mercoledì 15 gennaio 2014

Esperienze musicali

Un amico, il pittore danese Asger Jorn, mi invitò, verso la fine dell'anno 1960, nei giorni di Natale, a improvvisare un po' di musica con lui. Io allora, per conservare un ricordo delle nostre riunioni, acquistai un magnetofono del tipo Grundig T K 35: la prima registrazione dei nostri giochi fu fatta il 27 dicembre e prese il titolo di Naso rotto; ad essa ben presto ne seguirono numerose altre perché le nostre esperienze musicali ci appassionarono entrambi al punto che le nostre sedute d'improvvisazione divennero frequenti nei mesi successivi. Asger Jorn aveva qualche esperienza di violino e tromba; io me la cavavo al pianoforte, studiato a lungo in gioventù. Ma il genere di musica che ci proponevamo di eseguire non richiedeva affatto una tecnica di virtuoso, giacché intendevamo utilizzare gli strumenti per trarne effetti inediti. Avevamo in principio, oltre a un piano (piuttosto scadente), un violino, un violoncello, una tromba, un flauto dolce e un flauto sahariano, una chitarra e un tamburino, ma ad essi ben presto s'aggiunsero strumenti d'ogni specie, alcuni antiquati (flauti antichi, viella) o esotici (asiatici, africani, tzigani) altri più banali - oboe, sassofono, fagotto, xilofono, cetra - o addirittura folcloristici - cabrette, bombarda - secondo quel che ci capitava di trovare. Un grande aiuto ci venne dal musicista Alain Vian che a Parigi, in rue Grégoire-deTours, ha un negozio di strumenti curiosi e rari per collezionisti e che, oltre a prender parte una volta o due ai nostri piccoli concerti, si diede da fare per procurarci strumenti - in qualche caso giunse persino a costruirli.
Né Asger Jorn né io conoscevamo, in quel periodo, la produzione dei musicisti contemporanei, in particolare quella dei promotori della musica seriale, dodecafonica, concreta, elettronica, ecc. Non conoscevamo neppure questi termini, che solo recentemente ho appreso. Per quel che mi riguarda, la mia esperienza musicale si limitava a una prolungata pratica del pianoforte (associata allo studio, peraltro poco approfondito, della musica classica) svolta durante l'infanzia e l'adolescenza e abbandonata verso i vent'anni; più tardi, a trentacinque anni, m'ero messo a suonare sulla fisarmonica un po' di musica "musette" (con mediocri esiti) e poi, sui quarant'anni, di nuovo al pianoforte, per circa un anno, alcune partiture di Duke Ellington, assortite di improvvisazioni all'armonium. Alla fine mi venne un'estrema avversione per la musica europea ed arrivai ad apprezzare solo le musiche orientali (cui m'ero appassionato nel Sahara) e dell'Estremo Oriente.
Del magnetofono non avevo naturalmente alcuna esperienza. Solo più tardi mi resi conto dell'imperfezione delle mie registrazioni fatte empiricamente su un apparecchio da dilettante rispetto a quelle fatte dai professionisti. Ma, anche se può sembrare paradossale, non sono convinto della superiorità delle seconde sulle prime; d'altra parte io spesso preferisco le fotografie fatte da amatori scarsamente attrezzati a quelle fatte dagli specialisti. Più tardi mi sono accorto, frequentando dei tecnici, che tutte le loro precauzioni e apparecchiature hanno, come contropartita di certi vantaggi, un effetto inibitorio davvero imbarazzante e che le registrazioni da essi ottenute giungono sì più chiare all'orecchio, prive di disturbi e di altri piccoli accidenti, ma non per questo parlano meglio allo spirito. Credo che in ogni campo l'arte ci guadagni a semplificare le tecniche cui deve fare ricorso. Credo che non sappia che farsene delle purificazioni. Io sono per le grazie selvagge e non affettate, contro orpelli e parrucchieri. Ma, nel caso che ci riguarda, c'è una ragione anche più forte. Si chiama in genere buona registrazione quella in cui i suoni sono molto chiari e distinti e in cui si ha l'impressione d'una emissione molto vicina. Ora, il mondo quotidiano del nostro orecchio non è tutto fatto di suoni di questo genere ma comporta, in misura notevolmente maggiore, suoni confusi e indistinti, affatto impuri, lontani e in un modo o nell'altro mal percepiti. Ignorandoli per partito preso, si arriva a un'arte speciosa, disposta a impiegare soltanto una categoria di suoni che in fondo nella vita di tutti i giorni sono piuttosto rari. Io invece miravo allora a una musica fondata non sulla selezione ma sull'accoglimento di tutti i suoni che si sentono quotidianamente dappertutto, particolarmente di quelli che vengono uditi senza arrivare alla coscienza. Il mio apparecchio rudimentale si prestava allo scopo meglio dei più perfezionati. Deciso come sono ad accogliere e utilizzare tutti i suoni che mi si presentano, a qualunque genere appartengano, posso dire che  i suoni riprodotti dal mio magnetofono mi interessano quanto quelli che ho registrato anche se sono diversi, e a volte anche di più. Quando le sorprese mi sembrano cattive cancello o distruggo, ma spesso capita che siano notevolmente buone. A questo punto, dopo aver riservato in casa mia una stanza per la musica, fra una riunione e l'altra, misi su da solo un'orchestra ricorrendo di volta in volta a tutti i miei strumenti (una buona cinquantina) e a un gioco di sovrapposizioni, ottenibile con il magnetofono - incidevo cioè le varie parti una dopo l'altra sullo stesso nastro che poi le rende tutte insieme simultaneamente. Operavo per piccoli frammenti, cancellando e ricominciando le sequenze scadenti e organizzando, con forbici e nastro adesivo, tagli, giunture e assemblages. Un simile metodo, è innegabile, costringe ad annaspare un poco e a lasciare un certo spazio al caso: non potendo sentire la partitura precedentemente incisa mentre ne suonavo un'altra destinata ad essere sincronizzata alla prima, avevo qualche difficoltà a farla cadere proprio al punto desiderato e dovevo perciò ricominciare spesso tutto daccapo; ma chi dice controllo difficile e parte affidata al caso dice anche possibilità di belle sorprese, come contropartita a rischi fastidiosi. In seguito, un secondo magnetofono associato al primo e dotato di scatola di mistaggio mi permise di fare trasposizioni da un apparecchio all'altro, di suonare ascoltando contemporaneamente la partitura precedentemente incisa e di far giunte, cancellare e ricominciare tutto quel che volevo, senza guastare con questo la prima registrazione quando l'effetto della partitura aggiunta non mi soddisfaceva.
Il primo nastro realizzato in queste condizioni è d'un genere un po' particolare: si tratta infatti d'un poema, Fior di barba, declamato, salmodiato, vagamente cantato (a più voci che sono poi sempre la mia) e accompagnato a tratti da musica strumentale. Gli altri nastri, che saranno enumerati più avanti, procedono da due aspirazioni divergenti fra le quali mi trovo indeciso e che d'altra parte, almeno in certi pezzi, vengono simultaneamente alla luce. La prima tende a una musica dagli accenti umani, una musica, dico, nella quale possano esprimersi gli umori di chiunque, i movimenti che la animano e insieme i suoni, i bagni di suoni, le apparenze di suoni che compongono l'elemento abituale della nostra vita di tutti i giorni, i rumori più comuni in mezzo ai quali viviamo e che sono tanto legati a noi, che anzi ci sono, senza che neppur l'immaginiamo, tanto cari e tanto indispensabili. Fra questa musica che sempre ci accompagna e la musica che emettiamo noi c'è un'osmosi; le due fanno una cosa sola, per così dire, e costituiscono la musica caratteristica dell'essere umano. Nell'intimo io preferisco chiamare questo genere di musica "musica che si fa", in opposizione all'altra, completamente diversa, che eccita con altrettanta forza il mio pensiero e che dentro di me chiamo "musica che si ascolta" intendendo questa volta una musica completamente estranea a noi e alle nostre inclinazioni, per nulla umana ma suscettibile di farci intendere (o immaginare) delle musiche che potrebbero essere emesse dagli elementi stessi, senza che l'uomo ci metta mano. Tali musiche sarebbero, immagino, estremamente perturbanti, simili a quella che si ascolterebbe accostando l'orecchio a una bocca spalancata su un mondo diverso dal nostro, oppure a quella che udremmo se d'improvviso sorgesse in noi un nuovo udito che ci permettesse d'intendere strani tumulti che i nostri sensi non ci lasciano percepire e che forse sono davvero prodotti da elementi apparentemente votati all'azione silenziosa come la terra al lavoro, l'erba che spunta, il minerale che si trasforma.
Va osservato che in entrambi gli ordini di musica ora enumerati, e persino quando mi capita di fonderli in uno solo (cosa che urta la logica, ma tanto peggio per lei), si manifesta una predilezione per i suoni molto compositi e quasi formati di numerose voci evocanti rumori, luoghi affollati, brulichii pieni d'agitazione, attività collettive. Mi pare anche di notare che da essi traspare una predilezione per musiche non variate, soprattutto non orchestrate in funzione d'un qualche sistema bensì uniformi, per non dire informi, al punto che i pezzi non hanno né inizio né fine ma sembrano prelievi operati a caso su partiture interminabili e continue. Devo riconoscere che ne traggo un certo piacere.
Voglio ora avvertire che sono ben conscio della distanza che separa le mie mire dai risultati ottenuti. Le esperienze riportate sulla piccola collezione di dischi editi devono esser considerate come abbozzi d'un programma ancora da svolgere che per esser portato a compimento richiederebbe un lungo lavoro di messa a punto in diversi campi, cominciando dalla tecnica della registrazione, della manipolazione di ogni singolo strumento adoperato, sino alla modifica di tali strumenti ed infine alla costruzione di altri strumenti più adatti. Ma ci sarebbe anche da sperimentare tutto ciò che può essere fatto già solo con quel che si ha sotto mano. Da un solo ed unico strumento, uno qualunque, si può trarre un numero incredibile di effetti tutti diversi, tanto che vien da chiedersi se sia proprio necessario cercarne degli altri. Per quanto riguarda la tecnica degli strumenti impiegati o la buona conoscenza metodica del loro impiego, le mie manchevolezze sono grandi e io sono il primo ad avvertire tutto il profitto che potrei trarre dalla loro acquisizione. E' tuttavia possibile che a dedicarcisi interamente si corra il rischio di perdere un punto di vantaggio: precisamente il vantaggio insito nell'uso sprovveduto d'uno strumento di cui s'ignora il corretto modo d'impiego, con tutte le scoperte impreviste che ne risultano. Detto questo, va aggiunto che i dischi qui raccolti non vengono presentati come opere che pretendono d'imporsi ma come prime prove di uno che si avventura in un campo da lui assai poco conosciuto, e come tali i musicisti sono pregati di accoglierli.

Testo scritto nell'aprile 1961 per essere inserito nel cofanetto contenente le incisioni su nastro magnetico realizzate da J.D. fra il dicembre 1960 e l'aprile 1961. Tali incisioni furono pubblicate dalla Galleria del Cavallino, Venezia (sei dischi con copertine illustrate da disegni originali di J.D.).

(Jean Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus e altri scritti. Feltrinelli, 1971)




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