiero - Jevanny, così si chiamava - e comparve sul viale con quel suo organetto un giorno d'inverno. Il padrone lo fece entrare e gli chiese di dove veniva, quanti anni aveva, come viveva e dov'erano i suoi genitori e tutte le cose che un cuore premuroso desidera sapere. E anche con lui andò allo stesso modo. Secondo me, sono gente sregolata, tutti quanti questi forestieri, e così una bella mattina il ragazzo scomparve com'era scomparsa la ragazza. Perché e dove se ne fosse andato, e cosa facesse, furono domande che ci perseguitarono per tutto un anno, anche perché non si portò via quel suo organetto, che è ancora lì sullo scaffale."
Il resto della serata fu trascorso da Stephen ponendo varie e continue domande alla signora Bunch e tentando di cavare un motivo dall'organetto a manovella.
La notte, poi, fece un sogno strano. In fondo al corridoio, all'ultimo piano della casa, dov'era situata la sua camera da letto, v'era una vecchia camera da bagno in disuso. Era chiusa a chiave, ma il pannello superiore della porta era di vetro, e poiché la tendina di mussola era ormai andata da un pezzo, era possibile guardar dentro e vedere la vasca, bordata di piombo, allineata alla parete e rivolta verso la finestra.
La notte in questione, Stephen Elliott si trovò, come credette di trovarsi, a guardare attraverso il vetro di quella porta. Dalla finestra entrava la luce della luna e lui riuscì pertanto a distinguere una figura distesa nella vasca.
La sua descrizione di ciò che vide mi richiamava alla mente ciò che io stesso una volta osservai tra le volte famose della St. Michan's Church a Dublino, nota per la spaventevole caratteristica di salvaguardare per secoli i cadaveri dalla putrefazione: una figura indicibilmente magra e impressionante, del colore del piombo impolverato, avvolta in una specie di sudario, le labbra sottilissime tirate in un agghiacciante accenno di sorriso, le mani pressate con forza sulla regione del cuore.
Mentr'egli dunque la guardava, parve che un gemito, remoto e quasi inafferrabile, uscisse dalle labbra di quella figura; quindi le braccia cominciarono a muoversi. A tale vista, Stephen indietreggiò atterrito e si destò alla realtà: in piena luce lunare, effettivamente stava lì, a piedi nudi sulle fredde tavole del pavimento del corridoio. Con un coraggio, a me pare, non molto consueto per i fanciulli della sua età, s'avvicinò alla porta della camera da bagno per accertarsi se veramente la figura da lui vista nel sogno fosse lì dentro. Non c'era nessuno, e così se ne tornò a letto.
La mattina dopo, la signora Bunch rimase molto impressionata dal suo racconto e procurò subito di sostituire la tendina di mussola sul vetro della porta della camera da bagno. Per parte sua, il cugino Abney, al quale Stephen confidò la sua avventura a colazione, si mostrò molto interessato e annotò l'accaduto in quello ch'egli chiamava "il suo libro".
Come già varie volte egli aveva ricordato al giovane cugino, l'equinozio di primavera stava avvicinandosi, e questo era sempre stato considerato dagli antichi un periodo critico per i giovani: Stephen avrebbe fatto bene a stare attento e a chiudere la finestra della sua stanza la sera.
All'incirca a quel tempo, occorsero due episodi che impressionarono molto Stephen. Il primo s'annunciò dopo una notte da lui passata, insolitamente, in gran disagio e apprensione, ma che non gli lasciò il ricordo di nessun sogno speciale.
La sera seguente, la signora Bunch era occupata a rammendare la camicia da notte di Stephen.
"Buon Dio, signorino!" esclamò a un certo punto, quasi arrabbiata. "Come ha fatto a ridurre così la sua camicia, quasi tutta a pezzi? Guardi qui, signorino. Quanto lavoro procura a quei poveretti che devono badarle e servirla!"
Effettivamente, la camicia presentava parecchi tagli e strappi, prodotti con evidente furia selvaggia, per rammendare i quali occorrevano di certo abilità e pazienza. Erano presenti su tutto il lato destro del petto: fenditure lunghe e parallele, della lunghezza d'un palmo, di cui alcune non avevano intaccato la stoffa. Stephen poté confessare solo la sua assoluta ignoranza del fatto: la sera prima non c'erano, di questo era sicuro.
"Però," aggiunse, "sono identici ai graffi fuori della porta della mia camera da letto, signora Bunch. E certo non sono stato io a fare anche quelli."
La signora Bunch lo guardò fisso a bocca aperta, poi, afferrata una candela, uscì in fretta e furia dalla stanza e la si sentì salire le scale. Pochi minuti dopo fu giù di nuovo.
"Bene, signorino Stephen," annunciò; "per me, quei segni e quei graffi lassù son proprio un fatto strano. Troppo alti perché possa averli fatti un gatto o un cane, e ancor meno un topo: ricordano, in tutto e per tutto, le unghie di un cinese, come ce le descriveva quando eravamo ragazze nostro zio ch'era nel commercio del tè. Se fossi in lei, non direi nulla al padrone, signorino Stephen; e quando va a letto, giri la chiave nella serratura, figliolo."
"E' quello che faccio sempre, signora Bunch, appena ho finito di dire le mie preghiere."
"Oh, bene bene, figliolo: dica sempre le sue preghiere e nessuno potrà farle del male."
Dopodiché la signora Bunch si dedicò al lavoro di rammendo della camicia danneggiata, interrompendosi di quando in quando per meditare, fino all'ora di ritirarsi. Questo fu di venerdì sera, nel mese di marzo del 1812.
La sera seguente, il solito duetto tra Stephen e la signora Bunch subì un'improvvisa interruzione da parte del signor Parkes, il maggiordomo, il quale di regola preferiva badare ai propri affari nella dispensa. Al suo ingresso, non vide Stephen, non solo, ma in più era agitato e meno parco di parole del suo solito.
"Per una sera, il padrone può andare a prendersi lui il suo vino, se vuole, "esordì subito." Io, o ci vado di giorno o non ci vado affatto, signora Bunch. Non so proprio cosa possa essere: molto probabilmente i topi, o il vento entrato nella cantina. Fatto sta che non sono più giovane come prima e non ho più l'energia di un tempo."
"Via, signor Parkes, siamo alla Hall e ci si può aspettar di tutto in fatto di topi."
"Non lo nego affatto, signora Bunch. Le dirò di più, dagli operai dei cantieri ho sentito più volte raccontare di topi in grado di parlare. Prima d'ora non avevo mai dato alcun credito a simili chiacchiere; ma questa sera, se mi fossi abbassato fino al punto di appoggiare l'orecchio alla porta dell'ultimo ripostiglio lì in cantina, con tutta probabilità avrei sentito quel che stavano dicendo."
"Oh, via, signor Parkes, non ho tempo per le sue fantasticherie! I topi che parlano nella cantina, buon Dio!"
"Bene, signora Bunch, non ho alcun desiderio di stare a discutere con lei. Le dico solo, se ha voglia di spingersi fino all'ultimo ripostiglio e di poggiare l'orecchio alla porta, vedrà se dico la verità."
"Ma di che sciocchezze sta parlando, signor Parkes... e alla presenza di un bambino! Dico io, finirà per spaventare a morte il signorino Stephen."
"Come? Il signorino Stephen?" esclamò Parkes, accorgendosi di colpo della presenza del ragazzo. "Oh, ma il signorino Stephen s'è reso perfettamente conto che intendevo farle uno scherzo, sinora Bunch."
In realtà, il signorino Stephen s'era reso perfettamente conto che quello che intendeva il signor Parkes era tutt'altro che uno scherzo. E, seppure niente affatto piacevole, il racconto aveva destato il suo interesse; ma tutte le sue domande non trovarono il maggiordomo disposto a concedere un più particolareggiato resoconto delle sue esperienze nella cantina.
Siamo così arrivati al 24 marzo dell'anno 1812. Fu questo un giorno di strane esperienze per Stephen: ventoso, pieno di rumori che riempirono casa e giardino di angustiante agitazione. Fermo presso lo steccato di cinta, rivolto verso il parco, il ragazzo ebbe l'esatta impressione che un'interminabile processione di esseri invisibili gli passasse davanti portati dal vento, trascinati via irresistibilmente e senza meta, tra vani sforzi per fermarsi, per aggrapparsi a qualcosa che ponesse fine al loro andare e li riportasse in contatto col mondo reale di cui avevano fatto parte. Quello stesso giorno, dopo pranzo, il cugino Abney disse:
"Stephen, ragazzo mio, credi di poter venire da me, nel mio studio, stasera, non prima delle undici? Fino a quell'ora sarò occupato, ma desidero mostrarti qualcosa che ha a che vedere con la tua vita futura e che pertanto è importantissimo che tu conosca. Non dovrai farne parola alla signora Bunch né ad alcun altro qui in casa, perciò sarà bene che ti ritiri nella tua stanza alla solita ora."
Una nuova emozione, dunque, s'annunciava e Stephen s'aggrappò avidamente all'occasione offertagli di poter restare in piedi fino alle undici. Quella sera, nel ritirarsi, sbirciò oltre la porta della biblioteca e vide il braciere, che aveva già spesso notato in un angolo della stanza, spostato davanti al camino; sul tavolo notò un'antica coppa d'argento dorato piena di vino rosso e, accanto, dei fogli di carta riempiti di scrittura. Il cugino Abney stava spargendo dell'incenso nel braciere da una tonda scatoletta d'argento mentre Stephen passava, e non sembrò udire il suo passo.
Il vento era caduto e nella notte serena brillava la luna piena. Verso le dieci, Stephen si trovava presso la finestra aperta della sua stanza e guardava il paesaggio. Pur essendo la notte tranquilla, tuttavia i misteriosi abitatori della lontana boscaglia, illuminata dalla luna, ancora non erano stati indotti al sonno; di quando in quando strane grida, come di viandanti perduti e disperati, risuonavano da oltre lo stagno. Forse erano gridi di civetta e d'uccelli acquatici, e tuttavia non sembravano esattamente tali. Ma non stavano avvicinandosi? Ora parevano risuonare da questo lato dello stagno e pochi istanti dopo parevano levarsi di tra i cespugli. Alla fine cessarono, ma nell'attimo stesso in cui Stephen stava per decidersi a chiudere la finestra e a ritornare alla lettura del suo Robinson Crusoe, scorse due figure ferme sullo spiazzo a ghiaia che separava la Hall dal giardino: le figure d'un fanciullo e d'una fanciulla, a quel che parevano; stavano uno accanto all'altra e guardavano in su verso le finestre. Qualcosa nella sagoma della fanciulla gli ricordò inequivocabilmente la figura da lui vista in sogno nella camera da bagno. Il ragazzo, poi, gli ispirò timore ancor più profondo.
Mentre la fanciulla stava immobile. mezzo sorridente, con le mani incrociate sul cuore, il ragazzo, una sagoma sottile, con capelli neri e abiti a brandelli, levò le braccia nell'aria in un gesto di minaccia e di brama e fame inappagabili. La luna brillò su quelle mani quasi trasparenti e Stephen notò che le unghie erano minacciosamente lunghe e attraversate dalla luce. Fermo lì, con le braccia così levate, quel ragazzo rivelò una vista terrificante: sul lato sinistro del suo petto s'apriva uno squarcio nero e profondo, e nel cervello, più che negli orecchi di Stephen risuonò uno di quegli agghiaccianti gridi di fame e desolazione che durante tutta la sera aveva sentito risuonare nella boscaglia di Aswarby. Pochi attimi, e quella spaventevole coppia sgusciò via rapida e silenziosa sulla ghiaia asciutta. Ed egli non li vide più.
Impaurito oltre ogni dire, Stephen decise di prendere la candela e di scendere giù nello studio del cugino Abney, visto che ormai era anche prossima l'ora stabilita per il loro incontro. Lo studio, o biblioteca, aveva anche accesso dal vestibolo principale e Stephen, incalzato dal terrore, non impiegò molto a raggiungerlo. Ma entrare non fu altrettanto facile. La porta non era chiusa, ne era sicuro, perché la chiave era all'esterno come al solito. Bussò molte volte senza ottenere risposta. Il cugino Abney era occupato: stava parlando. Cosa? Perché urlava adesso? E perché quel grido gli si era soffocato in gola? Anche lui aveva visto i misteriosi fanciulli? Poi ci fu silenzio, ma la porta resistette ai colpi agitati e incalzanti di Stephen.

Sul tavolo nello studio del cugino Abney furono trovate alcune carte che, quando Stephen fu in età di comprenderle, riuscirono a chiarirgli gli avvenimenti. Eccone i passi più salienti:
"Era credenza molto diffusa e ben radicata tra gli antichi - del cui discernimento in materia io ho avuto prove tali da convincermi a riporre gran confidenza nelle loro asserzioni - che ponendo in esecuzione certi determinati processi, i quali agli occhi di noi moderni assumono tuttavia un certo carattere barbaro, sia possibile raggiungere una preziosa delucidazione delle facoltà spirituali dell'uomo: quella, per esempio, per cui un individuo, assimilando la personalità di un certo numero di suoi simili, riesce a guadagnare un'ascendenza completa su quelle categorie di esseri spirituali che controllano le forze naturali del nostro universo.
"Si vuole che Simon Mago fosse in grado di volare nell'aria, di divenire invisibile e di assumere a suo piacimento qualunque forma, avvalendosi dell'anima di un fanciullo che, per ricorrere a un'espressione diffamante adoperata dall'autore delle Recognitiones Clementinae, egli avrebbe 'ucciso'. Trovo inoltre confermato, con ricchezza di particolari, negli scritti di Hermes Trismegistus, che simili, e felici, risultati possono essere prodotti dall'assimilazione dei cuori di non meno di tre creature umane d'età inferiore ai ventun anni. Alla verifica della verità di tali asserzioni io ho dedicato buona parte di questi ultimi venti anni, scegliendo come corpora vilia dei miei esperimenti individui tali che potessero essere convenientemente eliminati senza provocare grave perdita alla società. Il primo passo lo effettuai con l'eliminazione di una tale Phoebe Stanley, una fanciulla di origine zingara, il 24 marzo dell'anno 1792. Il secondo con l'eliminazione di un vagabondo, un ragazzo italiano di nome Giovanni Paoli, la notte del 23 marzo dell'anno 1805. L'ultima 'vittima' - per adoperare una parola che massimamente ripugna ai miei sentimenti - sarà mio cugino, Stephen Elliott. Il suo giorno sarà questo 24 di marzo 1812.
"Per effettuare la richiesta assimilazione nella maniera migliore, occorre asportare il cuore dal soggetto vivo, ridurlo in cenere e sciogliere questa in una pinta circa di vino rosso, preferibilmente forte. Sarà bene nascondere i resti dei due primi soggetti: una camera da bagno in disuso oppure una cantina saranno adatti allo scopo. Può poi darsi che si registrino alcuni inconvenienti causati dalla parte fisica dei soggetti, che volgarmente vengono indicati col nome suggestivo di fantasmi; ma la persona di mente filosofica - alla quale unicamente si addice l'esperimento - sarà ben poco propensa ad attribuire alcuna importanza ai vani sforzi di tali esseri di trarre la loro vendetta sopra di essa. E' con la più viva soddisfazione che io guardo dinanzi a me, all'esistenza ampliata ed emancipata che l'esperimento, nel caso di riuscita, mi assicurerà, non solo ponendomi fuori della portata della (cosiddetta) giustizia umana, ma eliminando in misura notevole la prospettiva della morte stessa."
Il cugino Abney fu trovato nella sua sedia, la testa buttata all'indietro, il viso stravolto da un'espressione di rabbia e terrore e incontenibile sofferenza. Presentava sul lato sinistro un'orrenda ferita, uno squarcio che gli metteva a nudo il cuore. Le sue mani non erano macchiate di sangue e un lungo coltello che giaceva sul tavolo era perfettamente pulito; quelle ferite potevano essere state prodotte da un fiero gatto selvatico. La finestra dello studio era aperta, e la conclusione del coroner fu che il cugino Abney avesse trovato la morte per l'intervento di ignota creatura selvaggia. La lettura delle carte da me citate, tuttavia, condusse Stephen Elliott a ben diversa opinione.

(Montague Rhodes James, Cuori strappati. Bompiani, 1967)






Scusate se cito una mia lontana esperienza personale.
Da bambino, con la famiglia, passavo le lunghe vacanze estive nella nostra vecchia villa, a un chilometro e mezzo da Belluno. Era, ed è ancora, una casa piuttosto grande, di aspetto abbastanza singolare non già per pregi architettonici quanto per gli affreschi che ne coprono l'intera facciata.
Affrescata è pure la parete anteriore di un lungo e alquanto nordico edificio che chiude a nord il giardino, edificio in quei tempi disabitato e adibito esclusivamente a granaio e a cantina.
E' certo che nel vasto granaio nei primi decenni del secolo si aggirasse lo spirito di un antico fattore, tale Fontana, di cui si udivano di quando in quando i passi cadenzati e pesanti. Ma, come è regola di tali presenze, quei rumori andarono facendosi sempre più rari e fiochi. Appostamenti notturni allo scopo di controllare il fenomeno nelle estati scorse non hanno dato alcun frutto.
Ho accennato a questo spirito per dare un'idea dell'atmosfera che regnava nella vecchia casa soprattutto in certe ore. Tra l'altro, sulla mia fantasia di bambino esercitava una potente suggestione la biblioteca, in maggioranza di carattere storico, raccolta da mio nonno Augusto e ampliata con grande amore da mio padre Giulio Cesare, biblioteca che conteneva oltre tremila manoscritti riguardanti la storia del bellunese.
Un giorno, mi ricordo, il papà ci fece vedere un grande libro rilegato che doveva risalire al principio dell'Ottocento. C'erano delle grandi incisioni a doppia pagina raffiguranti insetti straordinariamente ingigantiti. Specialmente mostruosa la pulce, lunga almeno una quarantina di centimetri.
Era un libro probabilmente di notevole valore. Dopo aver lasciato che mio fratello maggiore e io lo sfogliassimo, il papà lo rimise a posto in un grande scaffale.
Chiaro che noi bambini non eravamo autorizzati a mettere le mani in quel sancta sanctorum. Ma il libro degli insetti giganti mi aveva affascinato. E una sera, approfittando che i miei genitori erano andati a fare una visita nei dintorni, salii in biblioteca, montai su una sedia e tirai giù il volume.
Pioveva, mi ricordo. La casa era silenziosa, dalle tre finestre entrava la luce grigia del crepuscolo che si andava a mano a mano affievolendo. Inginocchiato per terra, divoravo con gli occhi quegli insetti favolosi, la mosca, il grillo, gli scarabei, la zanzara, la pulce.
Stavo appunto contemplando la inverosimile pulce quando ebbi l'impressione che le sue zampe, incredibilmente pelose, si muovessero adagio adagio.
No, non poteva essere un soffio di vento che avesse fatto increspare il foglio, finestre e porte erano chiuse. Con una certa circospezione passai una mano sulla pagina, guardando più da vicino. Tutto era regolare. Chissà che cosa mi era passato per la testa.
Ma uno strano orgasmo mi aveva preso. Quel libro aveva qualcosa di inquietante. Il mio impulso era di piantar lì tutto e correre da basso dove probabilmente la luce a gas era già stata accesa. Prima, però, bisognava rimettere a posto il volume, guai se il papà si fosse accorto che io l'avevo manomesso. Ma, proprio mentre facevo l'atto di richiuderlo, l'orribile insetto - ormai incerta sagoma nella crescente penombra - ebbe uno scatto come se si sforzasse di uscire dalla pagina.
La cosa più tremenda fu questa: nel chiudere affannosamente il pesante album con tutte le mie forze, dall'interno venne un atroce scricchiolio, lo schifoso rumore che fanno gli scarafaggi quando li si schiaccia, però cento volte più forte.
Balzai in piedi urlando e, in preda a una paura indicibile, corsi fuori dalla biblioteca, cercando al buio l'andito delle scale.
La Tata, fedele governante, mi vide piombare in cucina stravolto. Cercai di spiegare ciò che mi era successo ma naturalmente si credette in una specie di allucinazione (non era raro che di notte mi svegliassi urlando in balia di incubi spaventosi).
Supplicai ad ogni modo la Tata di salire in biblioteca e di rimettere a posto il volume: io certo non ne avevo più il coraggio. In quel mentre i miei genitori rincasavano.
Mi nascosi per evitare domande imbarazzanti. E mi aspettavo un castigo. Il papà avrebbe trovato il libro sul pavimento, avrebbe chiesto, avrei dovuto confessare.
Invece niente. Il papà non chiese, e sì che dei suoi libri era gelosissimo. Tanto che mi venne la tentazione di raccontare io spontaneamente tutto.
Ma il giorno dopo splendeva il sole e, come accade nei bambini, il tremendo ricordo era già svanito.
In biblioteca tornai dopo due giorni, in un momento che non c'era nessuno. Sul pavimento, come era prevedibile, il libro degli insetti non c'era più. Ma non c'era neppure al suo posto, nel solito scaffale.
Lo aveva nascosto mio padre? Lo aveva preso qualcun altro? Dopo pochi giorni si fece ritorno in città. Era l'ottobre 1917. Caporetto, l'invasione, la biblioteca prelevata dagli austriaci e portata a Vienna, poi, dopo la vittoria, restituita in condizioni pietose. Quel librone non l'ho rivisto più.
Cinquant'anni dopo l'editore Valentino Bompiani mi telefona: "Senti. Tra poco, nella serie del Pesanervi pubblichiamo un libro che sono sicuro ti piacerà. Vuoi leggere le bozze e, se ti piace, fare tu la presentazione?"
Ed ecco, proprio il primo racconto di M.R. James , "L'albo del canonico Alberico" risvegliare con precisione l'antico ricordo. Certo, al paragone, la mia esperienza è uno scherzetto, però siamo nello stesso ordine di idee.
Di M.R. James - il quale avrebbe di sicuro passato volentieri un "week end" nella suddetta casa di Belluno - avevo letto soltanto, in qualche antologia del brivido, il racconto, stupendo, della "Mezzatinta" dove un antico delitto si riavvera, come in un film, nell'immagine di una vecchia stampa. Confesso che la lettura delle bozze è stata per me una emozionante scoperta.
Non tocca a me dire se M.R. James, il quale non è neppure ricordato dalla Enciclopedia Britannica, è un grande scrittore. Può darsi che non lo sia. Certo è uno scrittore insolito e affascinante.
I suoi racconti infatti offrono un campionario esemplare dei misteri di stile britannico. E si possono considerare dei testi classici, in quanto modelli del genere, portati in certi casi fino all'eccesso di romantiche droghe.
Il suo mondo è assai diverso dal nostro. Abbazie, vecchi archivi, archeologi, professori d'università, vescovi, querce centenarie, dimore eccessivamente vissute, diaconi, arcidiaconi, tipi bizzarri di studiosi, storiche chiese, cimiteri abbandonati.
Pacato è il discorso, che comincia spesso con minute, e apparentemente noiose, descrizioni di case, di monumenti, di paesaggi. Tutto è tranquillo, probo e rassicurante, tutte sono persone rispettabili e morigerate, le cui case hanno pareti ricoperte di rampicanti, ampi camini, intimità di "boiseries", giardini assorti, e intorno placide campagne.
Non è il mistero fosco e fumigoso di Londra. E' il mistero, più sottile e penetrante, delle contrade solitarie, dei vescovadi anglicani, dei colleges carichi di tradizioni e di polvere, di quel mondo incantevole che è una delle più care creazioni del popolo britannico. Paragonabile a M.R. James è il pittore Arthur Rackham, suo coetaneo, meraviglioso illustratore di case, montagne e boschi stregati, anche lui autentico poeta di tutto quello che non esiste, che fa paura eppure noi vorremmo esistesse.
Non si tratta, come per esempio in Poe o in Stevenson, di vicende esageratamente romanzesche, con personaggi e ambienti favolosi. Non assistiamo a scannamenti, non ci aggiriamo per sinistri trivi, losche taverne, locande di malaffare. E non si parla neppure di castelli con scellerate leggende, né di amuleti indiani, né di sortilegi orientali, né di abiette messe nere. Siamo in una Inghilterra vecchiotta, accademica, educata e per bene. L'enigma e l'incubo scaturiscono da carte ingiallite, venerande querce, veterane magioni, buie botteghe d'antiquario, una scenografia placida e carica di dignità. Eppure.
Eppure di qui scaturiscono le cose più impensabili, assurde e agghiaccianti. Sorgono da un oscuro passato le larve, riappaiono i personaggi di sepolte tragedie, vagano le oscure maledizioni di formule indecifrate.
Non tutti i lettori prediligono, si intende, questo genere letterario, c'è gente che dopo aver letto una sola di queste storie non riesce più a prendere sonno e ogni tanto balza dal letto per controllare se di là, nello studio, non sia penetrata qualche creatura delle tenebre.
Ma chi vuol bene a certe decrepite case di campagna e di solitaria provincia.
Chi ricorda con emozione i richiami che passano all'improvviso nella campagna notturna provenienti da lontananze incalcolabili e non si capisce se siano di uomo, o di bestia, o di lemure, di disperazione o di terrore.
Chi ama l'accogliente ma severo incantesimo delle biblioteche dove si trova nascosto, tra le righe di un impallidito manoscritto, la chiave di un nero segreto.
Chi ode le cento impalpabili voci di cui è fatto il silenzio dei cimiteri di campagna in abbandono, illuminati dalla luna.
Chi capisce l'atmosfera di aspettazione che si crea nel tardo giorno là dove tutto è immobile e come morto, nei boschi per esempio, sul bordo degli stagni, nelle inesplorate soffitte patriarcali, ai piedi delle rupi, nelle sagrestie dei conventi, nei musei di storia naturale.
Chi sente qualcosa dentro di sé quando un passo che non dovrebbe esserci sale i gradini di legno lentamente e non si può sapere chi sia.
Chi è attirato e spaventato insieme dai piccoli rumori della notte, il fruscio dei rami, il secco ripetuto scricchiolare dell'armadio, l'inesplicabile ritmico tic tic di là del muro, il trapestio soffice dei topi, la finestra che si apre lentamente da sola con un lungo sospiro, la campana della chiesetta distante sette chilometri, i reciproci lunghi appelli dei cani di casolare in casolare quasi stesse arrivando il demonio, il rantolo profondo della pendola che precede la suoneria delle ore, il battito del proprio cuore allarmato dall'eccessivo silenzio.
Chi riconosce le fisionomie così varie e personali dei singoli alberi, degli arbusti, dei cespugli, dei sentieri, dei macigni, dei sassi, delle nuvole, delle foglie secche, dei teschi, delle screpolature nei muri.
Questo signore, in compagnia di  M.R. James, si troverà di sicuro molto bene, dalla prima all'ultima pagina.
(Prefazione di Dino Buzzati)






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