Shakespeare, Giulio Cesare
La mezzanotte batteva alla Borsa, sotto un cielo pieno di stelle. A quell'epoca le disposizioni della legge militare pesavano ancora sugli abitanti della città e, in seguito agli ordini relativi al coprifuoco, i garzoni dei locali ancora aperti si affrettavano per la chiusura.
Sui boulevard, dentro ai caffè, a una a una le farfalle di fuoco delle lampade a gas si spegnevano rapidamente. Giungeva da fuori il frastuono delle sedie sbattute a quattro a quattro sui tavolini di marmo. Era il momento psicologico in cui ogni barista non si fa scrupolo di indicare, col braccio avvolto dal tovagliolo, le forche caudine della serranda per metà abbassata agli ultimi clienti.
Quella domenica spirava il triste vento d'ottobre. Poche foglie gialle, polverose e fruscianti, si sollevarono con le folate, urtando i sassi e strisciando sull'asfalto; poi, come pipistrelli sparivano nell'ombra, simili a giorni banali mai vissuti. I teatri del boulevard du Crime dove, durante la serata, a turno si erano pugnalati tutti i Medici, i Salviati, i Montefeltro, si ergevano come tane di Silenzio, con le porte mute custodite dalle loro cariatidi. Le carrozze e i passanti, da un istante all'altro, divenivano più rari; qua e là luccicavano, a tratti, i lampioni degli straccivendoli, fosforescenze che nascevano dai mucchi di rifiuti sui quali passeggiavano.
All'altezza di rue d'Hauteville, sotto un lampione, all'angolo di un caffè dall'aspetto molto elegante, un passante, alto, con l'aria evanescente, il mento glabro, l'andatura da sonnambulo, lunghi capelli grigi sotto un feltro Luigi XIII, reggeva con la mano guantata di nero un bastone dal pomo d'avorio. Stava fermo, avvolto in una vecchia palandrana blu regale foderata di finto astrakan, come se esitasse istintivamente a superare la strada che lo separava dal boulevard Bonne Nouvelle.
Stava tornando a casa quel passante ritardatario? Soltanto le sorti di una passeggiata notturna l'avevano condotto all'angolo di quella strada? Sarebbe stato difficile precisarlo dal suo aspetto. Accadde tuttavia che, scorgendo d'un tratto alla sua destra uno specchio diritto e lungo come la sua persona - si trattava di uno di quegli specchi che talvolta ornavano la facciata dei caffè di un certo tono - egli s'arrestò bruscamente, si piantò proprio di fronte alla propria immagine e si squadrò dalla testa ai piedi.
Poi, all'improvviso, con gesto d'altri tempi, si salutò con estrema cortesia.
Il suo viso così inaspettatamente scoperto, permise allora di riconoscere l'illustre attore tragico Esprit Chaudval, nato Lepeinteur, detto Monanteuil, discendente da un'onorata famiglia di piloti di Malò; i misteri del destino l'avevano condotto a divenire primattore in provincia, protagonista acclamato all'estero e rivale, spesso fortunato, del nostro Frédérick Lemaitre.
Mentre si scrutava con una sorta di stupore, i garzoni del caffè vicino aiutavano gli ultimi clienti a indossare il cappotto, porgendo loro il cappello; altri rovesciavano rumorosamente il contenuto della cassa e mettevano una sopra l'altra in circolo su di un piatto le monete dell'incasso della giornata.
Tanta fretta, tanta sollecitudine derivavano dalla presenza minacciosa di due guardie apparse all'improvviso, che, ferme sulla porta con le braccia conserte, tormentavano con uno sguardo gelido il padrone ritardatario.
Presto le persiane furono serrate nei loro telai di ferro; soltanto lo specchio, per una strana dimenticanza, nella confusione generale venne lasciato dov'era, fuori del locale.
Poi il boulevard tacque. Chaudval, solo, senza accorgersi che tutti erano spariti, era rimasto in quell'atteggiamento estatico all'angolo di rue d'Hauteville, sul marciapiede, di fronte allo specchio dimenticato; livido, lunare, sembrava dare all'artista la sensazione di bagnarsi in uno stagno. Chaudval rabbrividiva.
Ahimé! diciamolo: guardandosi in quel cristallo cupo e crudele, l'attore si era accorto di essere vecchio.
Constatava che i suoi capelli, soltanto il giorno prima pepe e sale, mutavano al chiaro di luna. Era fatta! Addio chiamate alla ribalta, addio corone, addio rose di Talia e allori di Melpomene! Bisognava prendere congedo per sempre con strette di mano e lacrime dagli Ellevious e dai Laruettes, dai bei costumi, dalle parole magiche, dai Dougazons e dalle fanciulle ingenue!
Bisognava scendere a testa alta dal carro di Tespi e vederlo partire portando via i compagni! Poi, vedere gli stendardi e le bandiere che al mattino sventolavano al sole sulle strade, con cui giocherellava il vento gioioso della Speranza, vederli sparire dopo la curva lontana della strada, al crepuscolo.
Chaudval, di colpo cosciente dei suoi cinquant'anni (era una persona straordinaria), sospirò. Una nebbia gli passò davanti agli occhi; un brivido gelato lo scosse; un'allucinazione gli dilatò le pupille.
La fissità perduta con cui scrutava nello specchio aveva dato ai suoi occhi la facoltà di ingrandire gli oggetti, di saturarli di solennità, cosa che i fisiologi hanno constatato negli individui colpiti da un'emozione troppo intensa.
Si deformò dunque il lungo specchio sotto i suoi occhi carichi di pensieri foschi e atoni. Ricordi d'infanzia, spiagge e flutti argentati danzavano nel suo cervello. E lo specchio stesso, certo a causa delle stelle che ne approfondivano la superficie, gli provocò dapprima la sensazione dell'acqua ferma in un golfo. Poi, dilatandosi ancora col sospirare del vecchio, lo specchio prese la forma del mare e della notte, i due vecchi amici dei cuori solitari.
Per un po' rimase a inebriarsi di questa visione, ma il riverbero che tingeva di rosso la brina dietro di lui, sulla sua testa, gli sembrò, riflesso nel fondo del terribile vetro, la luce di un faro sanguigno che indicava il cammino del naufragio al veliero perduto del suo avvenire.
Egli si scosse da quella vertigine e si tirò su, in tutta la sua altezza, con uno scoppio di riso nervoso, falso, amaro, che fece trasalire sotto gli alberi le due guardie. Fortunatamente per l'artista quelli, pensando alle stranezze di un ubriaco, o a un innamorato deluso, proseguirono nella loro ispezione senza dare la minima importanza al miserabile Chaudval.
"D'accordo, rinunciamo", egli disse semplicemente e a voce bassa come il condannato a morte, d'improvviso svegliato, dice al boia: "Sono tutto per voi, amico mio".
Il vecchio attore si calò, da quel momento, in un monologo. Era fuori di sé, prostrato, inebetito.
"Sono stato prudente", continuò, "quando l'altra sera ho incaricato la signorina Pinson, la mia cara amica (benvoluta dall'orecchio del ministro e anche dal suo guanciale), di farmi avere, fra una bruciante confessione e l'altra, quel posto di guardiano del faro che apparteneva ai miei antenati sulle coste di ponente. Eh già, capisco l'effetto bizzarro provocato da quel riverbero nello specchio. Era il mio pensiero segreto. La signorina Pinson mi farà avere l'autorizzazione, sicuro. E io mi ritirerò nel mio faro come un topo nel formaggio. Farò chiara la via ai vascelli sul mare. Un faro! Un faro assomiglia pur sempre a uno scenario. Io sono solo al mondo: è decisamente l'asilo che più si conviene alla mia vecchiaia".
Di colpo, Chaudval interruppe i suoi sogni.
"Ah, ecco!" disse tastando con la mano nella tasca sotto il mantello, "ma... la lettera che il fattorino mi ha consegnato mentre uscivo: senz'altro è la risposta. Ma come! Stavo entrando nel caffè proprio per leggerla e l'ho scordata. Davvero, invecchio. Bene, eccola!"
Chaudval aveva estratto dalla tasca una grande busta da cui scivolò, dopo che l'ebbe strappata, un plico del ministero che egli raccolse febbrilmente e scorse con una sola occhiata sotto il rosso fuoco del riverbero.
"Il mio faro! Il mio brevetto!" gridò, "Salvo, mio Dio!" aggiunse con una voce d'automa così falsa, così dura, così differente dalla sua che si guardò intorno, credendo fosse di un altro.
"Allora, stai calmo e... sii uomo!" si era subito ripreso.
Ma a questa parola, Esprit Chaudval, nato Lepeinteur, detto Monanteuil, si arrestò: sembrava una statua di sale. Quella parola pareva averlo immobilizzato.
"Dunque", continuò dopo una pausa. "che cosa mi sono augurato? Di essere un Uomo?... perché, dopotutto?"
Incrociò le braccia, riflettendo.
"Ecco: dopo mezzo secolo che io rappresento, che recito le passioni degli altri senza mai provarle, dato che, in fondo, non ho mai provato niente, io - io non sono che una copia di quegli "altri", una finzione? Non sono che un'ombra? Le passioni, i sentimenti, le azioni reali! Reali! ecco, ecco ciò di cui è fatto veramente l'Uomo! Dunque, se gli anni mi costringono a riprendere il mio posto nell'Umanità, devo procurarmi delle passioni, o qualche sentimento reale... poiché è la condizione sine qua non, senza la quale non mi è permesso di pretendere il titolo di Uomo. Ecco un ragionamento indiscutibile; trasuda buon senso. Cerchiamo quindi di capire qual è la passione più vicina alla mia natura resuscitata".
Meditò; poi riprese, con malinconia:
"L'Amore?... troppo tardi. La Gloria?... l'ho conosciuta troppo bene! L'Ambizione? Lasciamo queste futilità agli uomini di Stato!"
D'un tratto esplose in un grido:
"Ci sono", disse, "il rimorso!... ecco che cosa si accorda al mio temperamento drammatico".
Si guardò nello specchio: un volto convulso, contratto come da un orrore sovrumano.
"E' questo!" gridò ancora, "Nerone! Macbeth! Oreste! Amleto! Erostrato! Gli spettri!... Oh, sì! Tocca a me: voglio vedere dei veri spettri, come quei personaggi che avevano la fortuna di non potere fare un solo passo senza incontrarne".
Si batté la fronte.
"Ma come?... Io sono innocente come un agnello ancora non nato..."
E, dopo un attimo di silenzio:
"Ah! Se è solo questo il problema! Chi vuole il fine vuole anche i mezzi!... Ho tutto il diritto di divenire quello che dovrei essere, a qualunque prezzo. Ho diritto all'Umanità. Per provare dei rimorsi bisogna aver commesso dei crimini? Ebbene, vada per il crimine. Che cosa può fare, dal momento che sarà.. per un buon motivo? Sì... Sia!"
L'attore improvvisò un dialogo:
"Ne commetterò di atroci. Quando? Subito. Non rimandiamo a domani. Quali crimini? Uno solo!... ma grande, d'ineguagliabile atrocità, che faccia uscire per la sua natura tutte le Furie dall'inferno! E quale? Perdio, il più eclatante... Bravo! Ci sono, L'Incendio. Non mi resta che il tempo di appiccare il fuoco, raccogliere i miei bagagli, tornare, ben rannicchiato dietro al vetro di una carrozza, in mezzo alla folla terrorizzata, godere del mio trionfo, raccogliere scrupolosamente le maledizioni dei morenti, e guadagnare la stazione di Nord-Ovest con addosso rimorsi per tutto il tempo che mi rimane da vivere. Dopodiché andrò a nascondermi nel mio faro, nella luce, in pieno Oceano! Dove la polizia non potrà mai trovarmi - il mio crimine infatti è disinteressato. Laggiù, io finirò solo".
Chaudval a questo punto si raddrizzò, improvvisando questo verso di sapore assolutamente corneilliano:
Lanciò la pietra contro lo specchio che si frantumò in mille pezzetti splendenti.
Poi, scappando via in fretta, come soddisfatto dalla prima, energica azione, Chaudval si precipitò verso i boulevard dove qualche minuto dopo, a un suo cenno, si fermò una carrozza nella quale egli salì e disparve.
Due ore più tardi, il fiammeggiare di un immenso incendio che scaturiva dai grandi magazzini del petrolio, dell'olio e dei fiammiferi, si rifletteva su tutti i vetri del Faubourg du Temple. Immediatamente le squadre di pompieri accorsero da ogni parte correndo e spingendo le pompe, e le sirene con la loro lugubre voce destavano di soprassalto gli abitanti del quartiere popolare. Passi affannati rimbombavano sui marciapiedi; la folla ingombrava la grande piazza del Chateau d'Eau e le strade vicine. Rapidamente già si stavano organizzando i soccorsi. In meno di un quarto d'ora un distaccamento di truppe faceva cordone tutto intorno all'incendio. La polizia, alla luce color sangue delle torce, controllava il flusso della folla.
Le carrozze, imprigionate, non potevano più circolare. Tutti urlavano; urla lontane si distinguevano, nel crepitio terribile del fuoco. Le vittime, bloccate in quell'inferno, gridavano, e i tetti delle case si rovesciavano su di loro. Un centinaio di famiglie, quelle degli operai delle officine che bruciavano, si ritrovarono senza risorse e senza asilo.
Laggiù, una vettura solitaria, carica di due grosse valige, stazionava dietro la folla ferma al Chateau d'Eau. E, nella vettura, stava Esprit Chaudval, nato Lepeinteur, detto Mananteuil; ogni tanto sollevava la tendina e contemplava la sua opera.
"Oh!" si diceva sottovoce, "come sento l'orrore di Dio e degli uomini! Sì, ecco, l'azione di un dannato!..."
Il volto del buon vecchio attore s'era illuminato.
"Miserabile", egli rimuginava, "quali insonnie vendicatrici sto per godere insieme ai fantasmi delle mie vittime! Sento risorgere in me l'anima di Nerone, che brucia Roma in un'esaltazione d'artista! Di Erostrato, che brucia il tempio d'Efeso per amore di gloria! Di Rostopschine, che brucia Mosca per patriottismo! Di Alessandro, che brucia Persepoli in un gesto d'amore per la sua Taide immortale!... Io invece, io brucio per dovere, poiché non ho un altro modo di esistere! Io incendio perché sono debitore verso me stesso... io estinguo il mio debito! Quale Uomo sto per diventare; in che maniera mi accingo a vivere! Sto per sapere finalmente che cosa si prova quando si è tormentati. Che notti di meraviglioso orrore, deliziose, mi aspettano!... Ah, io respiro, rinasco, esisto! Se penso che sono stato un attore. Ora, poiché non sono, agli occhi grossolani degli esseri umani, che un avanzo di galera, via! con la rapidità di una folgore, via! rinchiudiamoci nel nostro faro, dove gioire in pace dei nostri rimorsi!"
Il giorno dopo, la sera, Chaudval, giunto senza inconvenienti a destinazione, prendeva possesso del vecchio faro desolato sulle nostre coste settentrionali: una luce in disuso su un edificio in rovina, rimessa in funzione per un decreto ministeriale proprio per lui.
A malapena il segnale poteva avere una qualche utilità; non era che un aggeggio secondario, superfluo, un alloggio con un fuoco sul capo di cui tutti potevano fare a meno, tranne il solo Chaudval.
Dunque, l'illustre attore, che aveva portato con sé un giaciglio, dei viveri e un grande specchio per studiare i mutamenti della sua fisionomia vi si rinchiuse, senza ripensamenti, al riparo da ogni sospetto umano.
Intorno a lui si lamentava il mare, su cui l'eterno abisso dei cieli rifletteva le sue luminosità stellari. Egli guardava i flutti assalire la sua torre sotto le raffiche del vento, come lo Stlita poteva contemplare spargersi contro la sua colonna la sabbia, sotto il vento del deserto.
Seguiva da lontano, con uno sguardo che non tradiva pensieri, il fumo dei bastimenti o le vele dei pescatori.
A ogni istante questo sognatore dimenticava l'incendio. saliva e scendeva la scala di pietra.
La sera del terzo giorno Lepeinteur, seduto nella sua stanza sessanta piedi sopra i flutti, rileggeva un giornale di Parigi di qualche giorno prima in cui era descritta la storia del grande disastro.
Un malfattore rimasto sconosciuto, aveva gettato dei fiammiferi nei depositi di petrolio. Un incendio mostruoso che aveva tenuto in piedi per tutta la notte i pompieri e la gente dei quartieri vicini, era divampato al Faubourg du Temple. Quasi cento le vittime: molte infelici famiglie erano cadute nella più nera miseria.
Tutta la piazza era in lutto, ancora fumante. S'ignorava il nome del miserabile che aveva commesso il misfatto e, soprattutto, il movente del crimine.
Dopo aver letto queste cose Chaudval balzò in piedi ebbro di gioia e, fregandosi febbrilmente le mani, gridò:
"Che successo! Che magnifico scellerato sono! Quali spettri vedrò ora! sapevo che sarei diventato un Uomo! Ah! Il mezzo è stato crudele, è vero, ma era necessario, era necessario!"
Rileggendo il giornale parigino, dov'era scritto di una serata straordinaria in favore di chi era stato colpito dall'incendio, Chaudval mormorò:
"Ecco: avrei dovuto mettere a disposizione delle mie vittime il mio talento! sarebbe stata la mia serata d'addio; avrei declamato l'Oreste; sarei stato molto naturale..."
Laggiù, Chaudval cominciò a vivere nel faro.
Cadevano le sere, seguivano una all'altra, e le notti.
Accadde qualcosa che sorprese l'artista, una cosa atroce.
Contrariamente alle sue speranze e alle sue previsioni, la coscienza non gli recava alcun rimorso. Non gli si mostrava nessuno spettro. Non provava nulla, assolutamente nulla!...
Non poteva credere al Silenzio. Non vi si adattava.
Qualche volta, guardandosi allo specchio, si accorgeva che il suo volto bonario non era per nulla cambiato. Furioso, allora si gettava sui segnali che egli falsava, nella radiosa speranza di far affondare qualche nave lontana, attivare, stimolare, quel rimorso ribelle; per eccitare gli spettri!
Pene perdute!
Tentativi sterili! Sforzi inutili! Non provava nulla; non riusciva a vedere nessun fantasma minaccioso. Non dormiva più, tanto era soffocato dal dispiacere e dalla vergogna. Così che una notte, una congestione cerebrale lo colpì nella sua luminosa solitudine; nell'agonia gridava, al rombo dell'Oceano mentre i grandi venti del largo sbattevano sulla sua torre perduta nell'infinito.
"Spettri! Per amor di Dio... Che io veda, anche solo uno spettro! Me lo sono guadagnato!"
Ma il Dio che egli invocava non gli volle concedere questo favore, e il vecchio istrione spirò, sempre declamando con inutile enfasi, il desiderio immenso di vedere gli spettri... - senza capire che era lui, lui stesso, quello che cercava.
Bisognava scendere a testa alta dal carro di Tespi e vederlo partire portando via i compagni! Poi, vedere gli stendardi e le bandiere che al mattino sventolavano al sole sulle strade, con cui giocherellava il vento gioioso della Speranza, vederli sparire dopo la curva lontana della strada, al crepuscolo.
Chaudval, di colpo cosciente dei suoi cinquant'anni (era una persona straordinaria), sospirò. Una nebbia gli passò davanti agli occhi; un brivido gelato lo scosse; un'allucinazione gli dilatò le pupille.
La fissità perduta con cui scrutava nello specchio aveva dato ai suoi occhi la facoltà di ingrandire gli oggetti, di saturarli di solennità, cosa che i fisiologi hanno constatato negli individui colpiti da un'emozione troppo intensa.
Si deformò dunque il lungo specchio sotto i suoi occhi carichi di pensieri foschi e atoni. Ricordi d'infanzia, spiagge e flutti argentati danzavano nel suo cervello. E lo specchio stesso, certo a causa delle stelle che ne approfondivano la superficie, gli provocò dapprima la sensazione dell'acqua ferma in un golfo. Poi, dilatandosi ancora col sospirare del vecchio, lo specchio prese la forma del mare e della notte, i due vecchi amici dei cuori solitari.
Per un po' rimase a inebriarsi di questa visione, ma il riverbero che tingeva di rosso la brina dietro di lui, sulla sua testa, gli sembrò, riflesso nel fondo del terribile vetro, la luce di un faro sanguigno che indicava il cammino del naufragio al veliero perduto del suo avvenire.
Egli si scosse da quella vertigine e si tirò su, in tutta la sua altezza, con uno scoppio di riso nervoso, falso, amaro, che fece trasalire sotto gli alberi le due guardie. Fortunatamente per l'artista quelli, pensando alle stranezze di un ubriaco, o a un innamorato deluso, proseguirono nella loro ispezione senza dare la minima importanza al miserabile Chaudval.
"D'accordo, rinunciamo", egli disse semplicemente e a voce bassa come il condannato a morte, d'improvviso svegliato, dice al boia: "Sono tutto per voi, amico mio".
Il vecchio attore si calò, da quel momento, in un monologo. Era fuori di sé, prostrato, inebetito.
"Sono stato prudente", continuò, "quando l'altra sera ho incaricato la signorina Pinson, la mia cara amica (benvoluta dall'orecchio del ministro e anche dal suo guanciale), di farmi avere, fra una bruciante confessione e l'altra, quel posto di guardiano del faro che apparteneva ai miei antenati sulle coste di ponente. Eh già, capisco l'effetto bizzarro provocato da quel riverbero nello specchio. Era il mio pensiero segreto. La signorina Pinson mi farà avere l'autorizzazione, sicuro. E io mi ritirerò nel mio faro come un topo nel formaggio. Farò chiara la via ai vascelli sul mare. Un faro! Un faro assomiglia pur sempre a uno scenario. Io sono solo al mondo: è decisamente l'asilo che più si conviene alla mia vecchiaia".
Di colpo, Chaudval interruppe i suoi sogni.
"Ah, ecco!" disse tastando con la mano nella tasca sotto il mantello, "ma... la lettera che il fattorino mi ha consegnato mentre uscivo: senz'altro è la risposta. Ma come! Stavo entrando nel caffè proprio per leggerla e l'ho scordata. Davvero, invecchio. Bene, eccola!"
Chaudval aveva estratto dalla tasca una grande busta da cui scivolò, dopo che l'ebbe strappata, un plico del ministero che egli raccolse febbrilmente e scorse con una sola occhiata sotto il rosso fuoco del riverbero.
"Il mio faro! Il mio brevetto!" gridò, "Salvo, mio Dio!" aggiunse con una voce d'automa così falsa, così dura, così differente dalla sua che si guardò intorno, credendo fosse di un altro.
"Allora, stai calmo e... sii uomo!" si era subito ripreso.
Ma a questa parola, Esprit Chaudval, nato Lepeinteur, detto Monanteuil, si arrestò: sembrava una statua di sale. Quella parola pareva averlo immobilizzato.
"Dunque", continuò dopo una pausa. "che cosa mi sono augurato? Di essere un Uomo?... perché, dopotutto?"
Incrociò le braccia, riflettendo.
"Ecco: dopo mezzo secolo che io rappresento, che recito le passioni degli altri senza mai provarle, dato che, in fondo, non ho mai provato niente, io - io non sono che una copia di quegli "altri", una finzione? Non sono che un'ombra? Le passioni, i sentimenti, le azioni reali! Reali! ecco, ecco ciò di cui è fatto veramente l'Uomo! Dunque, se gli anni mi costringono a riprendere il mio posto nell'Umanità, devo procurarmi delle passioni, o qualche sentimento reale... poiché è la condizione sine qua non, senza la quale non mi è permesso di pretendere il titolo di Uomo. Ecco un ragionamento indiscutibile; trasuda buon senso. Cerchiamo quindi di capire qual è la passione più vicina alla mia natura resuscitata".
Meditò; poi riprese, con malinconia:
"L'Amore?... troppo tardi. La Gloria?... l'ho conosciuta troppo bene! L'Ambizione? Lasciamo queste futilità agli uomini di Stato!"
D'un tratto esplose in un grido:
"Ci sono", disse, "il rimorso!... ecco che cosa si accorda al mio temperamento drammatico".
Si guardò nello specchio: un volto convulso, contratto come da un orrore sovrumano.
"E' questo!" gridò ancora, "Nerone! Macbeth! Oreste! Amleto! Erostrato! Gli spettri!... Oh, sì! Tocca a me: voglio vedere dei veri spettri, come quei personaggi che avevano la fortuna di non potere fare un solo passo senza incontrarne".
Si batté la fronte.
"Ma come?... Io sono innocente come un agnello ancora non nato..."
E, dopo un attimo di silenzio:
"Ah! Se è solo questo il problema! Chi vuole il fine vuole anche i mezzi!... Ho tutto il diritto di divenire quello che dovrei essere, a qualunque prezzo. Ho diritto all'Umanità. Per provare dei rimorsi bisogna aver commesso dei crimini? Ebbene, vada per il crimine. Che cosa può fare, dal momento che sarà.. per un buon motivo? Sì... Sia!"
L'attore improvvisò un dialogo:
"Ne commetterò di atroci. Quando? Subito. Non rimandiamo a domani. Quali crimini? Uno solo!... ma grande, d'ineguagliabile atrocità, che faccia uscire per la sua natura tutte le Furie dall'inferno! E quale? Perdio, il più eclatante... Bravo! Ci sono, L'Incendio. Non mi resta che il tempo di appiccare il fuoco, raccogliere i miei bagagli, tornare, ben rannicchiato dietro al vetro di una carrozza, in mezzo alla folla terrorizzata, godere del mio trionfo, raccogliere scrupolosamente le maledizioni dei morenti, e guadagnare la stazione di Nord-Ovest con addosso rimorsi per tutto il tempo che mi rimane da vivere. Dopodiché andrò a nascondermi nel mio faro, nella luce, in pieno Oceano! Dove la polizia non potrà mai trovarmi - il mio crimine infatti è disinteressato. Laggiù, io finirò solo".
Chaudval a questo punto si raddrizzò, improvvisando questo verso di sapore assolutamente corneilliano:
Garantito da ogni sospetto per immensità del crimine!
Fatto!... "E ora", concluse il grande artista raccogliendo una pietra, dopo essersi guardato intorno per sincerarsi d'essere circondato di solitudine, "e ora tu, tu non rifletterai più nulla".Lanciò la pietra contro lo specchio che si frantumò in mille pezzetti splendenti.
Poi, scappando via in fretta, come soddisfatto dalla prima, energica azione, Chaudval si precipitò verso i boulevard dove qualche minuto dopo, a un suo cenno, si fermò una carrozza nella quale egli salì e disparve.
Due ore più tardi, il fiammeggiare di un immenso incendio che scaturiva dai grandi magazzini del petrolio, dell'olio e dei fiammiferi, si rifletteva su tutti i vetri del Faubourg du Temple. Immediatamente le squadre di pompieri accorsero da ogni parte correndo e spingendo le pompe, e le sirene con la loro lugubre voce destavano di soprassalto gli abitanti del quartiere popolare. Passi affannati rimbombavano sui marciapiedi; la folla ingombrava la grande piazza del Chateau d'Eau e le strade vicine. Rapidamente già si stavano organizzando i soccorsi. In meno di un quarto d'ora un distaccamento di truppe faceva cordone tutto intorno all'incendio. La polizia, alla luce color sangue delle torce, controllava il flusso della folla.
Le carrozze, imprigionate, non potevano più circolare. Tutti urlavano; urla lontane si distinguevano, nel crepitio terribile del fuoco. Le vittime, bloccate in quell'inferno, gridavano, e i tetti delle case si rovesciavano su di loro. Un centinaio di famiglie, quelle degli operai delle officine che bruciavano, si ritrovarono senza risorse e senza asilo.
Laggiù, una vettura solitaria, carica di due grosse valige, stazionava dietro la folla ferma al Chateau d'Eau. E, nella vettura, stava Esprit Chaudval, nato Lepeinteur, detto Mananteuil; ogni tanto sollevava la tendina e contemplava la sua opera.
"Oh!" si diceva sottovoce, "come sento l'orrore di Dio e degli uomini! Sì, ecco, l'azione di un dannato!..."
Il volto del buon vecchio attore s'era illuminato.
"Miserabile", egli rimuginava, "quali insonnie vendicatrici sto per godere insieme ai fantasmi delle mie vittime! Sento risorgere in me l'anima di Nerone, che brucia Roma in un'esaltazione d'artista! Di Erostrato, che brucia il tempio d'Efeso per amore di gloria! Di Rostopschine, che brucia Mosca per patriottismo! Di Alessandro, che brucia Persepoli in un gesto d'amore per la sua Taide immortale!... Io invece, io brucio per dovere, poiché non ho un altro modo di esistere! Io incendio perché sono debitore verso me stesso... io estinguo il mio debito! Quale Uomo sto per diventare; in che maniera mi accingo a vivere! Sto per sapere finalmente che cosa si prova quando si è tormentati. Che notti di meraviglioso orrore, deliziose, mi aspettano!... Ah, io respiro, rinasco, esisto! Se penso che sono stato un attore. Ora, poiché non sono, agli occhi grossolani degli esseri umani, che un avanzo di galera, via! con la rapidità di una folgore, via! rinchiudiamoci nel nostro faro, dove gioire in pace dei nostri rimorsi!"
Il giorno dopo, la sera, Chaudval, giunto senza inconvenienti a destinazione, prendeva possesso del vecchio faro desolato sulle nostre coste settentrionali: una luce in disuso su un edificio in rovina, rimessa in funzione per un decreto ministeriale proprio per lui.
A malapena il segnale poteva avere una qualche utilità; non era che un aggeggio secondario, superfluo, un alloggio con un fuoco sul capo di cui tutti potevano fare a meno, tranne il solo Chaudval.
Dunque, l'illustre attore, che aveva portato con sé un giaciglio, dei viveri e un grande specchio per studiare i mutamenti della sua fisionomia vi si rinchiuse, senza ripensamenti, al riparo da ogni sospetto umano.
Intorno a lui si lamentava il mare, su cui l'eterno abisso dei cieli rifletteva le sue luminosità stellari. Egli guardava i flutti assalire la sua torre sotto le raffiche del vento, come lo Stlita poteva contemplare spargersi contro la sua colonna la sabbia, sotto il vento del deserto.
Seguiva da lontano, con uno sguardo che non tradiva pensieri, il fumo dei bastimenti o le vele dei pescatori.
A ogni istante questo sognatore dimenticava l'incendio. saliva e scendeva la scala di pietra.
La sera del terzo giorno Lepeinteur, seduto nella sua stanza sessanta piedi sopra i flutti, rileggeva un giornale di Parigi di qualche giorno prima in cui era descritta la storia del grande disastro.
Un malfattore rimasto sconosciuto, aveva gettato dei fiammiferi nei depositi di petrolio. Un incendio mostruoso che aveva tenuto in piedi per tutta la notte i pompieri e la gente dei quartieri vicini, era divampato al Faubourg du Temple. Quasi cento le vittime: molte infelici famiglie erano cadute nella più nera miseria.
Tutta la piazza era in lutto, ancora fumante. S'ignorava il nome del miserabile che aveva commesso il misfatto e, soprattutto, il movente del crimine.
Dopo aver letto queste cose Chaudval balzò in piedi ebbro di gioia e, fregandosi febbrilmente le mani, gridò:
"Che successo! Che magnifico scellerato sono! Quali spettri vedrò ora! sapevo che sarei diventato un Uomo! Ah! Il mezzo è stato crudele, è vero, ma era necessario, era necessario!"
Rileggendo il giornale parigino, dov'era scritto di una serata straordinaria in favore di chi era stato colpito dall'incendio, Chaudval mormorò:
"Ecco: avrei dovuto mettere a disposizione delle mie vittime il mio talento! sarebbe stata la mia serata d'addio; avrei declamato l'Oreste; sarei stato molto naturale..."
Laggiù, Chaudval cominciò a vivere nel faro.
Cadevano le sere, seguivano una all'altra, e le notti.
Accadde qualcosa che sorprese l'artista, una cosa atroce.
Contrariamente alle sue speranze e alle sue previsioni, la coscienza non gli recava alcun rimorso. Non gli si mostrava nessuno spettro. Non provava nulla, assolutamente nulla!...
Non poteva credere al Silenzio. Non vi si adattava.
Qualche volta, guardandosi allo specchio, si accorgeva che il suo volto bonario non era per nulla cambiato. Furioso, allora si gettava sui segnali che egli falsava, nella radiosa speranza di far affondare qualche nave lontana, attivare, stimolare, quel rimorso ribelle; per eccitare gli spettri!
Pene perdute!
Tentativi sterili! Sforzi inutili! Non provava nulla; non riusciva a vedere nessun fantasma minaccioso. Non dormiva più, tanto era soffocato dal dispiacere e dalla vergogna. Così che una notte, una congestione cerebrale lo colpì nella sua luminosa solitudine; nell'agonia gridava, al rombo dell'Oceano mentre i grandi venti del largo sbattevano sulla sua torre perduta nell'infinito.
"Spettri! Per amor di Dio... Che io veda, anche solo uno spettro! Me lo sono guadagnato!"
Ma il Dio che egli invocava non gli volle concedere questo favore, e il vecchio istrione spirò, sempre declamando con inutile enfasi, il desiderio immenso di vedere gli spettri... - senza capire che era lui, lui stesso, quello che cercava.
(Villiers de l'Isle-Adam, Racconti crudeli. Savelli, 1980)