lunedì 18 novembre 2013

La Buona Annata's Literary Supplement: Il mio Lago Maggiore

All'età di sette o otto anni avevo, nottetempo, rubato un capretto da uno dei barconi che arrivavano verso sera a Luino da Cannobio la settimana antecedente la Pasqua, carichi di quel bestiame minuto destinato ai macellai di Milano. Mantenni nascostamente il capretto in una soffitta durante un paio di mesi, poi, perché non si scoprisse il mio furto, compiuto per salvare almeno uno di quei graziosi animali come me infanti, lo regalai a una donna della Valle Veddasca, di quelle che scendevano a vendere formaggelle al mercato di Luino. Ero convinto che l'avrebbe infilato nel suo piccolo gregge, al suo paese, sui monti che sovrastano il lago. Da quei praticelli ai piedi dell'altissimo Tamaro immaginai che il capretto, ben cresciuto e ormai scampato per sempre ai macelli, potesse vedere, sulla sponda opposta e in cima alla Valle Cannobina, le chiazze erbose davanti agli ovili dov'era nato. Ma subito, pensando che anch'io, nato in riva al lago, mi ero accorto solo a cinque o sei anni di quella distesa d'acqua, capii che i capretti e tutti gli animali anche adulti non guardano lontano. Come i bambini, gli innocenti animali non guardano lontano. Come i bambini, gli innocenti animali guardano solo pochi metri d'intorno. Per guardare gli orizzonti, o il cielo, occorre intelletto umano e mente matura almeno quanto può essere in un fanciullo di sette o otto anni, l'età appunto in cui mi avvidi del lago e degli alti monti che lo chiudevano sulla sponda opposta. Il lago cominciò allora per me ad uscire dalla sua inesistenza un giorno dopo l'altro, man mano che il mio sguardo, fatto consapevole, cominciava a percorrerlo e come a rilevarlo, riva per riva, paese per paese, monte per monte.
Mio padre aveva un suo piccolo ufficio doganale sulla piazza davanti all'imbarcadero di Luino. All'arrivo e alla partenza dei battelli che andavano e venivano sulle acque italo-svizzere del Lago Maggiore, sdoganava, cioè visitava e tassava merci e passeggeri. Spesso mi teneva con sé in quell'ufficio, dalla cui finestra guardavo con lui verso il lago sorvegliando l'avvicinarsi dei battelli. Fu in quel modo che lentamente il lago prese forma in me, con le sue lontane propaggini, dietro i promontori, di Ascona e di Locarno da una parte e di Intra, Stresa e Arona dall'altra.
Tempo dopo, per andare in vacanza al paese di mia madre, sopra Lesa, cominciai a navigarlo sui grandi battelli a ruote di quei tempi. Da allora e fino ad oggi l'ho percorso e contemplato ad ogni ora del giorno e della notte. Per anni, con una grossa e rudimentale barca a vela, una specie di cassone ben calafatato dentro il quale avevo casa, poi coi battelli e ormai con un'altra barca, a vela, soccorsa ahimè da un motore. Ora non soltanto mi è noto il lago in ogni angolo, ma anche la corona di monti che lo circonda, un frastaglio di duecento chilometri per me leggibile come un rigo musicale, tra acqua e cielo.
Come ho potuto non sapere dell'esistenza del mio lago materno per tanti anni? Come potrò separarmene, se la sua immagine si sfoca ogni giorno, se i suoi colori cambiano insensibilmente, se il suo paesaggio finirà con l'apparire ai miei occhi mutato tanto da non essere più riconoscibile? E per mio avviso quel tempo non è lontano, se tutto così irreparabilmente muta nell'ambiente naturale che fino a pochi decenni or sono accoglieva gli uomini al loro apparire sulla terra.

(Piero Chiara, Il verde della tua veste e altri racconti. SE, 2008)



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