Nel bel libro Lucifer over London, pubblicato nel 2010 da Aerostella, Antonello Cresti dedica un capitolo alla Tradizione eccentrica inglese, tratteggiata come chiave di lettura per comprendere alcune tra le più interessanti produzioni artistiche di quel paese. Citiamo letteralmente: "(...) questo tratto caratteriale svolge una funzione psicosociale importante, che va a determinare tante peculiarità dell'ispirazione artistica così com'è concepita nelle isole britanniche: esso è difatti, innanzitutto, una forma di ribellione contro il concetto di autorità e le convenzioni sociali e allo stesso tempo una fiera, ma non aggressiva, rivendicazione di indipendenza. Ancora una volta, dunque, nella cultura anglosassone si nota la presenza di una valvola di sfogo costante, utile per non soggiacere alle imposizioni di qualsiasi natura, senza per questo doversi impegnare in avventure aggressive o rivoluzionarie: l'eccentricità, paradossalmente, aiuta a sostenere quell'ordine che appare una burla, lavando via le tensioni che altrimenti potrebbero creare una reale minaccia nei confronti della stabilità sociale e del governo." Tra i gruppi citati, operanti a cavallo tra Sessanta e Settanta (e oltre) un posto preminente, e non potrebbe essere diversamente, viene occupato dalla Bonzo Dog Band guidata dai due Grandi Eccentrici Vivian Stanshall e Neil Innes. La storia dei Bonzos è fin troppo nota per essere ripercorsa in questa sede, così come le loro opere sono ampiamente disponibili in ristampe economiche e ben curate. Quella che proponiamo è una raccolta uscita nel 1995 di registrazioni effettuate nel corso delle trasmissioni Top Gear e Saturday Club, magari un po' superata da pubblicazioni successive, ma estremamente divertente e utile a combattere la calura di questi giorni. Give booze a chance!
Avevo dimenticato per molto tempo la parola partenza. Come un mago si sforza di dimenticare un incantesimo fatale.
Il decollo dell'F 104 sarebbe stato perfetto. In soli due minuti sarei salito a quota diecimila metri, che i vecchi caccia Zero raggiungevano in quindici minuti, il +G avrebbe pesato sul mio corpo, i miei organi vitali sarebbero stati schiacciati verso il basso da una mano di acciaio, il sangue mi sarebbe parso pesante come sabbia d'oro. Sarebbe iniziata l'alchimia del mio corpo.
L'F 104, penetrante fallo argenteo, avrebbe squarciato il cielo ad angolo retto. Io ero insediato al suo interno, simile a uno spermatozoo. Avrei sperimentato le sensazioni di uno spermatozoo nell'istante dell'eiaculazione. Credo non ci sia dubbio che le più lontane, periferiche sensazioni dell'epoca in cui viviamo siano riferibili al G, che accompagna inevitabilmente i voli spaziali. E' indubbio che le più remote sensazioni quotidiane dell'epoca in cui viviamo sono fuse con il G. Viviamo in un periodo in cui ciò che, in ultima analisi, si chiama psiche è, nel suo nucleo finale, il G. Ogni amore, ogni odio che non sappia cogliere il G, in qualche al di là, è inefficace. Il G è una divina forza coercitiva esercitata fisicamente, è un'ebbrezza, un limite dell'intelletto situato all'estremo opposto dei limiti dell'intelletto.
L'F 104 decollò. Il suo muso si alzò. Si alzò sempre di più. Nello spazio di un pensiero trapassò le prime nuvole.
Quindicimila piedi, ventimila piedi. Le lancette dell'altimetro e del tachimetro si agitavano come topini bianchi. Mach 0.9, quasi la velocità del suono. E finalmente G giunse. ma fu un G gentile, un piacere più che una sofferenza. Il mio petto era svuotato, come se una cascata si fosse abbattuta su di esso senza lasciare più nulla. Il campo visivo era dominato dal cielo, di un colore sfumato tra l'azzurro e il grigio. Provavo l'impressione di avere addentato una fetta di cielo e di inghiottirne i frammenti. La mia mente si manteneva limpida, tutto era silenzio e immensità, e la superficie del cielo azzurro era a tratti spruzzata dallo sperma di bianche nuvole. Non essendomi addormentato, non potrei affermare che mi destai. Ma provai ugualmente una sensazione di risveglio, come se mi avessero strappato con violenza alla condizione di veglia: sentivo il mio spirito puro, come se non fosse mai stato sfiorato da nulla. Immerso nella luce abbagliante del vento anti-vento, addentai una gioia immacolata. Mostrando i denti, forse, quasi fossi stato colto da un dolore atroce.
Ero un'unica realtà con l'F 104 che in passato avevo ammirato nel cielo; la mia esistenza si era trasferita in una cosa che un tempo era apparsa, lontana, ai miei occhi. Per gli uomini della terra, alla cui specie ero appartenuto fino a pochi minuti prima, ero diventato "un essere che si allontana" in un lampo: allora, veramente, non esistevo che in un punto di un loro fugace ricordo.
Era del tutto naturale pensare che l'dea della gloria si manifestasse nei raggi del sole che si riversavano e penetravano implacabili all'interno, oltre il vetro anti-vento, in quella luce spontaneamente nuda. Gloria era senza dubbio il nome tributato a quella luce inorganica, sovrumana, a quel nudo splendore colmo di pericolosi raggi cosmici.
Trentamila piedi. Trentacinquemila piedi. Molto al di sotto di noi si stendeva un mare di nuvole bianche, senza alcuna apparente asperità o irregolarità, come un giardino di muschio candido. L'F 104, per non trasmettere onde d'urto alla terra, si diresse verso il mare aperto e, puntando verso sud, cercò di superare la velocità del suono.
Le due e quarantatré del pomeriggio. A trentacinquemila piedi, dalla velocità subsonica di mach 0.9 accelerò, con una leggera vibrazione superò la velocità del suono, giungendo a Mach 1.15, a Mach 1.2, sino a mach 1.3, a quota quarantacinquemila piedi. Sotto di noi il sole declinava nel tramonto.
Non accadde nulla.
Nella luce cristallina fluttuava solo l'argentea fusoliera, l'aereo manteneva uno stupendo equilibrio. Nuovamente si trasformò in una camera chiusa e immobile. Sembrava che l'apparecchio fosse totalmente immobile. Si era trasformato in una strana cabina metallica sospesa, immobile nel cielo.
La camera pressurizzata della terra era davvero un modello esatto di astronave. L'immobilità diventava l'esatto archetipo del movimento più rapido.
Non provai neppure un senso di soffocamento. La mia mente era a proprio agio e lavorava alacremente. la stanza chiusa e quella aperta, due interni così diametralmente opposti, potevano divenire dimora dello stesso spirito appartenente al medesimo uomo. Se nel punto estremo dell'azione e del movimento si manifestava questa immobilità, allora il vasto cielo che mi circondava, le nuvole lontane, in basso, il mare che risplendeva tra le nuvole e persino il sole al tramonto potevano ragionevolmente essere eventi e aspetti della mia vita interiore. Le mie avventure intellettuali e fisiche potevano, a una tale distanza dalla terra, stringersi la mano senza alcuna difficoltà. Era questo il punto che avevo sempre cercato.
Misterioso personaggio, Todd Dillingham. Affacciatosi sulla ribalta discografica a trent'anni suonati, Dillingham è (stato) una meteora che nel corso della sua breve carriera ha incrociato il cammino di Bevis Frond e altri importanti musicisti. Anello di congiunzione tra la scena di Canterbury e un'obliqua psichedelia autarchica degli anni Novanta, Todd esordisce con i Bizarrdavarks -completati dal fratello grafico Mick e da Nick Saloman- che pubblicano un brano nel monumentale album-manifesto Woronzoid del 1989, contenente anche una traccia attribuita a Todd Dillingham and the Borogroves. Sempre la Woronzow avrebbe dovuto pubblicare l'anno successivo l'album Art into Dust, che invece esce nel 1992 per la Voiceprint arricchito da una lunga jam che, prendendo le mosse da Interstellar Overdrive, parte alla volta di uno di quegli acidi voli bevisfrondiani che tanto amiamo. Tra la registrazione e la pubblicazione del disco, Dillingham viene coinvolto nell'esperienza The Wilde Canterbury Dream con Richard Sinclair, Jimmy Hastings e Andy Ward. Si parla quindi di Caravan, Hatfield and the North, National Health e Camel, nomi che senza dubbio non diranno molto a chi ascolta al più i Baustelle. Dopo un periodo di intense collaborazioni (Peter Giles, Yukio Yung, Chry&Themums) e pubblicazioni per Woronzow, Voiceprint e altre piccole etichette, Todd Dillingham si sfila progressivamente dalla scena, ma occasionalmente non manca di mandare qualche segnale agli Avvertiti.
Pioniera, Amelia Earhart lo fu doppiamente, come aviatrice e come donna. Ella riuscì infatti a imporsi in un ambiente maschile (e maschilista) realizzando imprese paragonabili a quelle dei colleghi uomini e dimostrando anche che la donna aveva un suo ruolo nello sviluppo dell'aviazione. Ispirata dalla passione per il volo, non arretrò davanti ad alcun pericolo. Anche per questo la sua tragica e misteriosa scomparsa toccò profondamente i suoi compatrioti negli Stati Uniti, non meno che tutto l'ambiente aeronautico internazionale.
Nata a Atchinson, nel Kansas, il 24 luglio 1898, Amelia Earhart ebbe, come tutte le fanciulle agli inizi del secolo, un'educazione classica che non la predestinava per nulla al mestiere di aviatrice. Attratta dalla medicina, nel 1917, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, partì per Toronto, dove prestò servizio come infermiera in un ospedale militare. Tornata in patria, nel 1919 iniziò studi di medicina alla Columbia University: studi che però interruppe dopo un solo anno per sopravvenuti problemi familiari. Trasferita con la madre in California, nel 1920 ebbe occasione di assistere a un raduno aviatorio. La visione delle macchine volanti la affascinò, tanto da decidere di imparare a guidarle: cosa che realizzò ben presto iscrivendosi a una scuola di volo e brevettandosi pilota.
La madre le donò allora il suo primo aereo, un Kinner Canary, sul quale Amelia si perfezionò nel pilotaggio. A ventidue anni, la Earhart aveva trovato la propria vocazione, e da allora in poi la sua vita sarebbe stata scandita da un'impresa sportiva dopo l'altra. La prima la realizzò nel 1922, quando stabilì un record femminile di quota toccando altre 4600 metri. Ma fu nel 1928 che principiò effettivamente la sua carriera.
In quell'anno, il capitano Railey, delle spedizioni Byrd, le propose, su suggerimento della ricchissima lady Frederik Guest, di diventare la prima donna che avesse mai attraversato l'Atlantico. Il progetto affascinò la Earhart, che il 17 giugno si imbarcò su un trimotore Fokker munito di galleggianti e battezzato "Friendship". Erano con lei il pilota Wilmer Stultz e il meccanico Lou Gordon. Dopo un volo di venti ore e quaranta minuti, l'aereo ammarò a Burry Port, sulla costa del Galles. Il successo dell'impresa fu ampiamente sottolineato dalla stampa e dalla radio. Amelia Earhart, festeggiata da una folla entusiasta, aveva conquistato in un giorno la celebrità; ma la giovane donna non si montò la testa. Sapeva benissimo i limiti dell'impresa che aveva compiuto e sapeva anche che, per valicarli, avrebbe dovuto provare la sua valentia come pilota, e non limitarsi, come aveva fatto in quel volo, a tenere il libro di volo. Quattro anni più tardi avrebbe trovato l'occasione giusta.
Di ritorno negli Stati Uniti, si buttò nella scrittura di un libro intitolato 20 ore e 40 minuti, venne assunta dalla rivista Cosmopolitan per tenervi una rubrica di aviazione e dalla Transcontinental Air Transport ebbe l'incarico di lanciare una campagna destinata a sensibilizzare l'opinione pubblica circa il ruolo della donna nell'aviazione. Le ambizioni di colei che l'America ormai conosceva con l'affettuosamente rispettoso soprannome di Lady Lindy (dal diminutivo di Lindbergh) non si fermarono però a questi incarichi di prestigio. Allo scopo di affrontare nuove imprese, cominciò a sottoporsi a un allenamento intensivo, i frutti del quale furono rappresentati tra l'altro da due primati femminili internazionali di velocità battuti il 25 giugno 1930 con un Lockheed Vega e, il 5 luglio successivo, da un terzo, alla media di 291,545 chilometri orari. Covava intanto l'audace progetto di trasvolare da sola l'Atlantico e, per lunghi mesi, si preparò accuratamente all'impresa. Il 20 maggio 1932, cinque anni dopo il volo il volo di Lindbergh, decollava da Harbor Grace, a Terranova, in direzione dell'Europa. Il 21 maggio, dopo aver coperto 3100 chilometri in 14 ore e 56 minuti, atterrava a Londonderry, in Irlanda con il suo Lockheed Vega. Il suo nome si iscriveva così nella storia dell'aviazione.
Benché avesse provato agli uomini le sue eccezionali qualità (e alle donne la loro capacità di emulare gli uomini in tutto), la Earhart non si sentiva ancora soddisfatta. Stimolata dal successo, il 24 agosto 1932 portò a termine la trasvolata da costa a costa degli Stati Uniti, volando senza scalo con il suo Vega da Los Angeles a Newark, nel New Jersey, e stabilendo così anche un nuovo record mondiale femminile di distanza. Un anno dopo, l'8 luglio 1933, superò il suo stesso primato, realizzando sullo stesso percorso una media di 231 chilometri orari (contro i 206 precedenti) e riducendo così le ore di volo da diciannove a diciassette. Ancora una volta, il successo le fu di stimolo per nuove imprese. Malgrado i rischi insiti in una trasvolata solitaria dell'Oceano Pacifico, la donna progettò di andare da Honolulu, nelle Hawaii, a Oakland, in California, dal momento che le autorità americane le avevano rifiutato il permesso di decollare dalle coste americane. L'11 gennaio 1935, la Earhart aggiungeva così un nuovo successo a quelli precedenti, coprendo in volo 3875 chilometri in diciotto ore e sedici minuti, alla media di 260 chilometri orari. Tre mesi dopo, il 19 aprile, partiva da sola a bordo del suo Lockheed Vega da Los Angeles, per arrivare a Città del Messico. L'8 maggio successivo, appena riposata dall'impresa, da Città del Messico volava a Newark. Unendo il coraggio all'ambizione e la fantasia all'audacia, Amelia Earhart sembrava invulnerabile dal destino. Aveva affrontato, uscendone vittoriosa, le prove più rischiose, ma gliene restava ancora una, la più impegnativa: il giro del mondo.
Un'impresa del genere esigeva una lunga preparazione e grandi mezzi. Per molti mesi, l'aviatrice si dedicò interamente alla sua realizzazione. Grazie a un dono di 50000 dollari dell'università di Purdue, nel luglio 1936 poté acquistarsi un bimotore Lockheed Electra. Tra una lezione e l'altra di aeronautica all'università La Fayette (che gliele aveva affidate), la Earhart si addestrò a volare sull'aereo che avrebbe dovuto darle la gloria. Il 18 marzo 1937, avendo come compagni Manning, Mantz e Noonan, decollò da Oakland, pronta a compiere il più eccitante dei viaggi. Il giorno dopo atterrava a Honolulu dopo un trasvolata record di 15 ore e 48 minuti, alla media di 246 chilometri orari. Il 20 marzo si apprestava a ridecollare quando l'aereo, per lo scoppio di un pneumatico, cappottava. L'impresa dovette essere interrotta e rimandata al 1° giugno successivo. Quel giorno, la Earhart partì da Miami con il navigatore Fred Noonan, sempre a bordo dell'Electra. Seguendo l'equatore, l'aereo atterrava il 29 giugno, dopo 35400 km, a Lae, in Nuova Guinea. Da lì, una trasvolata del pacifico avrebbe completato il raid. L'aereo scompariva il 3 luglio successivo nei pressi dell'sola di Howland, dove era previsto uno scalo.
Malgrado ogni ricerca, non si trovarono più tracce né del velivolo, né dei suoi occupanti.
Di fronte a questa misteriosa scompara, nacque la supposizione che Amelia Earhart e Noonan fossero stati incaricati di una missione di spionaggio aereo sulla laguna di Truk, occupata dai giapponesi, e che questi ultimi, catturati i due aviatori, li avessero fucilati. Ma di questo fatto non si è mai potuta avere alcuna prova.
(Giuseppe Dicorato e Giorgio Apostolo. I precursori e i protagonisti del volo. De Agostini, 1985)
Amelia Earhart
earheart
ear
heart
air
(Patti Smith, Amelia Earhart. I)
silk
silk
ear
amelia earhart. dupe. first lady of the skies.
she had no guy holding her down.
no one could clip her wings.
she was no bird in the hand.
she is no living thing now.
she is ageless. parachute.
they never got her. not her.
she cut out clean blue.
it was all there.
one afternoon I was polishing off still another
hand of cards. they said deal straight. crazy eight.
Il poeta Robert Desnos fu per un certo periodo uno dei più brillanti esponenti del surrealismo. In certe riunioni in casa di Breton andava in trance e si metteva a comporre frasi anagrammatiche e brani poetici, trascrivendoli mentre li pronunciava. Qualcuno dubitava dell'autenticità di tale séances, ma avrebbero avuto del miracoloso anche se preparate e memorizzate. E si concludevano a volte in modo molto inquietante, quando Robert impiegava molto tempo per risvegliarsi dallo stato di trance. In condizioni normali era un uomo imprevedibile, un momento dolce e gentile, un momento dopo violento e vendicativo, specie di fronte a qualsiasi atto d'ingiustizia e stupidità. Nelle riunioni pubbliche dava libero sfogo alla sua passione, esponendosi alle reazioni, spesso anche violente, di qualche vicino offeso. Sovente, nel mio studio, si lasciava cadere in una poltrona e sonnecchiava tranquillo per una mezz'ora, poi riapriva gli occhi e continuava la conversazione come se nulla l'avesse interrotta. Era l'immagine perfetta di una delle massime surrealiste: non esiste linea di demarcazione tra la realtà del sogno e quella della veglia.
Desnos viveva precariamente, lavorando per un giornale come critico teatrale, letterario e d'arte. Un giorno annunciò la sua partenza per le Indie occidentali, incaricato di un reportage giornalistico che l'avrebbe tenuto lontano un paio di mesi. preparammo una cena d'addio molto intima, con Kiki e un'amica di cui Robert era innamorato. Verso la fine del pasto divenne molto loquace e si mise a recitare poesie di Victor Hugo e di altri che non erano proprio tra i poeti preferiti dai surrealisti. Poi estrasse di tasca un foglio tutto sgualcito: una poesia che aveva composto proprio quel giorno. La lesse con la sua voce chiara e ben modulata, dandole una pienezza di significato che non avrebbe mai avuto a leggerla in un libro. Mi colpiva sempre molto sentir leggere dei versi dal poeta che li aveva creati. Eluard leggeva sempre le sue poesie agli amici prima della pubblicazione. A parer mio la poesia dovrebbe essere sempre trasmessa così, dalla viva voce del suo autore. Personalmente non sono mai riuscito a leggere, da solo, un libro di versi.
La poesia di Desnos era come la sceneggiatura di un film: quindici o venti versi, ciascuno con un'immagine chiara e distinta di un luogo, di un uomo, di una donna. Non c'era azione drammatica, ma tutti gli elementi per una possibile azione. S'intitolava L'étoile de mer. Una donna vende giornali a un angolo della strada. Accanto a lei, su un panchetto, la pila dei giornali, fermati da un barattolo di vetro che contiene una stella marina. Compare un uomo e prende il barattolo; la donna raccoglie la sua pila di giornali, e insieme se ne vanno. Entrano in una casa, salgono una rampa di scale e arrivano in una stanza; c'è una brandina in un angolo. Lasciando cadere i suoi giornali, la donna si spoglia davanti all'uomo e si sdraia sul lettino completamente nuda. Lui la guarda, poi si alza dalla sedia, le prende la mano, gliela bacia sussurrando adieu e se ne va portando con sé il barattolo con la stella. A casa lo osserva attentamente. Seguono immagini di un treno in corsa, un battello a vapore che approda, il muro di una prigione, un fiume che scorre sotto un ponte. Immagini della donna sdraiata su un divano, nuda, con un bicchiere di vino in mano. Delle sue mani che accarezzano il capo di un uomo posato sul suo grembo. Di lei che sale le scale con un pugnale in mano. Di lei in piedi, avvolta in un drappo e con il berretto frigio, simbolo della libertà. Della donna seduta davanti a un camino, che soffoca uno sbadiglio. Una frase continua a ricorrere: "E' bella", "E' bella"; poi altre frasi sconnesse: "Se solo i fiori fossero fatti di vetro" e "Bisogna battere i morti finché sono freddi". In un verso l'uomo raccoglie un giornale per la strada e scorre il titolo di un articolo di politica.
Il poema termina con l'uomo e la donna che s'incontrano in un vicolo. Appare un altro uomo, prende la donna per un braccio e la porta via, lasciando il primo nello smarrimento. Riappare il viso della donna, sola, davanti a uno specchio che improvvisamente si frantuma, mentre compare la parola "bella".
Forse la mia immaginazione era stata stimolata dal vino bevuto a tavola, ma la poesia m'impressionò molto, la vidi chiara come un film, un film surrealista, e dissi a Desnos che prima del suo ritorno l'avrei realizzato.
I Dando Shaft sono un gruppo minore, ma di tutto rispetto, del folk revival britannico, nato nel 1968 a Coventry in una formazione comprendente Kevin Dempsy, Dave Cooper, Ted Kay e Martin Simpson. E' proprio quest'ultimo, con il peculiare suono ipnotico del suo mandolino, a caratterizzare lo stile del gruppo, da alcuni apparentato ai Pentangle per la felice commistione di repertorio tradizionale e suggestioni di altri orizzonti musicali. An Evening with Dando Shaft esce nel 1970 per la Young Blood, lo stesso anno in cui entra nella formazione la cantante Polly Bolton. Il buon riscontro dell'album d'esordio vale ai nuovi Dando Shaft un contratto con la Neon, sottomarca progressiva della RCA, con la quale pubblicano un album omonimo nel 1971, mentre per la casa madre esce l'anno successivo Lantaloon. Lo scarso riscontro di vendite dei tre album causa lo sbandamento del gruppo che però si riforma nel 1977 grazie ai buoni auspici dell'etichetta Rubber di Newcastle-upon-Tyne. Per questa piccola label esce l'ultimo disco in studio del gruppo, Kingdom, che vede tra i numerosi ospiti anche Danny Thompson dei Pentangle. Un'ulteriore riunione del gruppo ha luogo ben dodici anni dopo per merito di un promoter italiano. Da registrazioni di questo tour (specificamente quelle del 17 marzo 1989 a Bergamo) viene ricavato il live Shadows Across The Moon, pubblicato nel 1993 dalla Happy Trails Records. Gli unici successivi capitoli discografici per il gruppo saranno le raccolte Reaping The Harvest, fuori catalogo e che qui presentiamo per la gioia delle vostre orecchie,e Anthology.
Luciano [Frascinelli] adorava gli animali. Tra essi prediligeva Menelik, una iena grassa come un maiale che si faceva accarezzare da lui. Era fiero d'esser riuscito a stabilire un rapporto con un animale odiato da tutti.
Un giorno stava appunto accarezzando Menelik, si fermò un attimo e si voltò a parlare con qualcuno, tenendo però la mano sulla schiena della bestia. Questa Menelik che per mesi e per anni s'era fatta accarezzare, trac, gli troncò di netto il pollice della mano destra. Fu un trauma per Luciano. Più della perdita del dito lo colpì il tradimento dell'animale: non si rassegnava all'idea che la iena, oltre che odiata da tutti, fosse anche stupida.
In realtà, per la sua stupidità, la iena in un circo fa solo zoo perché, oltre che stupido, è un animale pigro. Se corre lo fa soltanto per il cibo. Infatti le iene prese in libertà sono generalmente piccole, magre, puzzolenti e spelacchiate perché così le porta ad essere la loro pigrizia. Forse è l'unico animale che non soffre della cattività: nello zoo trova il pasto assicurato, le vitamine assicurate e dopo un paio d'anni che la tratti bene la vedi grassa, puzza molto meno, però continua ad essere imbecille, quindi estremamente pericolosa per essere messa in gabbia da domare.
Se un leone ti attacca e tu gli punti la forca, lui le si butta contro e si punge; lo fa una, due, tre volte, ma poi capisce che avventandosi sulla forca si punge e allora cerca di aggirare l'ostacolo. In questo caso gli arriva la frustata una prima volta, una seconda e così via, finché si rende conto che non può attaccarti e tu lo domi gradatamente con il condizionamento. La iena invece non la domi mai perché non capisce. Puoi punirla cento volte e lei cento volte ti assale e continua ad assalirti perché non realizza che così facendo prende botte mentre, se sta buona, nessuno le fa niente.
Eppure una volta mio zio Orlando con quattro o cinque iene fece un numero che ebbe molto successo: lui dentro la gabbia e loro che gli saltavano addosso. Mio zio si difendeva. Il pubblico tratteneva il respiro, inchiodato dal crac-crac dei bastoni che le iene addentavano e stritolavano. La iena è tutta testa e spalle e bocca enorme. Distrutti i bastoni, mio zio apriva lo sportello e, attraverso il tunnel, faceva rientrare le iene nelle loro gabbie, tutte, meno una. A questo punto c'era la cattura della iena, e qui era il vero pericolo: con la corda della frusta zio Orlando faceva un cappio, si avvicinava alla iena e glielo metteva intorno al collo, poi, tenendo il cappio con una mano, con l'altra prendeva l'animale per la coda e sollevandolo da terra si metteva a girare velocemente su se stesso, in modo da impedire alla iena di mordere. Tuttavia per ben due volte la bestia riuscì ad addentarlo: una volta gli distrusse un ginocchio, un'altra gli stritolò quasi una mano, tanto che dovettero mettergliela insieme a pezzettini e ancor oggi, dopo tanto tempo, riesce a muoverle pochissimo.
Valeva la pena? Sì, rispondeva mio zio, perché il pubblico si entusiasmava. E lui, con l'orgoglio della gente del circo, sapeva di farsi mangiare, ma continuava ad esibirsi.
In realtà se lo spettatore resta indifferente, l'artista non prova soddisfazione nel lavoro; se invece si esalta,
l'artista si esalta, raddoppia gli sforzi per migliorare le proprie prestazioni, per portare il pubblico al massimo entusiasmo.
Noi cerchiamo di captare quello che il pubblico vuole, di prevenirne le esigenze. Il tempo in cui il circo si reggeva sul ballo dell'orsetto è finito.
(Liana Orfei, La grande casa chiamata circo. La Sorgente, 1977)