giovedì 19 marzo 2015

La Buona Annata's Literary Supplement: I guai di Barba Tmin

"Gh'era ona vòlta on brav'òmn, che 'l se ciamava Tmin." Ma tutti lo chiamavano Barba ('zio'), perché era sempre onesto e gentile  con tutti, pronto a dare aiuto ogni volta che gli veniva chiesto. Aveva un solo difetto: era un po' troppo ingenuo. E per questa sua ingenuità, a rivoltargli le tasche non ne sarebbe uscito un soldo bucato. Ma Tmin era felice della stima che tutti gli dimostravano, e si accontentava. 
Un giorno un suo vicino ereditò dodici marenghi d'oro, e siccome aveva una moglie spendacciona, pensò bene di darli in custodia a Barba Tmin.
E Tmin, che non era capace di dire di no, e inoltre si sentiva onorato di quella prova di fiducia, acconsentì.
- Ci penso io, a custodire i vostri marenghi!
A quei tempi non esistevano casseforti e Tmin non trovò niente di meglio, per mettere al sicuro il gruzzolo, che infilare la borsa in una calza e nasconderla nel materasso. Per prudenza, alla moglie non disse niente.
Passò del tempo.
Un giorno il vicino, che doveva fare delle spese, tornò a riprendersi i suoi marenghi. Tmin tirò fuori la calza dal materasso e ne tolse la borsa, che dette al vicino senza neanche aprirla. Il vicino l'aprì, e contò i marenghi.
- Ehi, Barba Tmin! Sono undici invece che dodici! Avete tradito la mia fiducia... mi avete rubato un marengo! Non me lo sarei mai aspettato da voi!
Il vicino era proprio su tutte le furie. Quanto a Barba Tmin, cadeva dalle nuvole.
- Amico mio, come potrei avervi rubato il marengo, se non ho neanche aperto la borsa?
- Meno storie. Il marengo manca, e non potete averlo preso che voi. Dovete restituirmelo.
- E come, se non posseggo un soldo?
- Ora vado dal giudice, e vedremo se non me lo restituirete, con le buone o con le cattive!
E andò difilato dal giudice.
Qualche giorno dopo arrivò la citazione. Barba Tmin doveva presentarsi in tribunale, il giorno tale, ora tale.
Il poveretto era sconvolto. Possibile che un uomo come lui, conosciuto ovunque per la sua onestà, dovesse comparire davanti al giudice?
- Io il marengo non l'ho preso, non ce l'ho. Come posso restituirlo?
Non aveva più pace, né giorno, né notte, si arrovellava, smagriva a vista d'occhio.
E venne il giorno del processo. A testa bassa, tirandosi dietro il fido cagnolino, Barba Tmin si incamminò verso il paese vicino, dove aveva sede il tribunale. A metà strada si imbatté nel signorotto del villaggio, un ricco cavaliere, che andava a passeggio in carrozza insieme alla moglie. Vedendolo così abbattuto e mesto, il cavaliere fece fermare la carrozza. 
- Ehi, Barba Tmin, dove andate con quella faccia da funerale? Che vi è successo?
- Ah, signor cavaliere, sono stato citato in tribunale. Un uomo come me, stimato da tutti, che non ha mai avuto niente a che fare con la giustizia!
- E per quale ragione dovete presentarvi in tribunale, Barba Tmin?
Tmin non si fece pregare, e raccontò tutto. Il cavaliere era esterrefatto.
- Voi, prendere un marengo che non vi appartiene! Impossibile! Non ci crederò mai. Verrò a testimoniare in vostro favore davanti al giudice. 
Tmin era al settimo cielo. Cominciò a inchinarsi, a scappellarsi, ad agitarsi. E tanto si inchinò, si scappellò, si agitò che i cavalli si spaventarono, si impennarono, e finirono per rovesciare la carrozza.
La moglie del cavaliere fu sbalzata a terra e si ruppe una gamba. Il cavaliere si infuriò.
- Sciocco zoticone! Avete fatto impennare i cavalli con le vostre stupide smancerie. Adesso mia moglie ha una gamba rotta! Altro che difendervi... verrò anch'io in tribunale a reclamare i danni.
Invano il povero Barba Tmin cercò di scusarsi, di giustificarsi. Il cavaliere era inviperito, non intendeva ragioni. Allora Tmin riprese la sua strada, ancor più accasciato e disperato.
Ed ecco di lontano apparire due guardie. Tmin non sapeva più che fare.
- Me miserello, vengono a prendermi!
Da quelle parti c'era una cascina. Pensò di rifugiarsi lì. Corse nel fienile, salì la scaletta e si nascose tra il fieno. Ma tanto si agitava per nascondersi bene che non vide il foro che serviva a far cadere il fieno nella stalla. E vi si infilò a capofitto.
Nella stalla abitava un vecchio sellaio, che stava aggiustando dei finimenti. Tmin gli precipitò proprio sulla testa, e lo stese secco. Accorse il figlio del sellaio che lavorava lì vicino, e dette in escandescenze.
- Tmin, sciagurato che siete... avete ammazzato mio padre. E lo avete fatto di proposito. Altrimenti perché sareste salito nel fienile?
Tmin cercò di ammansirlo, raccontandogli le sue disavventure. Ma quello si infuriò ancora di più.
- Ah, state andando dal giudice! bene, ci verrò anch'io, e vedremo se non sarete condannato a pagare i danni per la morte di mio padre!
Tmin, sempre più disperato, riprese la via del paese, seguito dal cagnolino. Era giorno di mercato, e un droghiere aveva esposto sulla strada, insieme ad altre merci, un otre pieno d'olio da lampada. Il Cagnolino lo vide, e siccome era stanco e affamato, in un baleno se lo bevve tutto. Tmin non si era accorto di niente, ma i passanti sì, e si sganasciavano dalle risa.
Venne fuori il droghiere, urlando. Il cagnolino, spaventato, si rifugiò tra le gambe del padrone.
- E' vostro questo cane? - domandò il droghiere a Barba Tmin.
- E' mio.
- Ha bevuto un otre di olio da lampada. Dovete pagarmelo.
- E come faccio, se non ho un soldo? Povero me, ho già avuto guai abbastanza!
E per impietosirlo, gli raccontò le sue disavventure. Ma il droghiere non si impietosì affatto.
- Ah, andate dal giudice! Bene, ci vengo anch'io, e vedremo se non mi pagherete il mio olio!
Chiuse il negozio, sebbene fosse giorno di mercato, e via di corsa in tribunale. Quando vi giunse anche Tmin, tutti i suoi accusatori lo avevano già preceduto. E tutti schiumavano rabbia. Il giudice, che era una persona alla buona, si rivolse gentilmente a Tmin, che conosceva da tempo.
- E allora, Barba Tmin? Che mi dite di tutte queste accuse che vi sono piovute addosso in una sola giornata?
- Signor giudice, io non ho mai avuto a che fare con la giustizia, prima d'oggi, e vi giuro che...
- Meno chiacchiere - tagliò corto il giudice. - Avanti il primo accusatore.
- Sono io - disse il vicino.
- Che avete da dire?
- Tempo fa ho consegnato a Barba Tmin una borsa con dodici marenghi d'oro, e lui me ne ha restituiti solo undici.
Il giudice mostrò la borsa a Barba Tmin e gli chiese:
- E' vero quel che afferma il vostro vicino?
- Signor giudice, io ho ricevuto la borsa, l'ho nascosta sotto il materasso e non l'ho mai parte. Come potrei aver preso il marengo?
- Barba Tmin, potete giurare di non aver mai aperto la borsa?
- Lo giuro.
- E voi che lo accusate, potete giurare che la borsa conteneva undici marenghi?
- Lo giuro.
- Allora, se la borsa che conteneva dodici marenghi non è mai stata aperta, e se questa ne contiene undici, significa che non è la vostra. E io la sequestro.
- Ma signor giudice...
Il vicino protestò a lungo, invano.
- Questa è la sentenza, avanti un altro.
Era il turno del cavaliere.
- Barba Tmin si è tanto agitato davanti ai cavalli della mia carrozza che li ha fatti impennare; mia moglie è caduta e si è rotta una gamba. Chiedo che mi siano pagati i danni.
- Giustissimo - disse il giudice.
Poi si rivolse a Barba Tmin.
- Potete risarcire le spese che il cavaliere dovrà affrontare per far curare sua moglie?
- Signor giudice, io non ho il becco di un quattrino.
- Allora, siccome il cavaliere ha diritto a farsi pagare i danni, e Tmin non ha denaro, il cavaliere porterà sua moglie in casa di Tmin, il quale da parte sua si impegnerà a curarla finché non sarà guarita.
- Signor giudice... mia moglie, una distinta dama, in casa di Tmin! Impossibile!
- Questa è la sentenza. Avanti un altro.
Il terzo accusatore era il figlio del sellaio morto.
- Barba Tmin si è gettato giù dal fienile, è caduto sulla testa di mio padre, e lo ha ammazzato. Chiedo di essere ripagato per tanta perdita.
Il giudice, per la terza volta, chiese a Tmin:
- Avete di che pagare?
- No, signor giudice, lo sapete bene. Da quando son qui non faccio che ripetere che non posseggo un soldo.
- Allora, giovanotto, non c'è che una decisione da prendere: applicare la legge del taglione. Occhio per occhio, dente per dente. Tmin si metterà nella stalla sotto il buco del fienile, voi vi butterete giù, e lo ammazzerete.
- E se lui si tira indietro? Potrei morire io!
- Affari vostri. Questa è la sentenza. Avanti un altro.
Il quarto accusatore era il droghiere.
- Il cane di Tmin mi ha bevuto un otre di olio da lampada. Voglio esser pagato.
- Tmin, avete di che pagare l'olio?
- No.
- Droghiere, Tmin non ha denaro, avete sentito. Non vi resta che prendere il suo cane, appenderlo a una trave del soffitto, attaccargli un lucignolo alla coda e accenderlo tutte le volte che avrete bisogno di far luce, finché l'olio che vi ha bevuto non si sia tutto consumato.
Ma il droghiere non intendeva affatto tenersi in bottega un cane-lampada. E se ne andò scornato, insieme al vicino, al cavaliere e al giovanotto. Allora il giudice fece cenno a Tmin di avvicinarsi, e gli sussurrò in un orecchio:
- Cosa ne facciamo di questi marenghi? Io direi che possiamo dividerceli. Sei per me, e cinque per voi.
A Tmin il conto non tornava.
- Perché a me solo cinque?
- Il sesto chiedetelo a vostra moglie. Dalla borsa non può averlo preso che lei.
Tmin esitò un momento, poi tese la mano, prese i cinque marenghi d'oro e se ne tornò a casa tutto soddisfatto, meditando sulla giustizia e sulla sorte, e borbottando fra sé: - L'è pròpri vera quel che dis el proverbi, che chi sbragia pussee gh'ha reson.

(Storie lombarde. Fiabe e leggende di casa nostra. Fabbri editori, 1977)






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