martedì 29 luglio 2014

Mastro Piccone

Dirò quello che penso; tanto è il parere di un incompetente. Sono nato a Milano in via del Fieno e venuto grande in via Olmetto e se stesse a me me ne andrei ormai definitivamente dalla mia città per non assistere allo scempio sistematico a cui la sottopongono le Competenze col C maiuscolo. 
Uno che se ne intende osservava su queste colonne che a Milano è sempre mancato un qualsiasi organico piano regolatore e che si è fatto tutto a pezzi e bocconi curandosi molto più di distruggere che di rifabbricare. 
S'è mai pensato, a mo' di esempio, che ogni città vive nell'atmosfera dei luoghi ove è nata e siede?
Al povero Cesarino - il commesso del notaio Bertoglio (quello vecchio) - e batti e batti erano riusciti a far fare un viaggetto. E' andato a Venezia. Al suo ritorno dopo un paio di giorni d'assenza gli eran corsi incontro a chiedergli:
"E inscì? T'è piasuu? Coss t'ee vist?"
"Tutt navili!"
Questa è la definizione di Venezia del Cesarin Cappellett: una città dove non vi son che navigli.
La definì così precisando pure e involontariamente la caratteristica della sua amatissima Milano.
L'acqua! Sicuro; l'acqua! La regina delle risaie come la regina dell'Adriatico viveva di questo elemento. Aveva un Re con tutta la sua Corte e glie l'hanno tolto. Sapete chi era? il Re-de-Fossi! E le rogge, i canali, i navigli sono scomparsi col loro Monarca; tutto è sepolto.
Gli igienisti dicono che era una schifezza perché puzzavano. Ma non puzzano forse e terribilmente le acque morte di Venezia? Quello era il loro problema; far sì che rimanessero senza dar fastidio. Hanno invece tagliato la testa col male che c'era dentro. 
Per me - ve lo dico senz'altro - si è sbagliato tutto. Sbagliato dal giorno che han buttato giù il Coperto de' Figini in Piazza del Duomo per sostituirlo colla Galleria, che mi rincresce di non poter ammirare.
La deprecata manìa del mastodontico - che non è da confondersi col monumentale - è cominciata di lì. Il nucleo della città vecchia, chiuso nell'anello dei navigli, l'avrei lasciato tale e quale pensando che a lungo andare anche il vecchio diventa antico e finalmente venerabile. Fra i navigli e i bastioni e più oltre, approfittando dello spazio che la pianura offriva, avrei costruito la Città Nuova coi suoi uffici , colle sue banche, con tutto. In un gran centro abitato si trova sempre un gruppetto di originali che preferisce le viette ai larghi viali alberati; le donnette di chiesa avrebbero potuto vivere indisturbate nei loro abbaini all'ombra dei campanili. Insomma dentro la cerchia dei navigli avrei immaginato una specie di Ghetto dei vecchi milanesi. Gli "ariosi" avrebbero potuto trovar posto fin che volevano, ma fuori. Bene inteso nel sancta sanctorum nulla avrei mutato, men che meno poi i nomi delle vie. Tutti i santi del calendario al loro posto: san Giuseppe... san Vittore ai 40 Martiri... san Celso... Chi sono infine i Santi? Non son forse i testimoni, i confessori, gli eroi della Chiesa altrettanto degni di menzione quanto gli eroi di tutte le altre guerre? Perché dunque detronizzarli? Che cosa ci guadagna l'Italia se una città qualsiasi le dedica in omaggio uno dei suoi corsi? 
Ma fin qui il danno è poco; i guasti maggiori e irreparabili li fa il Piccone Risanatore al quale è riserbata la parte del boia mentre il Piano Regolatore è per così dire la sentenza di morte delle antiche mura.
Or non è molto Mastro Piccone demoliva la chiesetta di S. Giovanni Laterano ove Padre Gazzola fece il suo ultimo Quaresimale prima di ritirarsi a Livorno in penitenza e a morirvi. 
Non passo da Piazza del Duomo senza raccapriccio. Chi si sofferma sui gradini della Cattedrale e le volta le spalle vede a sinistra venir su la fredda mole dei casoni di piazza Diaz che fanno a pugni colle maniche del Palazzo Reale e a calci coi portici meridionali. Se poi fa quattro passi per il lungo di quel deserto di pietra che è il sagrato verso il monumento del gran Re in bagnarola e qui giunto si gira e guarda il Duomo, dovrebbe subito aver una sensazione spiacevole come se la settima meraviglia del mondo si fosse improvvisamente schiacciata giù, verso terra. Sarà certo uno scherzo della mia vista - ma mi sembra che la mole della Cattedrale, dall'attuazione del Sagrato in poi e per quei pochi centimetri di rialzo del piano stradale, abbia perso d'imponenza. Le è vento a mancare parte d'un gradino ed è come se a una gran dama abbiano tagliato i tacchi. Ma come - ci si chiede - non era più grande?
E il Duomo ancora si salva! Fortuna per lui che era già isolato fin da prima se no penserebbero d'isolarlo ora. Così hanno fatto con Sant'Ambrogio e così stanno facendo con San Lorenzo. Isolare le cattedrali! Che vuol dire ciò? Vuol dire togliere i pulcini alla chioccia. Buttar giù le vecchie e sbilenche casette che circondano le basiliche, che le si serran d'attorno con umiltà devota e che rendono col loro miserabil aspetto ancor più solenne ed augusta la maestà della chiesa mi sembra un ripudio, un odioso ripudio di quel piccolo gregge tanto amato da Gesù.
Abito dalle parti del Santuario di San Celso e tutte le volte che ci passo davanti mi rendo conto che per amore di varietà e per quel che lo riguarda in luogo d'isolarlo l'han chiuso dentro! In altri tempi la chiesa aveva a sfondo il cielo e il giardino del ricovero dei vecchi sacerdoti. Oggi i preti li hanno mandati a Monza e le piante - manco a dirlo - sono state abbattute. A lato della basilica e della storica chiesetta è venuto su il bellissimo paravento color paglierino di nuove case di affitto.
Il giardino del ricovero sacerdotale è andato a far compagnia a tant'altri e non parliamone più. Ma anche quei pochi alberi che sono ancora in piedi li pelano maledettamente. Una mala lingua mi ha detto che il Municipio fa legna per scaldare i ragazzi delle elementari. Certo il fine è lodevole e mi impedisce di protestare circa il mezzo. Non resta da parte mia e di chi la pensa come me che un senso di rammarico di natura estetico-sentimentale, da repudiarsi quindi. 
Senz'acque, senza piante, senza un piano apprezzabile che disciplini i nuovi tracciati e le nuove costruzioni, la cosiddetta metropoli lombarda da non bella che era si avvia a diventar veramente brutta.
C'è che crede ai rimedi, ma ne dubito. Ormai tutto è compromesso.
E allora? Come risolvere il groviglio di tanti problemi?
Ve lo dirò, ma in un orecchio:
Chiamare Barbarossa!

(Delio Tessa, Ore di città. A cura di Dante Isella. Einaudi, 1988)





giovedì 24 luglio 2014

Shock Theater!

Una sera del 1958, una donna descritta da The Saturday Evening Post come "una delle più eminenti ereditiere di Philadelphia" declinò un invito a bridge. Il motivo? Coincideva con l'appuntamento settimanale con Shock Theater, una scorpacciata di cinquantadue film horror Universal d'annata appena venduti a stazioni televisive in tutto il Paese. L'anfitriona, comunque, aveva anticipato l'obiezione della sua invitata. "Ma mia cara", aveva detto, "puoi venire benissimo. Naturalmente quando comincia il programma smetteremo subito di giocare."
Il programma si rivelò qualcosa di più di un vecchio film. La trasmissione di Philadelphia era presentata da un personaggio dall'aria cadaverica con un cappotto da becchino d'occasione, guance scavate, una rista vuota, occhi cerchiati di nero, e labbra che parevano cucite insieme come in una testa d'annegato. Si chiamava "Roland", con l'accento sulla seconda sillaba, per favore.
Nella realtà, Roland era John Zacherle, un trentottenne appassionato di teatro amatoriale che non aveva mai visto alcuno dei classici film horror prima di essere invitato a presentarli. Se avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito passare il tempo a curare rose (aveva vinto diversi premi), ma ora, a quanto pareva, Zacherle lo avrebbe trascorso crescendo margherite.
Quattro anni prima, Vampira era stata una pioniera della bella arte di presentare film horror in televisione, ma era rimasta un fenomeno limitato a Los Angeles senza filiazioni dirette. Shock Theater fornì nuova linfa per banalità sul macabro. "Mostri di cerimonie" cominciarono a spuntare indipendentemente l'uno dall'altro in dozzine di stazioni locali in tutta l'America.
Era stato battezzato "Roland" nel corso di una serie di western giornalieri intitolata Action in the Afternoon, prodotta a Philadelphia. Zacherle era stato scelto per interpretare un becchino viaggiatore sulle piste del vecchio West, profittatore delle frequenti sanguinose sparatorie. Ed White, produttore alla WCAU-Tv, si ricordò il personaggio, contattando Zacherle all'acquisto del pacchetto Shock e scrivendo la maggior parte dei soprannaturali monologhi di Roland. Il personaggio emergeva come una sorta di necrofilo burlone, tra i cui compari figuravano la moglie vampira My Dear (rappresentata da un paletto di legno sporgente da una bara di minuscole dimensioni), e Gasport, un'entità non-morta in un sacco di iuta. Anche se Zacherle pareva masticare le battute con ispirazione demoniaca, lavorava senza particolari modelli per il proprio ruolo; a differenza di Lenny Bruce, non aveva avuto quasi alcuna familiarità con le classiche icone orrorifiche.
Shock Theater fu l'avvenimento inaugurale della Monster Culture, un caotico fenomeno legato ai film horror, iniziato nei tardi anni Cinquanta e continuato fino alla metà dei Sessanta. Nella Monster Culture, i rituali di contorno al film erano importanti quanto i film stessi. Il rituale prevedeva una ricognizione di gruppo sugli avi dei mostri che presentavano; un'esplosione di fanzine che venivano lette, rilette e scambiate tra gli appassionati; e persino la creazione di modellini con effigie in plastica. La cosa più importante era che i mostri si materializzavano in tinello per la prima volta: non più mera luce riflessa nei cinema, ma ora fonte di illuminazione, un falò di splendente luce elettronica intorno al quale una generazione poteva tramare, tremare e condividere. 
A Philadelphia, Roland ottenne un successo superiore a qualsiasi previsione. La stazione invitava i fan a partecipare a un incontro per conoscere "The Cool Ghoul" (Il fantasma alla moda); previsti nell'ordine di qualche centinaio, se ne presentò un'orda di 13.000. John Zacherle si trasferì alla WOR-Tv, un'affiliata newyorkese della CBS, abbandonando il nome Roland in favore di una leggera modificazione del proprio: Zacherley. Un fan ricordava nel 1978 sulla rivista New York la Zacherleymania: "Mio Dio, facevo parte del suo fan club", ricordava lo scrittore Peter Occhiogrosso. "Avevo un tavolo per esperimenti in cantina. E alambicchi e storte, tutto. Ogni ragazzino disegnava aghi ipodermici e cappi sui quaderni di scuola. Le suore sequestrarono la mia ricetta per la zuppa di ragno! Era contraria alla religione cattolica. E ogni domenica il monsignore si alzava dal pulpito e si scagliava contro il male di Shock Theater. Noi ce ne fregavamo."
Zacherley fu anche l'occasione per uno dei primi connubi tra musica pop e macabro. Anni luce prima di Alice Cooper, John divenne un'istituzione di Halloween per la trasmissione American Bandstand. Il suo primo singolo, Dinner with Drac, entrò nel marzo 1958 fra i primi dieci. (In quel periodo vi fu una certa moda per il bizzarro e inclassificabili registrazioni pop; fra gli altri esempi: Flying Purple People Eater e Witch Doctor). Dinner with Drac era fondamentalmente costituito da una serie di macabri limericks recitati con accompagnamento di chitarra jazz. Dick Clark, presentatore di American Bandstand, ricordava le primitive tecniche dello studio di registrazione. "Se volevano eco, dovevano aspettare che il palazzo si svuotasse, poi sistemavano una serie di casse nel salone e le assicuravano al john con un microfono".
Zacherley ebbe la più elevata visibilità nazionale di qualunque presentatore horror, ma non era solo. La WABC-Tv di New York aveva un horror host senza volto noto solo come "The Voice". Fort Worth ospitava Gorgon , New Orleans Morgus. A San Francisco si adorava Terrence, a Chicago Marvin. A Baltimora, l'etere si illuminò con dottor Lucifer. Ghoulardi conquistò Cleveland.
I presentatori horror erano sciamani, cantastorie, figure estreme, anarchici, decostruzionisti prima del tempo. In un'intervista del 1991, John Zacherle ricordava la prima occasione in cui fece veramente parte di un film, invece di accontentarsi semplicemente di presentarlo. "Era The Black Cat, con Boris Karloff e Bela Lugosi. C'era una scena con un gruppo di adoratori del diavolo che assistevano a un rito. Decidemmo di sovrapporvi una mia inquadratura insieme al gruppo, mentre facevo smorfie alla telecamera". I fan lo adorarono. Per tutta l'America, i presentatori horror cominciarono a interrompere e alternare le vecchie pellicole a commenti irriverenti  e oltraggiosi inserti filmici. I film strizzavano l'occhio allo spettatore, e viceversa. I ragazzini si fabbricavano mostri in casa. 

(David J. Skal, The Monster Show. Baldini & Castoldi, 1998)




sabato 12 luglio 2014

La Buona Annata's History Channel: Geo Chavez, trasvolatore

Blériot aveva attraversato il Canale d'Inghilterra con una calma aumentata dal salvagente sotto la camicia, dal cielo turchino e dai gabbiani in disinteressato volo circolare. Il testardo Chavez, invece, traversò in volo per primo le Alpi, fidando nel suo ostinato ardire, ma stordito dalla frivola eccitazione che gli italiani, infidi quanto più sono ingenui, tessevano al loro intorno. Fu infatti per colpa di quegli striduli pensieri che infiammano provvisoriamente i cervelli nelle sere estive, che s'istituirono gara e premio per chi avesse tra il 18 e il 24 settembre del 1910 volato lungo il percorso Briga-Sempione-Domodossola-Milano. Alla chiusura delle iscrizioni risultarono in lista dieci piloti; ma durante i voli di prova la metà di essi dovette ritirarsi a cause d'incidenti vari. Cupe nuvole gravide di pioggia, il 18, dissuasero i cinque temerari rimasti, nessuno partì. Nei giorni seguenti rinunciarono, dimostrando ogni buon senso, Wiencziers tedesco, Aubrun francese, l'italiano Cattaneo: gli aerei erano allora teli malamente incollati come ombrelli, e i vortici di una anche lieve corrente o un temporale sarebbero bastati a rovesciarli. L'americano Weymann e il glabro Geo Chavez, pallido ventitreenne francese con passaporto peruviano, invece attesero che finissero i temporali. Il 23 da Briga alte nuvole illuminavano un'aria che si era illimpidita; e non pioveva. Ma, come fantasmi, albe nuvole basse erano in salita veloce attraverso le Alpi. Weymann vide che le correnti erano ormai troppo mutevoli, biasimò l'ovvia sciocchezza criminale degli organizzatori, pure lui rinunciò. E Chavez pareva quel mattino deciso a imitarlo; ma come tutti coloro insicuri di avere coraggio, inclinava a esagerare. Risolini di dame in altro affaccendate, e non a lui rivolti, l'agitarsi ingenuo di molti berretti, l'abitudine al volo solamente da qualche mese, il primato d'alta quota che aveva sì ottenuto, ma non meritato: il ventitreenne Chavez indossò sopra l'impermeabile alcuni maglioni. Goffo, come un pulcino ingrassato, scaldò il suo Blériot XI monoplano con motore Gnome da cinquanta cavalli, e decollò piuttosto nervoso. L'euforia di una piccola folla composta per lo più da italiani, notoriamente a loro agio in quale che sia ostentata leggerezza, sommerse il lento, sempre più lontano, andare scoppiettante del motore. Sospiri generali; ma subito delusi accompagnarono una iniziale perdita di quota del monoplano. Ma scivolò a onda e si riprese, come su una montagna russa. Salì in morbose lente spirali; e sparì, dirigendo da Briga verso il Sempione. A terra fu un unico grido: via, tutti in automobile. Così mentre il monoplano di Chavez, che era lungo e sbilanciato, ronzava nelle valli, come un zanzaro, la festante carovana di veicoli attraversava, con lui ma ben incollata a terra, quel desolato passo del Sempione bruciato di continuo dal vento. Chavez dall'alto li guardava rassicurandosi; ma tremava e non solo per il freddo. Gli parve che le mani non facessero più presa sui comandi, quando in una vertigine s'accorse che un mobile muro di turbini di vento gl'impediva d'infilarsi nel passo di Monscera. Calcolò addirittura di tornare indietro, e tentare un atterraggio sul Sempione. Ma l'aereo non virava e le ali tese dalle continue ventate e dai sali e scendi sinistramente iniziarono a scricchiolare. Si infilò senza volerlo nelle paurose gole di Gondo. E nel burrone tra due pareti scoscese non badò al farmacista Garimberti, che agitando il berrettone quasi rischiava di cadere nel baratro, soddisfatto di aver indovinato il percorso nel quale le correnti avrebbero trascinato il monoplano. Chavez distinse il pizzo, e persino il pomo d'Adamo pulsante di felicità di costui; ma non sorrise. Era tutto bianco come un lampadario d'alabastro e per la paura respirava con dei piccoli fiati nervosi ma frenetici. Arrivò in vista di Domodossola contro ogni sua già pessimistica previsione, e persino scorse un reggimento di fazzoletti bianchi e scomposti che lo salutava. Sorrise senza aprire la bocca, ma allungandola, guardò per aria, in cielo, e vide. Vide che a ogni oscillazione l'attaccatura delle ali si piegava segandosi di un poco: solo dei cavi, sempre più cigolanti, reggevano le ali sulla loro verticale. Pianse. Ma dai binocoli che si distribuivano tra la folla davanti a un lungo filare d'abeti che parevano cipressi nessuno se ne accorse. Risuonavano evviva entusiasti, ed epidemie d'applausi. Risa, congratulazioni di tutti a tutti, incassi di scommesse, signorine col muso, fidanzati che si vantavano di poterlo rifare loro, molto delusi che non ci fosse scappato ancora il morto: l'aura di fatua idiozia che accompagnò la prima trasvolata delle Alpi. Videro il monoplano lento avvicinarsi con regolare volo al prato per atterrare; cento, cinquanta, quindici metri. Già era scoppiato l'applauso, quando l'aereo s'arrestò: le sue ali si richiusero a libro. Il monoplano Blériot XI a cinquanta cavalli cadde con un rumore d'aquilone rotto tra le ferraglie. Il povero Chavez fu estratto dai rottami ancora vivo e a prima vista senza ferite, e addirittura nulla di rotto. Fu portato all'ospedale di Domodossola. Morì quattro giorni dopo, forse di stupore. "Perché non avrà sosta colui che cerca finché non abbia trovato. E quando avrà trovato rimarrà attonito e invaso di stupore."

(Geminello Alvi, Vite fuori del mondo. Mondadori, 2001)





sabato 5 luglio 2014

La Buona Annata's Literary Supplement: L'avvocato e lo spettro

Conoscevo un tale... vediamo... sarà stato quarant'anni fa... che aveva preso alloggio in alcune stanze vecchie, umide e mezze marce in una delle locande più antiche, locali rimasti chiusi e vuoti ormai da anni. Riguardo al posto le storie delle vecchie comari si sprecavano, un posto, quest'è certo, tutt'altro che allegro; senonché quel tale era povero e i locali venivano poco, ragione più che valida ai suoi occhi, quand'anche fossero stati in condizioni dieci volte peggiori. Per giunta, si vide costretto a rilevare dei mobili marcescenti rimasti all'interno, fra cui un grosso, ingombrante stipo di legno per i documenti con ampi sportelli a vetri e una tenda verde dentro: cosa perfettamente inutile per lui, che di carte da riporci non ne aveva; quanto ai vestiti, se li portava addosso, e non è che facesse tutto questo sforzo.
Una volta traslocato il suo mobilio (che un carro non riempiva) e sparpagliate ch'ebbe le sue quattro sedie, sì da farle sembrare per quanto possibile una dozzina, scesa la sera si era andato a piazzare davanti al fuoco, per bersi il primo bicchiere di whisky dei due galloni ordinati a credito, chiedendosi se mai l'avrebbe pagato e, in tal caso, quanti anni ci avrebbe impiegato, quando l'occhio gli cadde sugli sportelli a vetri dello stipo.
- Ah! - esclamò - Se non fossi stato costretto a rilevare questa specie d'attrezzo come pattuito col sensale, ci avrei preso qualche cosa di più utile a quel prezzo. Sai che ti dico, vecchio mio - disse rivolto ad alta voce allo stipo, visto che non c'era nient'altro cui parlare - se me ne venisse anche solo qualcosa a farti a pezzi e a buttarti nel fuoco, farei un falò della tua vecchia carcassa in men che non si dica.
Non aveva fatto in tempo a pronunciare quelle parole che un suono simile a un fievole lamento parve giungere dall'interno del contenitore. Sulle prime ebbe un sussulto ma, a rifletterci, pensò che si trattasse di qualche giovanotto che rientrava dopo cena nella stanza accanto, e poggiò i piedi sul parafuoco, sollevando l'attizzatoio per sbraciare il fuoco.
In quell'istante il suono si ripeté, e uno degli sportelli a vetri, schiudendosi lentamente, offrì alla vista una figura pallida ed emaciata in vesti lerce e lacere, dritta in piedi nello stipo. La figura era lunga e magra, in un'espressione d'affanno e d'angoscia impressa in volto; c'era però qualcosa nel colore della pelle, nell'aspetto sparuto e innaturale di tutta la persona, quale non è dato vedere in nessun essere vivente. 
- Chi siete? - disse il nuovo inquilino sbiancando come un cencio, pur soppesando in pugno l'attizzatoio e puntando con precisione alla testa di quell'essere -. Chi siete?
- Non mi tirate l'attizzatoio - replicò la figura -. Anche se lo scagliaste con la mira più precisa, mi attraverserebbe senza incontrare resistenza, andando a urtare contro il legno alle mie spalle. Io sono uno spirito.
- E cosa cercate qui, di grazia? - balbettò l'inquilino.
- In questa stanza - replicò l'apparizione -, si è compiuta la mia rovina terrena e io e i miei figli ci siamo ridotti alla miseria. In questo stipo si son venute per anni accumulando le scartoffie di un lungo, lunghissimo processo. In questa stanza, quando sono morto di crepacuore e di speranza sempre delusa, due subdole arpie si sono spartite i beni per i quali mi ero battuto durante tutta un'esistenza miserabile, e di cui nemmeno un soldo è poi toccato alla mia sfortunata progenie. Di qui io le ho cacciate con terrore e da quel giorno mi aggiro di notte, unico momento in cui mi è dato rivisitare la Terra, sulla scena della mia interminabile miseria. Questa stanza è mia: lasciatemela!
- Se insisterete nelle vostre apparizioni - disse l'inquilino, che aveva avuto tempo di ritrovare la presenza di spirito, nel mentre lo spettro si profondeva  in spiegazioni -, vi lascerò padrone del campo con il massimo piacere ma, se permettete, vorrei farvi una domanda. 
- Dite pure - disse lo spirito con cipiglio.
- Non è che mi riferisca a voi personalmente - disse l'inquilino -; per quanto ne so la cosa vale per la maggior parte dei fantasmi ma io trovo piuttosto illogico che, con l'opportunità che avete di visitare i luoghi più incantevoli del globo (giacché la distanza, m'immagino, per voi non conta niente), dobbiate tornare sempre e puntualmente nei luoghi dove avete maggiormente tribolato.
- Perbacco, ma è verissimo; non ci avevo mai pensato prima - disse lo spettro.
- Il fatto è che, signore mio - proseguì l'inquilino -, questa stanza è assai poco accogliente. Dall'aria che ha, io direi che lo stipo non va del tutto esente dalle cimici; secondo me un alloggio più accogliente dovreste ben trovarlo; e non parliamo poi del clima di Londra, pessimo quant'altri mai.
- Voi avete tutte le ragioni, signor mio - disse con cortesia lo spettro -; non mi era mai passato per la testa prima d'ora; proverò a cambiare aria immantinente.
Difatti, mentre ancora parlava, cominciò a svanire; anzi, le gambe eran già belle che sparite!
- A proposito - gli lanciò dietro l'inquilino -, se aveste la bontà di suggerire agli eventuali altri signori e signore attualmente impegnati a bazzicar le vecchie case disabitate che potrebbero trovarsi molto più comodi altrove, rendereste un grandissimo servigio alla società.
- Lo farò - rispose lo spettro -. Certo che noi fantasmi siamo proprio fessi, ma fessi davvero; come abbiamo potuto essere così stupidi, io non so capacitarmene.
Con queste parole lo spirito scomparve e, cosa alquanto insolita, non si fece più vedere.

(Charles Dickens, I racconti di fantasmi. Theoria, 1989)