mercoledì 22 febbraio 2017

La Buona Annata's Literary Supplement: La speranza

Nelle cripte del Tribunale Vescovile di Saragozza, al cader di una sera di tanto tempo fa, il venerabile Pedro Arbuez d'Espila, sesto priore dei domenicani di Segovia, terzo Grande Inquisitore di Spagna, - seguito da un fra redemptor (maestro torturatore) e preceduto da due famigli del Santo Uffizio, che reggevano delle lanterne - scese verso una segreta perduta. La serratura di una porta massiccia cigolò; essi penetrarono in un mefitico in pace, in cui la luce dall'alto lasciava intravedere, tra anelli infissi ai muri, un cavalletto annerito dal sangue, un fornello, una brocca. Su uno strato di letame, trattenuto dai ceppi, la gogna di ferro al collo, stava seduto, stravolto, un uomo coperto di cenci, di un'età ormai indistinta.
Questo prigioniero non era altri che rabbi Aser Abarbanel, ebreo aragognese che, imputato di usura e impietoso sdegno dei Poveri, da più di un anno era stato quotidianamente sottoposto a tortura. Tuttavia, poiché "il suo accecamento era duro quanto la sua pelle", egli si era rifiutato di abiurare.
Fiero di una filiazione plurimillenaria, orgoglioso dei suoi antichi antenati - poiché tutti gli ebrei degni di questo nome sono gelosi del loro sangue - egli discendeva, talmudicamente, da Othoniel, e, di conseguenza, da Ipsiboȅ, moglie di quest'ultimo Giudice d'Israele: circostanza che aveva contribuito a sostenere il suo coraggio nei momenti più terribili degli incessanti supplizi.
Il venerabile Pedro Arbuez d'Espila aveva dunque le lacrime agli occhi, pensando che quest'anima così ferma si privava della salvezza, quando, avvicinatosi al rabbino fremente, pronunciò le seguenti parole:
"Figlio mio, rallegratevi: ecco che le vostre prove quaggiù stanno per terminare. Se, di fronte a tanta ostinazione, ho dovuto permettere, gemendo, che si usasse grande rigore, il mio compito di correzione fraterna ha i suoi limiti. Voi siete il fico caparbio che, trovato tante volte senza frutto, incorre nell'inaridimento... ma spetta a Dio solo decidere della vostra anima. Forse l'infinita Clemenza risplenderà per voi nel supremo istante! Noi dobbiamo sperarlo! Ci sono degli esempi... Così sia! Riposate, dunque, stasera, in pace. Farete parte, domani, dell'autodafé: cioè sarete esposto al quemadero, braciere premonitore dell'eterna Fiamma; esso non brucia, voi lo sapete, che a distanza, figlio mio, e la Morte mette almeno due ore (spesso tre) a giungere, a causa delle bende bagnate e ghiacciate con le quali abbiamo cura di proteggere la fronte e il cuore degli olocausti. Sarete solamente quarantatré. Considerate che, collocato per ultimo, avrete il tempo necessario per invocare Dio, per offrirgli questo battesimo di fuoco che è dello Spirito Santo. Sperate dunque nella Luce e dormite."
Al termine di questo discorso, don Arbuez, avendo con un cenno fatto togliere le catene al disgraziato, lo abbracciò teneramente. Poi fu la volta del fra redemptor, che, sottovoce, pregò l'ebreo di perdonargli ciò che egli gli aveva fatto subire al fine di redimerlo; poi lo abbracciarono i due famigli, il cui bacio, attraverso le loro buffe, fu silenzioso. Terminata la cerimonia, il prigioniero fu lasciato solo e interdetto, nelle tenebre.
Rabbi Aser Abarbanel, con la bocca secca, il viso inebetito dalla sofferenza, fissò, dapprima senza particolare attenzione, la porta chiusa. "Chiusa?..." Questa parola, a sua stessa insaputa, risvegliava, nei suoi pensieri confusi, una fantasticheria. Perché egli aveva intravisto, per un istante, il bagliore delle lanterne nella fessura tra gli stipiti di quella porta. Una morbosa idea di speranza, dovuta allo spossamento del suo cervello, commosse il suo essere.
Egli si trascinò verso l'insolita cosa apparsa! E, piano piano, facendo passare un dito, con lunghe precauzioni, nello spiraglio, tirò la porta verso di sé. Oh stupore! per un caso straordinario, il famiglio che l'aveva richiusa aveva girato la grossa chiave un po' prima dell'urto contro gli stipiti di pietra. Di modo che, non essendo la stanghetta arrugginita entrata nel dado, la porta scivolò di nuovo nel ridotto.
Il rabbino si arrischiò a gettare uno sguardo al di fuori.
Col favore di una sorta di oscurità livida, distinse dapprima un semicerchio di muri terrosi, forati da spirali di scalini; e, dominanti, di fronte a lui, cinque o sei gradini di pietra, una specie di portico nero, da cui si accedeva a un vasto corridoio, del quale non era possibile intravedere dal basso altro che le prime arcate.
Stesosi al suolo, dunque, strisciò fino a questa soglia. Sì, era proprio un corridoio, ma di una lunghezza smisurata! Lo illuminava una luce pallida, un chiarore di sogno; alcuni lumi, sospesi alle volte, azzurravano, a intervalli, il colore smorto dell'aria; il fondo lontano non era altro che ombra. Non una porta, lateralmente, in questa distesa! Da un solo lato, alla sua sinistra, alcuni spiragli, chiusi da inferriate incrociate, nelle rientranze del muro, lasciavano passare un crepuscolo - che doveva essere quello della sera, a causa delle striature rosse che tagliavano, a lunghi intervalli, il lastricato.  E quale terribile silenzio!... Eppure, laggiù, nella profondità di quella bruma, un'uscita poteva condurre alla libertà! La vacillante speranza dell'ebreo era tenace, poiché era l'ultima. Senza esitare, dunque, egli si avventurò sul lastricato, costeggiando la parete degli spiragli, sforzandosi di confondersi con la tinta tenebrosa delle lunghe muraglie. Avanzava con lentezza, trascinandosi sul petto, e trattenendosi dal gridare quando una piaga, recentemente messa a nudo, lo straziava.
All'improvviso, il rumore di un sandalo che si avvicinava giunse fino a lui nell'eco di quel viale di pietra. Un tremito lo scosse; l'ansia lo soffocava; la vista gli si oscurò. Addio! era finita, senza dubbio! Egli si rannicchiò, bocconi, in una rientranza, e, mezzo morto, attese.
Era un famiglio che si affrettava. Passò rapidamente, con uno strappa-muscoli in pugno, la buffa abbassata, terribile, e disparve. L'emozione che aveva attanagliato il rabbino aveva come sospeso le sue funzioni vitali: egli rimase per quasi un'ora senza poter compiere un movimento. Nella paura di un supplemento di tormenti se fosse stato ripreso, gli venne l'idea di ritornare nella sua segreta. Ma la vecchia speranza gli sussurrava, nell'anima, quel divino può darsi, che rincuora nei peggiori sconforti. Si era verificato un miracolo! Non bisognava più dubitare! Egli riprese quindi a strisciare verso la possibile evasione. Estenuato dalla sofferenza e dalla fame, tremando per le angosce, egli avanzava! E quel sepolcrale corridoio sembrava allungarsi misteriosamente! E lui, senza finir di avanzare, guardava sempre l'ombra, laggiù, che doveva essere un'uscita salvatrice. 
Oh! oh! ecco che dei passi suonarono di nuovo, ma questa volta più lenti e più sordi. Le forme bianche e nere di due inquisitori, dai lunghi cappelli dai bordi rovesciati, gli apparvero, emergendo dall'aria smorta, laggiù. Essi parlavano a bassa voce e sembravano in controversia su un punto importante, poiché le loro mani si agitavano.
A questa vista, rabbi Aser Abarbanel chiuse gli occhi; il suo cuore batté a morte; i suoi cenci furono penetrati da un freddo sudore di agonia; restò stupito, immobile, steso lungo il muro, sotto il raggio di un lume, immobile, implorando il Dio di Davide.
Arrivati di fronte a lui, i due inquisitori si fermarono sotto il chiarore della lampada, per un caso senza dubbio dovuto alla loro discussione. Uno di loro, ascoltando il suo interlocutore, si trovò a guardare il rabbino! E, sotto quello sguardo di cui non comprese, all'inizio, l'espressione distratta, il disgraziato credeva di sentire le tenaglie calde mordere ancora la sua povera carne; egli sarebbe dunque ridiventato un lamento e una piaga! Sentendosi venir meno, senza poter respirare, battendo le palpebre, egli tremava, sfiorato da quella veste.
Ma, cosa insieme strana e naturale, gli occhi dell'inquisitore erano evidentemente quelli di un uomo profondamente preoccupato da quello che sta per rispondere, assorbito dall'idea di ciò che ascolta, essi erano fissi - e sembravano guardare l'ebreo senza vederlo!
In effetti, dopo che furono trascorsi alcuni minuti, i due sinistri conversatori continuarono il loro cammino, a passi lenti, e sempre discorrendo a bassa voce, verso il bivio dal quale era uscito il prigioniero; NON ERA STATO VISTO!... Tanto che, nell'orribile sconvolgimento delle sue sensazioni, la sua mente fu attraversata da questa idea: "Sarei già morto, dato che non mi vedono?" Un'impressione orrenda lo fece uscire dal suo letargo: osservando il muro, proprio contro il suo viso, credette di vedere, di fronte ai suoi, due feroci occhi che l'osservavano!... Gettò la testa all'indietro, in un'angoscia travolgente e brusca, coi capelli ritti!
... Ma no. La sua mano si era resa conto, tastando le pietre: era il riflesso degli occhi dell'inquisitore che egli aveva ancora nelle pupille, e che egli aveva rifratto su due macchie del muro.
In cammino! Bisognava affrettarsi verso quella fine che egli s'immaginava (morbosamente senza dubbio) fosse la liberazione! Verso quelle ombre dalle quali non distava più che una trentina di passi, all'incirca. Riprese dunque, più velocemente, sulle ginocchia, sulle mani, sul ventre, il suo doloroso percorso; e presto entrò nella parte buia di quel pauroso corridoio.
Ad un tratto, il disgraziato sentì freddo sopra le mani che appoggiava sul lastricato: un violento soffio d'aria scivolava sotto una porta alla quale conducevano i due muri. Ah! Dio! se questa porta si aprisse sull'esterno! Tutto l'essere del povero evaso ebbe come una vertigine di speranza! Egli l'esaminava, dall'alto in basso, senza poterla ben distinguere a causa dell'oscurità intorno a lui. Tastava: nessun chiavistello, nessuna serratura. Un lucchetto!... Si raddrizzò: il lucchetto cedette sotto il suo pollice; la silenziosa porta scivolò davanti a lui.
"ALLELUIA!..." mormorò, in un immenso sospiro di ringraziamento, il rabbino, ora in piedi sulla soglia, alla vista di ciò che gli appariva.
La porta si era aperta su dei giardini, sotto una notte di stelle! Sulla primavera, sulla libertà, sulla vita! I giardini davano sulla campagna circostante, prolungandosi verso le sierre le cui sinuose linee azzurre si profilavano all'orizzonte; là, era là la salvezza! Oh! fuggire! Avrebbe corso tutta la notte sotto quel bosco di limoni di cui gli giungeva il profumo. Una volta sulle montagne, sarebbe stato salvo! Respirava la buona, sacra aria; il vento lo rianimava, i suoi polmoni risuscitavano!
Sentiva, nel cuore dilatato, il Veni foras di Lazzaro! E per benedire ancora il Dio che gli concedeva questa misericordia, tese le braccia davanti a sé, alzando gli occhi al firmamento. Fu un'estasi.
Allora, credette di vedere l'ombra delle sue braccia ritorcersi su di lui: credette di sentire quelle braccia d'ombra circondarlo, avvinghiarlo e stringerlo teneramente contro un petto. Un'alta figura era, in effetti, accanto alla sua. Fiducioso, abbassò lo sguardo verso quella figura e restò ansimante, sconvolto, con l'occhio spento, tremebondo, gonfiando le guance e sbavando per lo spavento.
Orrore! era fra le braccia del Grande Inquisitore in persona, del venerabile Pedro Arbuez d'Espila, che lo osservava, gli occhi pieni di lacrime, e un'aria da buon pastore che ritrova la pecorella smarrita!...
Lo scuro prete si stringeva al cuore lo sventurato ebreo, con uno slancio di carità così fervida che le punte del cilicio monacale sarchiarono, sotto il saio, il petto del domenicano. E mentre rabbi Aser Abarbanel, gli occhi rovesciati sotto le palpebre, rantolava d'angoscia fra le braccia dell'ascetico don Arbuez e comprendeva confusamente che tutte le fasi della fatale serata non erano altro che un supplizio previsto, quello della Speranza! il Grande Inquisitore, con un accento di pungente rimprovero e lo sguardo costernato, gli mormorava all'orecchio, con alito ardente e alterato dai digiuni:
"Ma come, figlio mio! Alla vigilia, forse, della salvezza... volevate dunque lasciarci!"

(Villiers de l'Isle-Adam, Il convitato delle ultime feste. Mondadori, 1989)










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