martedì 5 novembre 2013

La Buona Annata's History Channel: O fermi o saltare

Sorprese e allarmi di Varese (Il Tempo di Milano, 8 agosto 1950)
A chi vi ritorni dopo una lunga assenza di dieci o quindici anni, diciamo, l'aspetto della cittadina e delle vicinanze immediate può riservare qualche sorpresa. Vi si arrivi da Milano o dal lago maggiore o dalla Svizzera, Varese presenta anzitutto all'ospite strade rombanti di autotreni, allineanti rigorose prospettive di officine. Ha una periferia densa e fragorosa che richiama al visitatore milanese gli alacri e polverosi suburbi di Bovisa o di Saronno. Il centro urbano, che intorno alla vecchia piazza Porcari recingeva il duomo di S. Vittore e il bel campanile bernasconiano di una trama di portici, contrade e vicoli dall'amabile impronta borghigiana, eisibisce oggi torreggianti palazzoni di funereo lucido granito o di cacioso travertino, secondo la più accreditata formula piacentinesca. Noi italiani, è noto, non concepiamo diversamente il progresso: non un innesto sulle forme ricevute e le consuetudini ma uno spogliarcene frettoloso e indiscriminato, quali che siano e checché valgano. O fermi o saltare, magari a occhi chiusi; odiamo - noi popolo saggio per tanta storia vissuta - la continuità, il paziente ritoccare, il modificare amoroso; siamo, come solo lo potrebbero essere i brasiliani o i sudafricani, per la tabula rasa degli usi e delle memorie, ignari o intolleranti di "retaggi". L'italiano è spesso conformista, non è mai conservatore; odia la tradizione, con un odio che, s'egli avesse altra tempra, si dovrebbe dir cinico. Nelle nostre città non si ha qualche volta l'idea quel che sia un pubblico lieu d'aisance, o la stazione ferroviaria è sprovvista di sottopassaggi o di cabine telefoniche: ma un angolo di strada ottocentesco, una facciata che non sia stramoderna, paiono nemici da toglier di mezzo col ferro e col fuoco, e non v'è segretario comunale che nel suo cassetto non covi un "piano regolatore" alla Barbarossa. Il Broletto varesino, così garbatamente intonato al modulo e al volto della città, è minacciato di distruzione totale, e in compenso i rosati intonaci del grave-sorridente Palazzo Estense, sede del municipio (e forse il più prestante edificio che rimanga del Settecento in Lombardia) cadono a pezzi, né alcuno pensa a suggerire i modesti lavori di restauro.
Il male del resto non è più grave qui che altrove, e non giova insistervi. Rammenterò invece una mia recente scoperta: nei pressi del Broletto, nella commerciale via Veratti, che a Varese è una piccola Wall-Street, nel retro di un negozio si apre una sala di generose proporzioni ed affrescata sino all'alto soffitto di buona mano secentesca, che dovunque, anche a Milano, potrebbe degnamente accogliere conferenze e concerti. Mi dicono che si è alla ricerca di una sede del genere, ma, a quanto mi consta, nessuno sa nulla dell'esistenza di quella sala, all'infuori dei clienti del calzolaio che vi tiene il proprio magazzino.
I varesini si occupano poco dei civici affari, come moderatamente parteggiano nell'agone politico nazionale. Cittadini esemplari, se il "videant consulens" è una virtù, essi possiedono anche questa in ampia misura. Gli animi, qui, sono volti alla bottega e all'officina. Il "genius loci" è la industria, particolarmente la piccola industria; l'stinto, la vocazione, quella di fabbricare. E fabbricare in gran serie (l'artigianato al modo fiorentino o veneziano qui non è diffuso); vi affacciate a un cortiletto della città vecchia e sarà caso non vi troviate pile di panettoni alla milanese o di tomaie da scarpe o di pompe da bicicletta, fabbricate in qualche stanza del piano superiore dall'insonne fatica di una brava famigliola di borghesi, che lavora ai panettoni alle tomaie o alle pompe col silenzioso furore di cospiratori; camminate in aperta campagna e in un casolare che dal di fuori vi avrà ispirato le più bucoliche immagini scoprirete, nascosto in cucina o nella stalla, un intero macchinario, funzionante dì e notte ad apprestare valigie di fibra vulcanizzata o bottoni automatici. La ricchezza di questo popolo premia meritatamente un fervore manifatturiero al quale in Italia e fuori non è facile trovar confronti. (...)

(Guido Morselli. Una rivolta e altri scritti, 1932-1966. Bietti, 2012)



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