venerdì 18 aprile 2014

Lovecraft: nuove considerazioni

Nei venticinque anni seguiti alla morte di H.P. Lovecraft i suoi racconti hanno ricevuto lodi sperticate e feroci stroncature, sia le une che le altre, in genere, superficiali e poco approfondite. E se questa gazzarra può soddisfare qualcuno e divertire qualcun altro, per me, che sono stato influenzato tanto dall'uomo che dallo scrittore Lovecraft, non è certo sufficiente. Per questo, almeno per quanto mi riguarda, desidero andare a fondo e usare un metro il più possibile analitico. 
In un mio articolo dal titolo Copernico letterario (che, in realtà, avrei fatto meglio a intitolare Il Copernico del racconto dell'orrore) ho analizzato i pregi dei racconti di Lovecraft e dei mezzi letterari e creativi di cui si è servito. Ora tenterò di dare l'altro lato del quadro, non per invalidare la mia vecchia analisi, ma per completarla e inserire il nero accanto al bianco. Mi baserò essenzialmente su Colui che sussurrava nelle tenebre, il mio preferito tra i racconti di Lovecraft, perché è un prodotto del suo periodo più maturo (fu scritto nel 1930), è abbastanza lungo per costituire un buon campione, suscita vigorosamente sia il senso dell'avventura che il terrore e combina bene la vecchia tendenza di Lovecraft a sfruttare come sfondo delle sue storie le leggende di magia nera con quella, che si manifestò nell'ultima parte della sua vita, di creare atmosfere di mistero volgendosi alle fantasie della scienza. Ma forse la ragione fondamentale per cui lo prediligo è che Colui che sussurrava nelle tenebre mi ha dato, la prima volta che l'ho letto, i brividi più deliziosi.
Innanzi tutto, brevemente, la trama (per rinfrescare la memoria di coloro che hanno letto il racconto; a tutti gli altri... leggetelo prima!).
Albert Wilmarth, un appassionato di folklore e professore di letteratura alla Miskatonic University, partecipa a un dibattito ospitato da una rivista accademica, sulla possibilità che nelle colline del Vermont siano scesi esseri di un altro mondo. Wilmarth è del partito scettico, ma Henry Akeley, uno studioso solitario che vive sul posto, lo convince per corrispondenza che quegli esseri esistono e che vengono da Plutone. E' necessario, tuttavia, mantenere il segreto, perché se scoperti essi potrebbero decidere di attaccare la Terra. Akeley si convince che gli esseri lo uccideranno o lo rapiranno presto perché sa troppo, e prega Wilmarth di tenersi alla larga. Poco dopo, però, il professore riceve una lettera in cui Akeley mostra un profondo cambiamento; non solo le sue idee, ma la sua stessa personalità sembrano diverse: dice di essere entrato in contatto con le creature di Plutone, di aver scoperto che sono benevole e prega Wilmarth di andarlo a trovare portando con sé la loro corrispondenza. Il professore accetta e per parecchie ore, in una stanza in penombra, conversa con un Akeley dall'aspetto stranamente rigido. Quella notte (avendo evitato di bere del caffè drogato) Wilmarth è in grado di udire una conversazione che indica come uno degli esseri di Plutone abbia preso il posto di Akeley, impersonandolo, e che è intenzione di quegli esseri rapire anche lui. Wilmarth ottiene le prove che è tutto vero e fugge a precipizio dalla casa di Akeley e dalle colline del Vermont.
Questo riassunto non dà nessuna idea dell'atmosfera e della forza del racconto, ma mi permette di situare in un certo quadro i miei commenti (o meglio, le mie "reazioni di lettore").
Innanzi tutto non mi ha mai convinto la facilità con cui Wilmarth si lascia persuadere ad andare nel Vermont, dato che il piano dei plutoniani si intuisce lontano un miglio. A questo punto ho sempre dovuto fermarmi per rassicurare me stesso che Wilmarth doveva essere così incuriosito da perdere qualunque senso di cautela (anche se il racconto non offre nessun appiglio al riguardo); solo dopo quest'operazione potevo continuare la lettura. Dopo essere arrivato nel Vermont Wilmarth continua a mostrarsi incredibilmente tardo nella comprensione della verità, anche se gli indizi si sommano agli indizi.
In secondo luogo non viene mai spiegato, nemmeno per allusioni, perché gli esseri di Plutone indugino tanto a realizzare i loro piani sul conto di Wilmarth (o di Akeley). L'affermazione che i loro movimenti sulla Terra sono lenti e difficoltosi è inverosimile quando si apprende che l'avamposto sul nostro pianeta esiste da centinaia d'anni. E' vero, i plutoniani di Lovecraft non sono più inetti del dottor Fu Manchu quando spreca le migliori occasioni di far fuori Nayland Smith: ma ci si aspetta qualcosa di più da una razza di extraterrestri che scorrazzano nella galassia. Inoltre i loro metodi sono quelli tipici del melodramma: caffè drogato, falsi telegrammi, travestimenti elaborati e corse in macchina nella notte.
Terzo, il paesaggio del Vermont è descritto fin nei dettagli almeno quattro volte: nelle osservazioni preliminari di Wilmarth, nella lettera di Akeley, durante il viaggio di Wilmarth a casa di Akeley e durante la fuga finale. Questa ripetitività, che ho sempre trovato stancante, preannuncia i reiterati vagabondaggi nei corridoi delle colossali strutture architettoniche che troveremo nell'Ombra fuori del tempo e nelle Montagne della follia.
Nel racconto ci sono momenti di grande suggestione, come quando Wilmarth vede un cilindro di metallo contenente un cervello scorporato a cui sono stati lasciati due soli sensi, la vista e l'udito, oltre alla facoltà di parlare (ho usato questa stessa idea nel mio romanzo Le argentee teste d'uovo, riconoscendone il merito a Lovecraft). Ma il racconto acquista efficacia drammatica solo in pochi punti: i lunghi passaggi descrittivi, le allusioni elaborate e le volute ripetizioni tendono a stancare.
La ragione di questa scelta mi sembra la seguente: Lovecraft aveva in mente il grande spavento finale di Wilmarth (e del lettore) e scriveva per "aprirsi la strada" verso di esso, evitando decisamente di battere qualsiasi sentiero collaterale; eppure, di solito, sono proprio gli aspetti secondari a costituire l'interesse di un racconto, perché consentono l'introspezione, le osservazioni sulla vita quotidiana e le sottigliezze psicologiche.
Questa marcia forzata verso il climax mi sembra la vera responsabile della scarsità di scene pienamente sviluppate in senso drammatico. Dopo le dichiarazioni d'apertura, tenute sulle generali, le cose devono essere viste con distacco, apprese per allusioni e sentito dire, fino all'accecante rivelazione conclusiva. Troppi primi piani all'inizio del racconto potrebbero rovinare questa progressione passo passo all'apice del terrore. Ed è anche la ragione per il ritardato concretizzarsi della minaccia nei confronti di Wilmarth: le creature di Plutone impiegano ore a fargli oscure allusioni, pur avendolo in loro potere, semplicemente perché questo esalterà la sua paura. Lovecraft usa lo stesso procedimento nei confronti del lettore, con cui gioca come il gatto con il topo, sfruttando interminabilmente le esitazioni e la riluttanza del suo narratore nel dirci in che cosa consista l'orrore. Questi artifici funzionano abbastanza bene nell'evocare la paura del soprannaturale, ma irrigidiscono, limitano e incanalano il racconto su una traccia monotona. 
La maggior parte dei racconti di Lovecraft soffre di questo modello rigido e ristretto. Da storie come La dichiarazione di Randolph Carter a romanzi come Le montagne della follia, si ha la sensazione che ogni successivo racconto non vada più avanti del primo. Alle idee si può solo alludere, mai analizzarle; ai personaggi non può essere permesso quasi mai di interagire in modo drammatico; i mostri, in particolare, non devono essere analizzati o esplorati nell'intimo: infatti ognuna di queste due cose potrebbe rovinare l'atmosfera di terrore, spezzare l'incantesimo.
In Note sull'arte della letteratura fantastica Lovecraft riassunse questo tipo di limitazione: "Tutto ciò che un racconto del meraviglioso può essere è un vivido ritratto di un certo tipo di atmosfera psichica". Questo dogma estetico, pur avendo qualche validità tecnica, trasuda solitudine da tutti i pori e può rivelarsi distruttivo nei confronti di una tipica attitudine dello scrittore, quella di dire qualcosa sul mondo reale, gettare sguardi penetranti nell'animo di uomini reali, speculare nel senso migliore del termine e avvicinarsi al suo lettore invece di condividere con lui semplicemente "una vaga illusione dell'arcana realtà dell'irreale".
Ciò che voglio dire si può ridurre a questo: che HPL scrisse racconti dell'orrore e che i racconti di questo tipo, specialmente se creati da un purista, sono di orizzonti limitati. Per esempio, analizzare i mostri o esplorarli nell'intimo già trasformerebbe una storia del terrore in una di fantascienza.
Voglio anche suggerire che i racconti di HPL si impossessano del lettore come incubi e furono scritti nello stesso modo, con la mente incapace di uscire dallo spaventoso garbuglio e di guardarsi intorno finché non si arriva alla fine. E' un'intensità ipnotica, sonnambolica, lettore e scrittore privati della volontà e attratti interminabilmente in corridoi che sprofondano verso il basso, in città sterminate e ciclopiche, o ancora in foreste abominevoli; è un procedere attraverso un paesaggio di orridi arabeschi, il cui scenario sembra tratto di peso dall'incubo o da una visione ipnagogica. Per quanto riguarda in particolare Colui che sussurrava nelle tenebre, che Lovecraft scrisse in una settimana, per rendere la storia credibile il lettore deve accettare che Wilmarth si trovi in uno stato mentale ipnotico, in una sorta d'incubo fin dal momento in cui riceve l'ultima lettera di Akeley.
Mi duole che in questo breve articolo io debba trascurare i tanti aspetti affascinanti del racconto: ad esempio il modo in cui sfrutta i fatti di cronaca dell'epoca come le inondazioni del 1927 in Vermont, la scoperta di Plutone e il proliferare di luoghi estivi per vacanza a buon mercato in tutta la Nuova Inghilterra; l'eleganza con cui incorpora l'influenza letteraria di Machen, Fort e altri; le numerose, pregevoli battute di dialogo, specie le più brevi e drammatiche; l'uso eccellente di impronte d'artigli e altri mostruosi indizi; l'ottimo assunto di base, che è pura fantascienza; la sensazione d'eccitamento e aspettativa al pensiero delle indicibili meraviglie e degli arcani dell'universo. Questi elementi di fascino sono tanto vividi e vitali nei racconti di Lovecraft quanto assenti in quelli dei suoi imitatori. Perché, nonostante le limitazioni del suo modulo narrativo preferito (e che a volte, credo, lo ostacolò seriamente), Lovecraft cercò sempre di usarlo per esprimere ciò che lui sapeva e sentiva della vita, non per creare racconti gotici di maniera. ("The Whisperer" Re-examined, 1964)
(Fritz Leiber, Spazio, tempo e mistero. Mondadori, 1987) 




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