giovedì 30 gennaio 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Il morbo di Chissachi

Non c'era molta sostanza nell'uomo dagli occhi pallidi che entrò nell'ambulatorio del dottor Cravert, e ce ne fu ancora meno quando si fu sbarazzato delle spalle imbottite, della camicia e della cravatta. La sua carnagione era giallastra, il suo aspetto malinconico, e le mani dalle nocche massicce che gli penzolavano in fondo a un paio di braccia simili a steli, tremavano.
Lamentava dolori multipli, insonnia, un ronzio all'orecchio sinistro e un tic all'occhio destro, e uno strano esantema blu gli formava come una sciarpa intorno alla vita nuda. Si chiamava Herman Kunkle, aveva trentacinque anni, e guidava un camion di prodotti caseari.
"Mmph," borbottò il dottor Cravert, in tono professionale. "Da quanto tempo ha quell'esantema?"
"Tre... quattro settimane," sospirò Kunkle. "Non è che mi pruda, o qualcosa del genere. Ma di notte provo un solletico ai piedi."
"Solletico?"
"Già, solletico, nel cuore della notte. Mi sveglio, e scoppio a ridere convulsamente."
"Sarà meglio procedere a un esame completo," commentò, lugubre, il dottor Cravert. E mantenne la promessa, nei limiti consentitigli dalla sua attrezzatura diagnostica. Cravert esercitava in un quartiere del centro, che negli ultimi vent'anni era andato continuamente decadendo. Quando i pianificatori della città avevano edificato i nuovi, splendidi palazzi, lui era ormai troppo vecchio per competere col Centro delle Arti Mediche che tanta parte aveva nei loro progetti. Un tempo, era stato ambizioso, avido di fama e di notorietà. Ora, mentre esplorava le strane alterazioni del corpo di Herman Kunkle, una traccia dell'antico entusiasmo lo afferrò. 
"Signor Kunkle," disse, battendosi col martelletto il palmo della mano, "qualunque cosa non funzioni in lei, è certamente fuori del normale. Voglio che lei faccia una serie di radiografie, prima di emettere la diagnosi definitiva.
"Non può farmi una ricetta, penicillina o qualcosa di simile?"
"Non potrò esser sicuro delle indicazioni terapeutiche finché non avrò completato la diagnosi. Potrebbe essere..." Trattenne il fiato. "Potrebbe anche essere una malattia completamente nuova, signor Kunkle."
Quando Kunkle se ne andò, insoddisfatto, con in tasca l'indirizzo di un laboratorio di radiologia, il dottor Cravert approfittò dell'intervallo fra un appuntamento e l'altro per riflettere sul problema. Ma più il tempo passò, più si convinse - pensando alla sindrome del signor Kunkle - di essere incappato in qualcosa di completamente nuovo. Passò in rivista tutte le possibilità, una a una, e le scartò. Cravert si vantava di possedere una conoscenza enciclopedica della patologia; la sua eccezionale memoria, quand'era studente, lo aveva fatto diventare il primo della classe. Poi, tristemente, aveva capito che la memoria e le capacità scolastiche non erano gli unici fattori che determinavano il successo di un medico. C'era un misterioso "quid", una sorta d'intuizione, che gli mancava, forse la personalità. Prima era rimasto deluso, poi amareggiato, e finalmente si era rassegnato alle tariffe da cinque dollari ed alla routine quotidiana. Kunkle, per esempio, era venuto da lui così, per caso. Ma che cosa mai non andava, in Kunkle? E sprofondò nuovamente nel lavoro.
Quella notte, passò quattro ore con i suoi libri di medicina, frugando alla ricerca di qualche paragrafo dimenticato. Più cercava, più la sua eccitazione cresceva. Man mano sfogliava i grossi volumi e li metteva da parte, si augurava di tutto cuore di non trovare nessuna descrizione della malattia di Kunkle. Non voleva trovarla. Voleva che Kunkle fosse qualcosa di nuovo, di originale, la sua scoperta originale.
Quando finalmente il dottore si coricò, stava già componendo nella sua mente un eruditissimo articolo sul caso.
"I sintomi del morbo di Cravert sono i seguenti..."
Kunkle ritornò due giorni più tardi, con le radiografie. Cravert lesse la relazione del radiologo, poi scrutò con la massima attenzione le negative. Non c'erano dubbi: l'analisi ai raggi X non forniva il minimo indizio sulla natura della malattia.
"Bè, dottore," chiese Kunkle. "Che cosa si vede?"
"Niente di anormale. Non c'è dubbio che lei soffra di qualcosa di raro... unico, in verità. Voglio fare molti altri esami del sangue, il metabolismo e così di seguito. Poi vedremo. E, incidentalmente - aggiunse, mentre Kunkle si sfilava lentamente la camicia - potrebbe interessarle sapere che sto per presentare una relazione sul suo caso alle riviste mediche." Ridacchiò di buon umore. "Lei diverrà famoso, signor Kunkle, il primo uomo ad essere colpito dal Morbo di Cravert."
"Ad essere colpito da che cosa?" Kunkle si accigliò.
"Dal Morbo di Cravert," spiegò il medico. "Così l'ho chiamato. Le dispiace allungare il braccio sinistro, per favore?"
"Mi sembrava che lei avesse detto di non sapere che cosa fosse."
"Non lo so, appunto, ed è per questo che ho dato un nome alla sua malattia," disse Cravert, raggiante, e prelevò un campione di sangue. Kunkle osservò apatico l'operazione, la sua bocca si storse per un attimo, rivelando una sorta di corruccio interiore.
"Non capisco," rispose. "Perché mai l'ha chiamato Morbo di Cravert?"
"Bè, il mio nome è Cravert."
"Già, ma non l'ha mica lei la malattia. L'ho io."
Cravert scoppiò a ridere, e fece schizzare il campione di sangue nella provetta. "Lo so, signor Kunkle, ma questa è la procedura normale. Una nuova malattia prende sempre il nome di chi l'ha scoperta. E io l'ho scoperta."
"Lei?" La mascella di Kunkle s'irrigidì, in atteggiamento bellicoso. "Di che cosa s'impiccia, lei? Io l'ho scoperta. Sono io ad averla. Lei deve chiamarla Morbo di Kunkle!"
"Ma non si fa. Non ha sentito parlare del Morbo di Bright? del Morbo di Hodgkin? del Morbo di Parkinson? Tutti hanno ricevuto il nome dei medici che per primi li hanno diagnosticati."
"Non me ne importa un accidente di loro!" Esclamò Kunkle, agitando le braccia sottili. Era la prima volta che mostrava un po' di vivacità. "Nessun altro modo è giusto, soltanto Morbo di Kunkle. Sono io ad averlo, e tocca a me dargli il nome!"
"Ma, signor Kunkle..."
"Lasci perdere i ma!" urlò Kunkle. "Lei non lo chiamerà Morbo di Cravert, dottore, non ne ha alcun diritto!"
"Temo che non tocchi a lei decidere..."
"No, eh?" Kunkle agguantò la camicia e cominciò a infilarsela con gesti rabbiosi.
"Che cosa pensa di fare?"
"Me ne vado!" lo rimbeccò Kunkle. "Ecco quello che farò. Mi troverò un altro dottore..."
"Non può farlo! Ha cominciato..."
"Chi ha detto che non posso scegliermi il medico che voglio? Troverò qualcuno che chiamerà la mia malattia col nome giusto."
Si allacciò la cravatta intorno al collo scarno, agitandola come una frusta. "Il Morbo di Kunkle!" urlò ancora, stringendo con le mani tremanti il nodo. "Il Morbo di Herman Kunkle! Non riuscirà ad imbrogliarmi, signor mio!"
Col fondo della camicia che gli sbatteva sopra la cintura, Kunkle uscì con andatura rigida dall'ambulatorio. Il tonfo della porta, alle sue spalle, fu abbastanza forte da far cadere la provetta dalla mano di Cravert. Urtando il pavimento, la provetta si frantumò e il dottore fissò vacuamente il sangue rosso sulle piastrelle bianche.
Si sentì fiacco e svogliato per tutto il resto della giornata. Lesse e rilesse la prima cartella dell'articolo che aveva pensato d'inviare per la pubblicazione. Il testo era provvisorio, in attesa del risultato conclusivo delle analisi; l'unica cosa sicura era il titolo: Relazione sulla scoperta del Morbo di Cravert. Ora quel titolo sembrava deriderlo.
Rabbiosamente fece a pezzi la pagina e lasciò che i frammenti svolazzassero nel cestino della carta straccia. Quel gesto definitivo gli fece male; il dolore divenne reale, e Cravert chiese sollievo a un analgesico. Quando il telefono squillò e un paziente gli chiese un appuntamento, grugnì una scusa: non era dell'umore adatto a parlare con chichessia. Per la prima volta da quando Herman Kunkle era entrato nel suo studio con l'esantema blu e con quegli strani sintomi, si rese conto di quanto importante, vitale, fosse l'opportunità che aveva fatto irruzione nella sua esistenza. La promessa di gloria dei suoi lontani giorni di studente era stata sul punto di concretarsi; il pubblico riconoscimento che lo aveva sfiorato era stato quasi a portata d'iniezione. Per lui Herman Kunkle era molto più di un paziente... per lui rappresentava l'immortalità!
Quella notte, nella fosca quiete della stanza, prese le decisioni necessarie. Telefonò a Kunkle:
"Signor Kunkle? Sono il dottor Cravert."
"Non ho niente da dirle, dottore. Ho un appuntamento col Centro delle Arti Mediche per domani."
Cravert provò un crampo allo stomaco.
"Signor Kunkle, lei sta commettendo un errore. Ho già stabilito la terapia adatta alla sua malattia, ed è un preciso dovere che lei ha nei suoi confronti quello di consentire che io l'aiuti."
"Ma non ho nessun Morbo di Cravert!"
"Le ho forse parlato di Morbo di Cravert? Dal momento che lei se l'è presa tanto a cuore, le prometto che non lo chiamerò mai più così."
"Dice sul serio?" chiese Kunkle, sospettoso.
"Sul serio. Ho sempre l'intenzione di scrivere il mio articolo, sento che è un preciso dovere verso la professione. Ma se desidera che lo chiami Morbo di Kunkle, o in qualunque altro modo, lo farò."
"Come faccio ad esserne sicuro?"
"Di che cosa?"
"Come faccio ad essere sicuro che lei manterrà la parola?"
Cravert sospirò: "Glielo metterò per iscritto. Le sottoscriverò una garanzia. Lascerò che lei, in persona, spedisca il mio articolo. Farò tutto quello che vuole. Può ritornare nel mio studio, domani?"
Vi fu una pausa.
"D'accordo, dottore. Sempre che lei mantenga la promessa."
Kunkle si fece vivo il giorno successivo, e dopo una serie completa di analisi, il dottor Cravert iniziò la cura con un'iniezione endovenosa.

"E così, signori," concluse il dottor Cravert, voltandosi lentamente per abbracciare tutto l'uditorio, "anche se noi medici preferiamo aggiungere nuove terapie all'insieme delle conoscenze mediche, piuttosto che nuove disfunzioni, il nostro dovere è chiaro. Il Morbo di Cravert fa ora parte del lessico delle malattie umane. E, sfortunatamente, per quanto rara possa essere questa affezione, noi dobbiamo descriverla come mortale. Per lo meno," aggiunse gravemente, "in questo particolare caso."

(Oltre le tenebre. Galassia n. 221. CELT, 1976)




domenica 26 gennaio 2014

Melodie e canzoni

La Mia anima aristocratica trabocca di nobile risentimento. Non si gusta abbastanza lo stato di povertà, e ciò è il sintomo dei più gravi disordini. La povertà viene da Dio e rinunciarvi significa disobbedirgli. Coloro che osano lamentarsi della loro sventura e non si peritano di alleviarla, sono dei fermenti di corruzione; tendono ad eliminare quelle disparità che assicurano l'equilibrio universale e preparano così i peggiori cataclismi. 
Non c'è più carità; si dà per orgoglio, per soddisfare la vanità e l'ambizione più spregevoli. Le dame del patriziato costituiscono un deprecabile esempio. Sarei estremamente manchevole se non le rimproverassi severamente. Col pretesto della carità, esse organizzano piaceri malsani; proprio le loro feste e i loro ricevimenti sono le fondamenta della prostituzione. Codeste dame fan posto, tra di loro, alle ragazze di strada: le ricevono, le trattano con riguardo, e ne assimilano così lo stile, l'aspetto e i costumi. La loro indegnità merita una morte ignominiosa.
Altre, poi, attentano all'armonia delle condizioni umane per guadagnarsi una reputazione mendace. C'è per esempio una certa signora Gebbart o Ghedard, meglio nota con lo pseudonimo di Sévérine, che divulga nelle pubbliche gazzette infermità degne, invece, di rispetto e di discrezione. Mi stupisco che le si consenta di elevare la voce; non sta alla donna intervenire nelle faccende pubbliche, il suo posto è accanto al focolare. Che fa mai la signora Gebbart o Ghedard lontano dallo sposo e dai figli? Si adorna dello sfavillio di un simulato amore per i poveri, dopo averli lungamente sobillati alla rivolta e all'odio, alle più funeste passioni. Per compiere opere pie, i Cristiani devono tenersi a distanza da simili intermediari; altrimenti non ne sarà tenuto alcun conto. Dio predilige per questo genere di missioni le ancelle che indossano l'abito monastico.
Devo fare delle dimostranze anche ai poveri. Costoro si permettono delle aspirazioni indecenti, e ciò è biasimevole. La loro condizione è la buona strada per la salute eterna, non se ne devono distogliere. Gesù è nato povero appunto per insegnar loro a rassegnarsi e a tacere, non per ispirargli recriminazioni inaudite. La loro sventura è un immenso favore che li onora, poiché li avvicina, miserabili peccatori quali sono, al Figlio di Dio. Che vogliono di più? Che cosa sono codesti grotteschi clamori e codeste folli rivendicazioni che si elevano dovunque, se non l'eco di un'acredine e di un odio insensati? Non sperino tuttavia di realizzare le loro temerarie aspirazioni. Se così fosse, non ci sono forse io per impedirlo, e chi mai potrebbe resistere a colui che accompagna i Destini?
Francois de Paule
Sire des Marchés de Savoie

(Erik Satie, Quaderni di un mammifero. Adelphi, 1980)




Davide Bassino - voce
Michela Marassi - pianoforte

Trois mélodies de 1886
1 - Les Anges
2 - Elégie
3 - Sylvie
Trois autres mélodie
4 - Chanson
5 - Les Fleurs
6 - Chanson Medieval
Trois poemes d'amour
7 - N° 1
8 - N° 3
9 - N° 2
Trois mélodies de 1916
10 - La Statue de Bronze
11 - Daphénéo
12 - Le Chapellier
Quatre petites mélodies
13 - Elegie
14 - Danseuse
15 - Chanson
16 - Adieu
Ludions
17 - Air du Rat
18 - Spleen
19 - La Grenouille Américaine
20 - Air du Poète
21 - Chanson du Chat
Trois mélodies sans paroles
22 - N° 1 Rambouillett
23 - N° 2 Les Oiseaux
24 - N° 3 Marienbad
25 - Tendrement
26 - Allons-y Chochotte
27 - Je Te Veux
28 - Chez Le Docteur
29 - Omnibus Automobile
30 - La Diva de "L'Empire"
31 - La Bocca di Joe Cluster




giovedì 23 gennaio 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Zucchero di cocomero

Mentre tornavo alla capanna decisi di andare giù al fiume dove stavano installando una nuova tomba per osservare le trote che si raccolgono sempre in gruppo spinte dalla curiosità quando vengono installate le tombe.
Attraversai la città. Era abbastanza tranquilla e nelle strade c'erano solo poche persone. Vidi il dottor Edwards che andava da qualche parte con la sua valigetta e gli feci cenno con la mano.
Rispose al saluto e fece un gesto per farmi capire che aveva una faccenda urgente da sbrigare. Probabilmente ci doveva essere qualche malato in città. Gli feci cenno di proseguire.
Sulla veranda dell'hotel c'era una coppia di persone anziane sedute su sedie a dondolo. Una di loro si dondolava e l'altra era assopita. Quella assopita aveva un giornale in grembo.
Dalla bottega del fornaio proveniva l'odore di pane appena cotto e davanti allo spaccio c'erano due cavalli legati. Notai che uno dei cavalli era di iDEATH.
Uscii dalla città e passai accanto ad un gruppo d'alberi che delimitavano un piccolo campo di cocomeri. Gli alberi erano coperti di muschio che pendeva dai rami.
Uno scoiattolo corse in alto fra le fronde di un albero. Gli mancava la coda. Chissà cosa gli era successo. Forse l'aveva persa da qualche parte.
Mi sedetti su un divano vicino al fiume. Accanto al divano c'era una statua d'erba. I fili erano fatti di rame e con gli anni, appesantiti dalla pioggia, erano tornati del loro colore naturale.
Quattro o cinque persone stavano installando la tomba. Era la Squadra delle Tombe. La tomba veniva installata nel letto del fiume. E' così che si seppelliscono i morti qui da noi. Chiaramente si usavano molte meno tombe quando le tigri erano nel pieno del loro vigore.
Ma ora si seppelliscono tutti in bare di vetro nel letto dei fiumi e si mette una luce fosforescente nelle tombe, in modo che di notte il bagliore ci permette di osservare quel che succede.
Vidi un gruppo di trote che si erano avvicinate per osservare l'installazione delle tombe. Erano bellissime trote iridate. Saranno state un centinaio in un piccolissimo spazio del fiume. Le trote sono curiosissime di osservare questa operazione e molte di loro si raccolgono per assistere allo spettacolo.
La Squadra delle Tombe aveva affondato il Pozzo nel fiume e aveva messo in funzione la pompa. In quel momento stavano lavorando allo strato di vetro interno. Presto la tomba sarebbe stata terminata, la porta sarebbe stata aperta in caso di bisogno e qualcuno vi sarebbe entrato per restarvi in eterno.

(Richard Brautigan, Zucchero di cocomero. Serra e Riva, 1990)



lunedì 20 gennaio 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Il più lungo racconto di fantascienza mai scritto

Egregio signor Jinx:
Temo che la sua idea non sia del tutto originale. I racconti che narrano di autori il cui lavoro è sempre plagiato anche prima che lo possano completare risalgono almeno a L'Anticipatore di H.G. Wells. Almeno una volta la settimana ricevo un manoscritto che incomincia: 

Egregio signor Jinx:
Temo che la sua idea non sia del tutto originale. I racconti su scrittori il cui lavoro è sempre plagiato anche prima che possano completarlo risalgono almeno a L'Anticipatore di H.G. Wells. Almeno una volta la settimana ricevo un manoscritto che incomincia: 
Egregio signor Jinx:
Temo che la sua idea non sia...

           Auguri per la prossima volta!
           Sinceramente,
           Morris K. Mobius
           Direttore, Storie stupefacenti

                         Auguri per la prossima volta!
                         Sinceramente,
                         Morris K. Mobius
                         Direttore, Storie stupefacenti

                                      Auguri per la prossima volta!
                                      Sinceramente,
                                      Morris K. Mobius
                                      Direttore, Storie stupefacenti

(Arthur C. Clarke, Vento solare, Robot speciale n. 2. Armenia, 1977)



mercoledì 15 gennaio 2014

Esperienze musicali

Un amico, il pittore danese Asger Jorn, mi invitò, verso la fine dell'anno 1960, nei giorni di Natale, a improvvisare un po' di musica con lui. Io allora, per conservare un ricordo delle nostre riunioni, acquistai un magnetofono del tipo Grundig T K 35: la prima registrazione dei nostri giochi fu fatta il 27 dicembre e prese il titolo di Naso rotto; ad essa ben presto ne seguirono numerose altre perché le nostre esperienze musicali ci appassionarono entrambi al punto che le nostre sedute d'improvvisazione divennero frequenti nei mesi successivi. Asger Jorn aveva qualche esperienza di violino e tromba; io me la cavavo al pianoforte, studiato a lungo in gioventù. Ma il genere di musica che ci proponevamo di eseguire non richiedeva affatto una tecnica di virtuoso, giacché intendevamo utilizzare gli strumenti per trarne effetti inediti. Avevamo in principio, oltre a un piano (piuttosto scadente), un violino, un violoncello, una tromba, un flauto dolce e un flauto sahariano, una chitarra e un tamburino, ma ad essi ben presto s'aggiunsero strumenti d'ogni specie, alcuni antiquati (flauti antichi, viella) o esotici (asiatici, africani, tzigani) altri più banali - oboe, sassofono, fagotto, xilofono, cetra - o addirittura folcloristici - cabrette, bombarda - secondo quel che ci capitava di trovare. Un grande aiuto ci venne dal musicista Alain Vian che a Parigi, in rue Grégoire-deTours, ha un negozio di strumenti curiosi e rari per collezionisti e che, oltre a prender parte una volta o due ai nostri piccoli concerti, si diede da fare per procurarci strumenti - in qualche caso giunse persino a costruirli.
Né Asger Jorn né io conoscevamo, in quel periodo, la produzione dei musicisti contemporanei, in particolare quella dei promotori della musica seriale, dodecafonica, concreta, elettronica, ecc. Non conoscevamo neppure questi termini, che solo recentemente ho appreso. Per quel che mi riguarda, la mia esperienza musicale si limitava a una prolungata pratica del pianoforte (associata allo studio, peraltro poco approfondito, della musica classica) svolta durante l'infanzia e l'adolescenza e abbandonata verso i vent'anni; più tardi, a trentacinque anni, m'ero messo a suonare sulla fisarmonica un po' di musica "musette" (con mediocri esiti) e poi, sui quarant'anni, di nuovo al pianoforte, per circa un anno, alcune partiture di Duke Ellington, assortite di improvvisazioni all'armonium. Alla fine mi venne un'estrema avversione per la musica europea ed arrivai ad apprezzare solo le musiche orientali (cui m'ero appassionato nel Sahara) e dell'Estremo Oriente.
Del magnetofono non avevo naturalmente alcuna esperienza. Solo più tardi mi resi conto dell'imperfezione delle mie registrazioni fatte empiricamente su un apparecchio da dilettante rispetto a quelle fatte dai professionisti. Ma, anche se può sembrare paradossale, non sono convinto della superiorità delle seconde sulle prime; d'altra parte io spesso preferisco le fotografie fatte da amatori scarsamente attrezzati a quelle fatte dagli specialisti. Più tardi mi sono accorto, frequentando dei tecnici, che tutte le loro precauzioni e apparecchiature hanno, come contropartita di certi vantaggi, un effetto inibitorio davvero imbarazzante e che le registrazioni da essi ottenute giungono sì più chiare all'orecchio, prive di disturbi e di altri piccoli accidenti, ma non per questo parlano meglio allo spirito. Credo che in ogni campo l'arte ci guadagni a semplificare le tecniche cui deve fare ricorso. Credo che non sappia che farsene delle purificazioni. Io sono per le grazie selvagge e non affettate, contro orpelli e parrucchieri. Ma, nel caso che ci riguarda, c'è una ragione anche più forte. Si chiama in genere buona registrazione quella in cui i suoni sono molto chiari e distinti e in cui si ha l'impressione d'una emissione molto vicina. Ora, il mondo quotidiano del nostro orecchio non è tutto fatto di suoni di questo genere ma comporta, in misura notevolmente maggiore, suoni confusi e indistinti, affatto impuri, lontani e in un modo o nell'altro mal percepiti. Ignorandoli per partito preso, si arriva a un'arte speciosa, disposta a impiegare soltanto una categoria di suoni che in fondo nella vita di tutti i giorni sono piuttosto rari. Io invece miravo allora a una musica fondata non sulla selezione ma sull'accoglimento di tutti i suoni che si sentono quotidianamente dappertutto, particolarmente di quelli che vengono uditi senza arrivare alla coscienza. Il mio apparecchio rudimentale si prestava allo scopo meglio dei più perfezionati. Deciso come sono ad accogliere e utilizzare tutti i suoni che mi si presentano, a qualunque genere appartengano, posso dire che  i suoni riprodotti dal mio magnetofono mi interessano quanto quelli che ho registrato anche se sono diversi, e a volte anche di più. Quando le sorprese mi sembrano cattive cancello o distruggo, ma spesso capita che siano notevolmente buone. A questo punto, dopo aver riservato in casa mia una stanza per la musica, fra una riunione e l'altra, misi su da solo un'orchestra ricorrendo di volta in volta a tutti i miei strumenti (una buona cinquantina) e a un gioco di sovrapposizioni, ottenibile con il magnetofono - incidevo cioè le varie parti una dopo l'altra sullo stesso nastro che poi le rende tutte insieme simultaneamente. Operavo per piccoli frammenti, cancellando e ricominciando le sequenze scadenti e organizzando, con forbici e nastro adesivo, tagli, giunture e assemblages. Un simile metodo, è innegabile, costringe ad annaspare un poco e a lasciare un certo spazio al caso: non potendo sentire la partitura precedentemente incisa mentre ne suonavo un'altra destinata ad essere sincronizzata alla prima, avevo qualche difficoltà a farla cadere proprio al punto desiderato e dovevo perciò ricominciare spesso tutto daccapo; ma chi dice controllo difficile e parte affidata al caso dice anche possibilità di belle sorprese, come contropartita a rischi fastidiosi. In seguito, un secondo magnetofono associato al primo e dotato di scatola di mistaggio mi permise di fare trasposizioni da un apparecchio all'altro, di suonare ascoltando contemporaneamente la partitura precedentemente incisa e di far giunte, cancellare e ricominciare tutto quel che volevo, senza guastare con questo la prima registrazione quando l'effetto della partitura aggiunta non mi soddisfaceva.
Il primo nastro realizzato in queste condizioni è d'un genere un po' particolare: si tratta infatti d'un poema, Fior di barba, declamato, salmodiato, vagamente cantato (a più voci che sono poi sempre la mia) e accompagnato a tratti da musica strumentale. Gli altri nastri, che saranno enumerati più avanti, procedono da due aspirazioni divergenti fra le quali mi trovo indeciso e che d'altra parte, almeno in certi pezzi, vengono simultaneamente alla luce. La prima tende a una musica dagli accenti umani, una musica, dico, nella quale possano esprimersi gli umori di chiunque, i movimenti che la animano e insieme i suoni, i bagni di suoni, le apparenze di suoni che compongono l'elemento abituale della nostra vita di tutti i giorni, i rumori più comuni in mezzo ai quali viviamo e che sono tanto legati a noi, che anzi ci sono, senza che neppur l'immaginiamo, tanto cari e tanto indispensabili. Fra questa musica che sempre ci accompagna e la musica che emettiamo noi c'è un'osmosi; le due fanno una cosa sola, per così dire, e costituiscono la musica caratteristica dell'essere umano. Nell'intimo io preferisco chiamare questo genere di musica "musica che si fa", in opposizione all'altra, completamente diversa, che eccita con altrettanta forza il mio pensiero e che dentro di me chiamo "musica che si ascolta" intendendo questa volta una musica completamente estranea a noi e alle nostre inclinazioni, per nulla umana ma suscettibile di farci intendere (o immaginare) delle musiche che potrebbero essere emesse dagli elementi stessi, senza che l'uomo ci metta mano. Tali musiche sarebbero, immagino, estremamente perturbanti, simili a quella che si ascolterebbe accostando l'orecchio a una bocca spalancata su un mondo diverso dal nostro, oppure a quella che udremmo se d'improvviso sorgesse in noi un nuovo udito che ci permettesse d'intendere strani tumulti che i nostri sensi non ci lasciano percepire e che forse sono davvero prodotti da elementi apparentemente votati all'azione silenziosa come la terra al lavoro, l'erba che spunta, il minerale che si trasforma.
Va osservato che in entrambi gli ordini di musica ora enumerati, e persino quando mi capita di fonderli in uno solo (cosa che urta la logica, ma tanto peggio per lei), si manifesta una predilezione per i suoni molto compositi e quasi formati di numerose voci evocanti rumori, luoghi affollati, brulichii pieni d'agitazione, attività collettive. Mi pare anche di notare che da essi traspare una predilezione per musiche non variate, soprattutto non orchestrate in funzione d'un qualche sistema bensì uniformi, per non dire informi, al punto che i pezzi non hanno né inizio né fine ma sembrano prelievi operati a caso su partiture interminabili e continue. Devo riconoscere che ne traggo un certo piacere.
Voglio ora avvertire che sono ben conscio della distanza che separa le mie mire dai risultati ottenuti. Le esperienze riportate sulla piccola collezione di dischi editi devono esser considerate come abbozzi d'un programma ancora da svolgere che per esser portato a compimento richiederebbe un lungo lavoro di messa a punto in diversi campi, cominciando dalla tecnica della registrazione, della manipolazione di ogni singolo strumento adoperato, sino alla modifica di tali strumenti ed infine alla costruzione di altri strumenti più adatti. Ma ci sarebbe anche da sperimentare tutto ciò che può essere fatto già solo con quel che si ha sotto mano. Da un solo ed unico strumento, uno qualunque, si può trarre un numero incredibile di effetti tutti diversi, tanto che vien da chiedersi se sia proprio necessario cercarne degli altri. Per quanto riguarda la tecnica degli strumenti impiegati o la buona conoscenza metodica del loro impiego, le mie manchevolezze sono grandi e io sono il primo ad avvertire tutto il profitto che potrei trarre dalla loro acquisizione. E' tuttavia possibile che a dedicarcisi interamente si corra il rischio di perdere un punto di vantaggio: precisamente il vantaggio insito nell'uso sprovveduto d'uno strumento di cui s'ignora il corretto modo d'impiego, con tutte le scoperte impreviste che ne risultano. Detto questo, va aggiunto che i dischi qui raccolti non vengono presentati come opere che pretendono d'imporsi ma come prime prove di uno che si avventura in un campo da lui assai poco conosciuto, e come tali i musicisti sono pregati di accoglierli.

Testo scritto nell'aprile 1961 per essere inserito nel cofanetto contenente le incisioni su nastro magnetico realizzate da J.D. fra il dicembre 1960 e l'aprile 1961. Tali incisioni furono pubblicate dalla Galleria del Cavallino, Venezia (sei dischi con copertine illustrate da disegni originali di J.D.).

(Jean Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus e altri scritti. Feltrinelli, 1971)




sabato 11 gennaio 2014

Van der Graaf Generator @ Nautilus

Van der Graaf Generator, Nautilus, Cardano al Campo, 31-07-1975

Il calendario prese quindi avvio con il concerto del 31 luglio [1975] al Nautilus Club di Gallarate, una delle prime discoteche multisala degli anni Settanta, con ben cinque sale e una capienza di oltre tremila persone. La setlist presentava ben sei pezzi inediti, e dunque mai ascoltati dal pubblico in precedenza: l'intero nuovo album Godbluff, più La Rossa (che sarebbe poi finita sul successivo Still Life) e Urban, oltre a tre brani tratti dagli album da solista di Hammill; in pratica del vecchio repertorio rimanevano solo tre pezzi: Lemmings e Man-Erg da Pawn Hearts e Darkness da The Least We Can Do, utilizzata dal gruppo come ultimo e trascinante bis in chiusura di serata. In alcune delle date successive, l'assenza dei vecchi classici sembrò minare il feeling tra il gruppo e il pubblico, costringendo Hammill a cercare di giustificare e spiegare certe scelte, dimostrando anche di aver migliorato sensibilmente la sua padronanza della lingua italiana.

(Paolo Carnelli, Van der Graaf Generator. La biografia italiana. Arcana, 2013)





giovedì 9 gennaio 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: Il manovratore

Quando il colosso entrò, nella sala ci fu un movimento simile a quello di una muta di cani che si bloccassero nella posizione di ferma. Il pianista smise di pestare sui tasti, i due ubriachi che stavano cantando chiusero di colpo il becco, e tutte le altre splendide persone che reggevano il loro cocktail in mano smisero di ridere e di parlare.
"Pete!" strillò la donna più vicina, e lui avanzò nel centro della sala, abbracciando due ragazze e tenendole strette ai fianchi. "Come sta la mia dolcezza? Susy, sei talmente appetitosa che ti mangerei volentieri, ma ho già pranzato. George, razza di pirata..." lasciò andare entrambe le ragazze e strinse un ometto calvo che arrossì; gli mollò un pugno scherzoso... "sei stato grande, tesoro, e lo dico sul serio, davvero grande. E ora SENTITE QUESTA!" urlò, superando tutte le voci che stavano acclamando Pete questo e Pete quello.
Qualcuno gli infilò un martini in mano e lui sollevò il bicchiere, gigante abbronzato nel suo smoking impeccabile, i denti che scintillavano bianchissimi come i polsini della sua camicia. "Abbiamo dato uno spettacolo!" gridò a tutti.
Un urlo di consenso si sollevò, una babele di Abbiamo dato uno spettacolo mio Dio ascolta Pete uno spettacolo...
Sollevò ancora la mano. "E' stato un bello spettacolo!"
Un altro urlo gli fece eco, un'altra babele di ciarle.
"Al cliente il programma è piaciuto... ha appena firmato per un altro in autunno!"
Strilli, ruggiti, persone che applaudivano e che saltavano da tutte le parti. Il colosso tentò di dire qualcosa d'altro, ma vi rinunciò con un sogghigno mentre uomini e donne gli si assiepavano intorno. Tentavano tutti di stringergli la mano, di parlargli all'orecchio, di abbracciarlo.
"Vi amo tutti!" gridò lui. "E ora cosa ne dite? Divertiamoci un po'!"
Il mormorio vociante riprese mentre la gente si divideva di nuovo in gruppi o in coppie. Dal bar giunse un tintinnio di vetri. "Cristo, Pete... stava dicendo un tipetto ossuto e con gli occhi bovini, rannicchiandosi accanto a lui con aria adorante, "quando hai lasciato cadere la vaschetta del pesce giuro davanti a Dio che stavo per pisciarmi sotto..."
Il colosso emise un latrato di ilarità soddisfatta. "Già, vedo ancora l'espressione sulla tua faccia. E il pesce, che rimbalzava su tutto il palcoscenico. Allora, cosa potevo fare...? Mi butto in ginocchio..." il colosso lo rifece, chinandosi in avanti a fissare un pesce immaginario sul pavimento. "E dico, 'OK, ragazzi, si torna al tavolo da disegno!"
Scrosci di risate accompagnarono il rialzarsi del gigante. La festa si stava disponendo tutt'intorno a lui, in archi concentrici di persone che partivano da quelle sul fondo, obbligate a salire sui divani o sul pianoforte per poterlo vedere. Qualcuno urlò, "Canta la canzone del pesce rosso, Pete!"
Urla di approvazione, avanti-Pete, ti-prego-Pete, la canzone del pesce rosso.
"Okay, okay." Sogghignando, il colosso si sedette sul bracciolo di una poltrona e sollevò il bicchiere. E uuuno, e duuue... dov'è la muuusica?" Una piccola mischia intorno al piano. Poi qualcuno picchiò alcuni accordi. Il colosso fece una smorfia comica e attaccò, "Ohhh... come vorrei... essere un pesciolino per lei... e quando vorrei qualche quaglia... agiterei la codina sotto la paglia."
Risate, le ragazze che ridevano più forte di chiunque e le loro bocche rosse spalancate più che mai. Una bionda rossa in viso teneva una mano sul ginocchio del colosso, ed un'altra gli sedeva proprio alle spalle.
"Ma seramente..." urlò il colosso. Altre risate.
"Niente seriamente, allora." esclamò con voce vibrante mentre la sala si calmava, "ma voglio lo stesso dirvi che non avrei potuto farlo da solo. E siccome vedo che per caso questa sera sono presenti alcuni estranei, qualche lituano e qualche rappresentante della stampa, voglio presentarvi tutte le persone che contano. Prima di tutti, il nostro George, il solista tre dita del nostro complesso... non c'è un altro ragazzo al mondo che avrebbe potuto fare quello che ha fatto lui questo pomeriggio... George, ti adoro." Abbracciò l'ometto calvo che arrossiva.
"Ed ora il mio autentico tesoro, Ruthie, dove sei? Dolcezza, sei stata la più grande, davvero perfetta... e sono sincero, baby." Baciò una ragazza di colore con un abito rosso; lei pianse un po' e nascose il viso sulla sua ampia spalla. "E poi, Frank..." si abbassò e agguantò per una manica il tipetto ossuto  con gli occhi bovini. "Che cosa posso dirti? Che sei stato un tesoro?" Il tipetto ossuto si mise ad ammiccare, gonfio come un pavone; il colosso gli diede una pacca sulla schiena. "Sol, Ernie e Mack, i miei autori... con loro, Shakespeare avrebbe avuto migliore fortuna." Ad uno ad uno, andarono tutti a stringere la mano al gigante quando lui li chiamava per nome; le donne lo baciavano e piangevano. "Il mio socio," continuava a chiamare il colosso, oppure "il mio caddie", e infine, mentre la sala si calmava momentaneamente, grazie alla stanchezza e alle gole secche dei convenuti entusiasti, egli disse, "Ora, però, voglio presentarvi il mio manovratore."
La sala piombò nel silenzio. Il gigante assunse un'espressione pensierosa e stupita, come se avesse avvertito un dolore improvviso. Poi smise di muoversi. Si sedette senza respirare e neppure sbattere le ciglia. Un istante dopo ci fu uno strano movimento alle sue spalle. La ragazza che sedeva sul bracciolo della sua poltrona si alzò e si allontanò. Lo smoking del colosso si aprì sulla schiena, e ne uscì un omettino. Aveva un volto color ebano e sudato, sotto una folta massa di capelli neri. Era piccolissimo, quasi un nano, con le spalle curve e la schiena piegata, e portava un paio di calzoncini ed una camiciola marrone zuppa di sudore. Si arrampicò fuori dalla cavità nel corpo del gigante e chiuse lo smoking con grande cura. Il colosso rimase seduto immobile, con lo sguardo completamente spento.
L'omettino scese a terra, umettandosi nervosamente le labbra. Salve, Fred, disse qualcuno. "Salve," rispose Fred, agitando una mano. Doveva avere una quarantina d'anni, e possedeva un grosso naso e un paio di dolci occhi castani. La sua voce era fessa e incerta. "Beh, abbiamo messo su un bello spettacolo, vero?"
Certo, Fred, gli risposero educatamente. Lui si asciugò la fronte con il dorso di una mano. "Fa caldo, là dentro," spiegò con un sorriso di scusa. Già, credo proprio di sì, dissero loro. Molte persone del primo cerchio incominciavano ad allontanarsi, formando nuovi gruppi; il brusio delle conversazioni crebbe sempre di più. "Ehi, Tim, cosa ne diresti di darmi qualcosa da bere?" chiese l'omettino. "Non mi piace lasciarlo... mi capisci?" Fece un gesto verso il colosso silenzioso.
"Certo, Fred, che cosa vuoi?"
"Oh, - lo sai - un bicchiere di birra?"
Tim portò un birra in un bicchiere da pilsener e lui se la scolò in un fiato, scoccando occhiate nervose da un fianco all'altro. Molte persone si erano ormai sedute; un paio erano già sulla porta, pronte ad andarsene.
"Ehi," disse l'omettino ad una ragazza che passava, "Ruthie, è stata una bella scena, lassù, quando è saltata la vaschetta del pesce, vero?"
"Huh? Scusami, tesoro, non ho sentito." La ragazza si chinò verso di lui.
"Oh... fa lo stesso, non importa. Nulla."
Lei gli battè su una spalla, e ritirò subito la mano. "Scusami, bello, ma devo acchiappare Robbins prima che se ne vada." E si diresse verso la porta.
L'omettino depose il bicchiere vuoto e si mise a sedere, stropicciandosi le mani nodose. Il calvo e quello con gli occhi bovini erano i soli che ancora gli sedevano vicini. Sulle labbra dell'omettino sfarfallò un soriso ansioso; fissò un viso, e poi l'altro. "Bene," disse, "è stato uno show che ci ha rimesso a galla, ragazzi, ma credo che ora dovremo incominciare a pensare a..."
"Ascolta, Fred," gli disse il calvo con fare serio, sporgendosi verso di lui fino a toccargli un polso. "Perché non ritorni dentro?"
L'omettino lo osservò per un istante con umidi occhi da San Bernardo, poi chinò il capo, imbarazzato. Si alzò con aria incerta, deglutì e disse, "Bene..." Si arrampicò su una sedia alle spalle del colosso, aprì il retro dello smoking e infilò dentro le gambe, una alla volta. Alcune persone lo stavano guardando, senza sorridere. "Avevo creduto di poter fare festa anch'io," disse lui debolmente, "ma forse..." Allungò entrambe le mani dentro l'apertura ed afferrò qualcosa, lasciandosi scivolare all'interno. Il suo viso scuro e incerto scomparve. 
Il colosso ammiccò improvvisamente e si alzò. "Ehi!" esclamò. "Che cosa diavolo sta succedendo a questa festa? Fatemi vedere un po' di vita, di movimento..." Intorno a lui i volti si stavano illuminando. La gente incominciò ad avvicinarsi. "Avete capito? Fatemi sentire quel ritmo!"
Il colosso prese a battere le mani ritmicamente. Il piano riprese il motivo. Altra gente si unì, battendo a loro volta le mani. "Ecco cosa intendevo! Siamo vivi, qui dentro, o stiamo soltando aspettando il carro funebre che ci porti via? Come fa quel ritmo? Non riesco a sentirvi!" Un ruggito di piacere accolse il suo gesto di portare una mano a coppa all'orecchio. "Avanti, ancora, fatemelo sentire!" Un ruggito più forte. Pete, Pete; un confuso altalenare di voci. "Non ho nulla contro Fred," disse con sincera convinzione il calvo in mezzo a quel frastuono. "Voglio dire, per essere un conformista è abbastanza simpatico." "So cosa vuoi dire," disse quello con gli occhi bovini, "lui non lo fa apposta." "Certo," riprese il calvo, "però, Cristo, quella maglietta zuppa di sudore e tutti quei..." Quello con gli occhi bovini alzò le spalle. "Che cosa vuoi farci?" Poi entrambi scoppiarono in una risata quando il colosso improvvisò una faccia comica, con la lingua di fuori e gli occhi strabici. Pete, Pete, Pete; la sala stava letteralmente scoppiando; era una grande festa e tutto andava magnificamente, a quell'ora della notte.

(Damon Knight, I mondi dell'abisso. Galassia n. 220. CELT, 1976)